Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

63a SEDUTA

MERCOLEDI 23 FEBBRAIO 2000

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

Indice degli interventi

PRESIDENTE
CAPPELLETTI
BIELLI (Dem. di Sin.-L’Ulivo), deputato 1 - 2 - 3 - 4
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore 1 - 2
GIORGIANNI (PPI), senatore
MANCA (Forza Italia), senatore 1 - 2
VENTUCCI (Forza Italia), senatore 1 - 2

 

La seduta ha inizio alle ore 20,05.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Do il benvenuto al collega Giorgianni, che per la prima volta partecipa ai lavori della Commissione.

Mi scuso per il ritardo, ma concomitanti impegni d'Aula (non era previsto un ostruzionismo sulla proroga del decreto Ronchi) mi hanno costretto ad essere presente in Aula ed hanno determinato questo ritardo.

Invito il senatore De Luca Athos, segretario f.f., a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

DE LUCA Athos, segretario f.f., dà lettura del processo verbale della seduta del 10 febbraio 2000.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l’ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti il cui elenco è in distribuzione e che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell’inchiesta.

Informo che in data 11 febbraio 2000 il Presidente del Senato della Repubblica ha chiamato a far parte della Commissione il senatore Gianni Nieddu in sostituzione del senatore Palmiro Ucchielli, dimissionario.

Informo altresì che il signor Silvano Girotto ha provveduto a restituire, debitamente sottoscritto ai sensi dell'articolo 18 del regolamento interno, il resoconto stenografico della sua audizione del 10 febbraio 2000, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale.

Informo infine che l'Ufficio di Presidenza riunitosi il 17 febbraio u.s. ha deliberato di affidare al dottor Giovanni Cipriani un incarico di collaborazione a tempo determinato vertente sul lavoro di ricerca presso gli archivi CIA, con particolare riferimento ai fenomeni di eversione e di terrorismo che hanno interessato il nostro Paese.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL PROFESSOR VINCENZO CAPPELLETTI, VICE PRESIDENTE E DIRETTORE SCIENTIFICO DELL'ISTITUTO DELL'ENCICLOPEDIA ITALIANA.

Viene introdotto il professor Vincenzo Cappelletti

PRESIDENTE. Abbiamo oggi all'ordine del giorno l'audizione del professor Vincenzo Cappelletti, vice presidente e direttore scientifico dell'Istituto dell'enciclopedia italiana, che ringrazio della sua disponibilità ad aver accolto il nostro invito per questa libera audizione. Come i colleghi ricorderanno, il professor Cappelletti è stato uno dei consulenti di cui il Ministro dell'interno si avvalse durante i 55 giorni del sequestro Moro. Noi su questo aspetto della complessa vicenda abbiamo già udito, come ricorderete, il professor Silvestri, che era un altro degli esperti. Quindi muovo dalle acquisizioni rese possibili da quella audizione per rivolgere come sempre delle domande iniziali al professor Cappelletti, utilizzando solo in parte il lavoro che hanno fatto i nostri consulenti, che mi auguro che sia poi utilizzato per intero dagli altri commissari.

Professore, il professor Silvestri ci ha detto che, oltre ai due noti comitati di crisi, vi era poi questo gruppo di esperti di cui si avvaleva il Ministro dell'interno. Ci chiarì però che voi non lavoravate come un comitato, cioè come un organo collegiale, ma eravate piuttosto dei consulenti nominati senza nemmeno un formale incarico e di cui di volta in volta il Ministro dell'interno riteneva di servirsi. Non le nascondo che la sua presenza tra questi esperti ci incuriosì, tanto che fui proprio io a domandare al professor Silvestri quale fosse il suo specifico apporto in questo informale gruppo di lavoro che si era costituito. Ma Silvestri, in coerenza con la sua versione complessiva del lavoro, disse che non si lavorava in staff, ma ognuno per conto proprio, e quindi non sapeva assolutamente quale fosse né la competenza, né l'apporto specifico di un uomo di cultura come il professor Cappelletti ai difficili problemi di quei giorni. Io vorrei chiederle innanzitutto se lei ci conferma il carattere informale di questo gruppo di esperti; e poi se ci conferma che in realtà foste personalmente chiamati, in virtù dei rapporti personali col Ministro dell'interno, l'attuale senatore Cossiga; le chiedo infine di spiegarci quale fu in particolare il suo ruolo e quali furono i suoi apporti nella difficile contingenza in cui il Ministero dell'interno, in realtà tutto l'apparato statuale e la politica italiana, si trovarono dopo il rapimento di Aldo Moro.

CAPPELLETTI. Ringrazio dell'invito a comparire, signor Presidente, e prego di credere che metterò a sua disposizione dati frammentari, ma forse anche parzialmente significativi, quali quelli che posso desumere dal compito che svolsi in quella occasione. La prego anche di credere che tutto quanto io possa aver saputo o avere intuito è a disposizione di quest'organo del Parlamento, che ha un'altissima responsabilità e verso il quale nessuna reticenza potrebbe giustificarsi.

Il giorno del rapimento del presidente Moro seguiva ad una lunga visita che io gli avevo fatto nello studio di via Savoia, dove mi era parso che il presidente Moro volesse molto parlare, confessarsi, intrattenersi su questo Paese che - mi disse - rifiuta i bavagli, questo Paese che vuole esprimersi, questo Paese ricco di desiderio di libertà, eccetera. Mi colpì molto quello su cui il presidente Moro mi intrattenne e riteneva di dover parlare con me su questo perché c'era la comune esperienza della FUCI, di cui lui era stato presidente, traverso la quale io ero passato in anni successivi come responsabile nazionale delle attività culturali. Ero stato centro al congresso di Bologna sul rinnovamento dell'università nella società contemporanea del 1953, che tanta importanza aveva assunto in quel momento per le vicende degli universitari cattolici e dove nacque l'amicizia, molto cordiale, molto cara, col futuro ministro dell'interno Cossiga. A Palazzo Chigi mi era accaduto di scrivere per il presidente Moro delle bozze di discorsi che egli fece, in particolare quello del 4 novembre 1966. Il discorso di Redipuglia lo aveva molto commosso, molto colpito ed io avevo scritto per lui, a richiesta dei suoi collaboratori, bozze di discorsi che sapevo essergli piaciute. I trascorsi nella FUCI e la redazione di questi discorsi, forse anche la vicenda dell'enciclopedia, che aveva avuto un momento difficile nel 1969-70, ma si era salvata e si era poi ripresa, avevano cementato questo rapporto di fiducia con il presidente Moro.

PRESIDENTE. Lei aveva un rapporto di consuetudine, quasi di amicizia, sia con Moro che con Cossiga?

CAPPELLETTI. Con Cossiga molto viva, direi proprio fraterna. Con il presidente Moro un rapporto più distante, non da me in alcun modo forzato, un rapporto che io sapevo essere animato da fiducia, forse anche da stima da parte del Presidente; lo era certamente da parte mia nei suoi riguardi.

Elemento connettitore d’ufficio era l’ambasciatore Pompei, nei confronti del quale il Presidente aveva particolare fiducia. Vi era anche nella segreteria Corrado Guerzoni con il quale avevo un rapporto di amicizia. Era però soprattutto l’ambasciatore Pompei e l’allora ministro Cottafavi che tenevano i rapporti per testi di discorsi che ebbi occasione di preparare per il presidente Moro. Questo incontro – forse è anche ricostruibile la data; ho dedicato un articolo di ricordo del Presidente dopo le tragiche giornate della morte – precedette di poco l’evento del rapimento che per me cadde mentre stavo facendo lezione a Barcellona, invitato dallo storico della medicina di Barcellona, professor Felipe Cid. Nel mezzo della lezione si verificò un trambusto; in particolare, un mio allievo, il dottor Federico Di Trocchio entrava ed usciva; i baroni erano meno disposti allora a tollerare questi comportamenti, talché dissi infine al dottor Di Trocchio, candidato al successivo concorso per la storia della scienza nella università della sua città, cosa faceva e lui disse: "Hanno rapito il presidente Moro". Io gli risposi che non doveva raccontare sciocchezze. E lui mi disse di chiamare l’Enciclopedia italiana, di cui ero Direttore generale in quel momento difficile di ripresa: il fischio delle camionette che sentimmo quando sollevammo il telefono contattando la mia segreteria ci dette la conferma che effettivamente vi era stato il rapimento di Moro. Ancora le coincidenze continuarono: tornato in albergo - di quelli a tre stelle che le università offrono a noi professori, decorosi tanto che talvolta sono da preferire anche a quelli a quattro stelle - mi stavo facendo una doccia nella toilette dove vi era il telefono a portata di mano. Talché presi il microfono e sentii la voce del presidente Cossiga che mi diceva di tornare immediatamente. Tornai il giorno successivo; lo raggiunsi al Viminale. Forse lo stesso presidente Pellegrino o qualcuno di loro ha avuto occasione di vedere il Viminale con le brandine del Gabinetto, di tutta la segreteria e di tutti i capi delle direzioni generali nel corridoio poiché non si prevedeva di tornare a casa. Il capo della segreteria era allora il prefetto Squillante, poi Commissario presso la regione Umbria e credo consigliere di Stato. Il Ministro dell’interno – passo attraverso un racconto assolutamente veridico e completo per quanto mi ricordo ma, come è noto, il ricordare, sollecitato che sia, porta al dissotterramento di cose non immediatamente ricordabili – mi dette dei comunicati delle Brigate rosse (uno o due, non ricordo) e chiese chi li avesse scritti. Ho già detto ciò al presidente Pellegrino che ci ha fatto il piacere di venire a visitare l’Enciclopedia e la mia risposta di allora la ripeto qui: "Questi vengono dalle facoltà di sociologia". Il linguaggio è quello; non è scientifico né accademico; è il politichese accademico che in quel tempo aveva una sua facile riconoscibilità. Mi chiese che cosa volesse significare la mia risposta. Io gli dissi: "Se tu hai facoltà di mettere sotto controllo i telefoni di una decina di facoltà di sociologia ti può servire". La cosa dovette apparire talmente bizzarra che non si dette molto seguito a questo, ma fu la prima risposta che detti al Ministro dell’interno che mi invitò a costituire una commissione di esperti per valutare più precisamente questi comunicati, le lettere del Presidente Moro, le circostanze e così via.

PRESIDENTE. Precisiamo questi primi punti: non ci fu un decreto di nomina dei vari esperti?

CAPPELLETTI. Non ricordo; però dovrei dire di no. Fu una cosa, come lei diceva, signor Presidente, tenuta sul piano fiduciario.

PRESIDENTE. Naturalmente, quindi, gli incarichi dovettero essere tutti gratuiti; altrimenti sarebbe stato necessario un decreto di nomina.

CAPPELLETTI. Abbiamo detto che io dirò esattamente tutto quello che so e che ricordo; al termine, una nobilissima lettera del Presidente del Consiglio mi allegava un modesto assegno di circa duecentomila lire, una cifra di questo genere, per comprare dei libri in cambio del tempo da me perso.

MANCA. Il Presidente del Consiglio o il Ministro dell’interno?

CAPPELLETTI. Il Ministro dell’interno. Credo che questo sia conservato anche nel mio archivio.

PRESIDENTE. Fu lei a suggerire gli altri nomi?

CAPPELLETTI. Devo dire di sì. Mi sono sempre tenuto nel riserbo finché mi è stato chiesto di recarmi qui.

PRESIDENTE. Dall’autorità giudiziaria non è mai stato sentito?

CAPPELLETTI. No; non sono mai stato sentito. A questo riguardo mi sembra di ricordare che il professor Ferracuti, a cui va il mio ricordo essendo morto, si sia attribuito il merito o, comunque, il compito di aver nominato questa commissione di esperti. Questo non è vero. Sono stato io a proporre Ferracuti, e – mi sembra di ricordare – il linguista Mario Medici, anche lui morto, che era all’Enciclopedia.

PRESIDENTE. Questa sarebbe una novità perché in base a quanto sappiamo gli esperti furono il professor Silvestri, esperto in relazioni internazionali, il professor Ferracuti, criminologo; il professor Ermentini, esperto di antropologia criminale…

CAPPELLETTI.da me proposto...

PRESIDENTE. ... il professor Baldelli, mi risulterebbe….

CAPPELLETTI. Baldelli, sì, giustissimo.

PRESIDENTE. Per acquisizione successiva abbiamo saputo che ne facevano parte anche la professoressa Conte Micheli come psicografologa ed il professor D’Addio, preside della facoltà di scienze politiche di Roma.

CAPPELLETTI. Mia proposta. Credo che il nome della grafologa venne dallo psicologo.

PRESIDENTE. Ve ne furono altri o no?

CAPPELLETTI. Silvestri era un cossighiano; probabilmente venne per invito di Cossiga perché era nell’Istituto rapporti internazionali e forse lo è ancora. Cossiga lo volle. Fu Cossiga a proporre Silvestri. Ferracuti fu una mia proposta; forse avevo indicato anche Medici, ma Baldelli era un grande linguista e poteva dare un forte contributo; lo psichiatra era Ermentini.

PRESIDENTE. Questo è un po’ il nodo della questione perché dal mio punto di vista, ma penso anche di interpretare il pensiero di alcuni dei colleghi il problema di Moro era innanzitutto di polizia e di polizia giudiziaria. Vi era stato l’omicidio plurimo della scorta; vi era un sequestro di persona. Le Brigate rosse non nascevano quel giorno; addirittura i vertici delle Brigate rosse, dopo che erano stati arrestati grazie ad infiltrazioni note come quelle di Girotto e di Pisetta, erano riusciti ad evadere. Cioè, non si trattava di un fenomeno sconosciuto o misterioso o, perlomeno, non avrebbero dovuto esserlo. Degli intellettuali come lei o come il linguista, il professor Baldelli, cosa potevano fare di utile? Personalmente, mi auguro che non accada, ma se venisse rapito un uomo della seconda Repubblica dalle nuove Brigate rosse e mi chiamassero a far parte di un comitato di esperti, con tutta l’esperienza che ho fatto qui dentro sulle Brigate rosse vecchie e nuove, non penso che riuscirei a dare un grande contributo. Voi che contributo davate?

CAPPELLETTI. Lei mi fa una domanda che richiede un attimo di riflessione, una riflessione non tacita ma espressiva: l’oscurità era totale, Presidente. Poiché anche io ero nell’oscurità, perché non possedevo elementi di luce, tranne il fatto che la lettura del testo me lo fece attribuire al politichese universitario, cosa che poi, ad onta di quel che si credette in quel momento, ebbe conferma; cioè, il testo non veniva da rivoluzionari extra-culturali. Veniva da rivoluzionari…Cioè, non si sapeva nulla...

PRESIDENTE. Questo sarebbe bene che ce lo spiegasse. In realtà, il vertice delle Brigate rosse, secondo quanto risulta dall’accertamento giudiziario dell’epoca, è costituito da Mario Moretti, la Balzerani, Bonisoli, Micaletto ed Azzolini. Nessuno di questi è un intellettuale: molti venivano da esperienze operaie, anche se avevano quel retroterra culturale diffuso di tutta l’estrema sinistra.

CAPPELLETTI. Forse c’erano anche dei consulenti, anche dall’altra parte, cioè c’erano delle trasmissioni di matrici linguistiche che potevano ottenersi anche con una telefonata. Non era un linguaggio estraneo al movimento delle idee culturali quello che traspariva nei primi comunicati che io lessi. Le risponderei allora in questo modo, Presidente: l’oscurità mi parve totale. Io chiesi di poter porre alcune domande, non per ragioni di curiosità ma tanto per orientarmi. Chiesi – e qui devo dire una cosa grave – se era vero che la macchina del presidente Moro non aveva un circuito radiofonico innestato. La risposta che mi fu data fu: "La prego di non inoltrarsi in queste domande, perché non è il caso, né di porle, né di rispondere". Mi parve di capire cioè che questa macchina non fosse in contatto radio con una centrale di polizia. Ebbi l’impressione di una polizia assente, di una mancanza di dati conoscitivi larghissima. Il rapporto tra questi operatori del sequestro e i nuclei culturali alle loro spalle, che traspariva palesemente dal linguaggio che usavano, era ritenuto un’illazione molto soggettiva, poco probabile, prima che si vedessero i rapporti con Padova e anche con altri ambienti. Forse ciò che l’analisi scoprirà è proprio questo coinvolgimento. Che cosa potevamo fare noi? Formulare ipotesi e preparare interventi, essendo nell’impossibilità in quel momento di compiere qualsiasi altra operazione; inserirsi in certe pieghe psicologiche che potevano manifestarsi nei comunicati dei brigatisti e nelle lettere del presidente Moro; formulare ipotesi e preparare linee di intervento che seguissero delle pieghe che si intravedevano. Cioè, vi erano spazi per la trattativa? Non ve ne erano? L’impressione, e non soltanto mia, fu quella di muoverci in una totale assenza di elementi conoscitivi. La nostra attività poteva essere volta alla fornitura di qualche ipotesi e l’esser pronti ad intervenire se si fossero visti degli spiragli. In particolare, si cominciava allora a conoscere la sindrome di Stoccolma, che poi è diventata così diffusa; questo argomento fu oggetto di alcune sedute perché nessuno ne sapeva nulla. Operavamo con una Polizia che credo avesse perduto anche dei propri schedari, che erano stati eliminati, come quelli del SIFAR; cioè, al buio totale.

PRESIDENTE. Lei ha accennato a questo problema della trattativa. Il professor Silvestri ci ha a lungo riferito del ruolo di questo gruppo di esperti informale. Ricorda se delle vostre riunioni esiste una verbalizzazione?

CAPPELLETTI. Direi di no; non ricordo nulla. Deve esserci presso di me una cartella, Presidente, se questa c’è gliela trasmetterò integralmente, ma sono poche cose.

PRESIDENTE. Sarebbe utilissima e di questo la ringrazieremmo. Il professor Silvestri ci ha parlato del ruolo di questo esperto americano che ad un certo punto si aggiunge a voi, Pieczenik, e ci ha detto che questo era del parere che una trattativa doveva invece aprirsi, distinguendo due livelli. A livello politico, egli riconosceva che era opportuno assumere la posizione che poi si assunse, cioè quella di un rifiuto netto della trattativa. A livello operativo, invece, poteva essere opportuno aprire una trattativa, non fosse altro per guadagnare quel tempo necessario a far sì che le indagini di polizia consentissero l’individuazione del luogo di prigionia di Moro e la sua liberazione. Su questo contrasto di linee o sui dubbi sulla linea opportuna ci può dire niente?

CAPPELLETTI. Io ero nel gruppo degli esperti, che io stesso avevo suggerito e del quale non faceva parte Silvestri, legato da una vecchia amicizia al ministro Cossiga …

PRESIDENTE. Silvestri ci ha detto che con Pieczenik ebbero rapporti soprattutto lui e Ferracuti.

CAPPELLETTI. Si introdusse una certa discriminazione, forse ideologica, tra il cattolico Cappelletti e il laico Ferracuti nei riguardi di un alto ufficiale dei carabinieri che compariva in questa commissione; non grato il cattolico Cappelletti. Mi riferisco al generale Grassini, il quale avrebbe suggerito al professor Ferracuti, che era un mio carissimo amico - egli non è più -, l’opportunità di iscriversi alla P2; cosa che non poté suggerire a me perché avrei rifiutato.

PRESIDENTE. Quindi, l’aggancio tra la P2 e Ferracuti avviene addirittura all’interno di questo gruppo di lavoro?

CAPPELLETTI. Come mi fu detto da Ferracuti. Devo stare a cose che mi furono dette da Ferracuti e che mi pare difficile pensare che possano essere state inventate.

PRESIDENTE. Ma voi discuteste del problema trattativa sì, trattativa no?

CAPPELLETTI. Il comitato, che fu poi, lo ripeto, un po’ in parte trasferito anche fuori – forse in parte dal Ministro, per quanto riguarda il professor Silvestri, in parte dal generale Grassini, per quanto riguarda Ferracuti - discusse molto delle varie ipotesi. Ferracuti, che era un entusiasta del suo lavoro e che era un uomo molto vivo, in contatto con la criminologia americana, affermò addirittura che si offriva fin da quel momento nel caso in cui doveva esservi qualcuno in ostaggio alle Brigate rosse. Lo disse con grande entusiasmo. Per proteggerlo - Ferracuti era rimasto un po’ un bambino -, gli fu regalata una fondina con pistola che egli portava sotto la giacca e continuava a ripetermi: "Se mi vedo minacciato, sparo. Preferisco un brutto processo a un bel funerale". Era persona che aveva un senso spavaldo. Le ipotesi sulla possibilità di prendere contatto furono esaminate con cura al punto che, ripeto, il criminologo Ferracuti disse che se era necessario un ostaggio lui sarebbe stato pronto e che noi non ci saremmo dovuti fare scrupoli.

PRESIDENTE. Quale decisione fu presa? La decisione politica è nota: non bisognava trattare.

CAPPELLETTI. Ci furono discussioni molto accademiche. L’impressione era che tra questo nucleo di carcerieri di Moro e ciò che avveniva fuori ci fossero tramiti sconosciuti, imprecisabili, forse addirittura paradossali, per cui questi soggetti sapevano molto, tutto e lo sapevano per tempo. Dalla Democrazia cristiana mi è stato poi accennato il fatto che il presidente Moro sarebbe stato ucciso il giorno prima di una riunione nella quale il senatore Fanfani avrebbe avanzato una proposta concreta per la trattativa. Avvertiti di questa intenzione di Fanfani, così come di tante altre informazioni che essi riuscivano ad avere per vie imprecisabili - le ipotesi arrivano fino al paradosso - questi si sarebbero liberati di Moro. Probabilmente lei, signor Presidente, è già informato di questo.

PRESIDENTE. Sono anni che ci occupiamo della vicenda. Se ho ben capito, questo suo ruolo, e probabilmente anche quello del linguista, fu quello di esaminare con attenzione i comunicati delle Brigate rosse.

CAPPELLETTI. Era il ruolo anche del professor D’Addio, persona di grande elevatezza.

PRESIDENTE. Evidentemente, man mano che i comunicati venivano emessi voi li esaminavate tutti.

CAPPELLETTI. Noi li esaminavamo ed il nostro compito era anche quello di continuare a tessere tutta la rete di ipotesi sulla trattativa insieme a Ferracuti che continuava a far parte del gruppo anche se poi era convocato ed utilizzato riservatamente su altro piano.

PRESIDENTE. Vorrei porle un’ultima domanda multipla volta a verificare un’ipotesi su cui la Commissione sta lavorando, ipotesi inizialmente mia, ma ho l’impressione che alcuni colleghi cominciano a convincersi del fatto che è opportuno esaminarla a fondo anche se essa non si traduce ancora in certezza.

Tale ipotesi trae spunto proprio dai comunicati delle Brigate rosse, in particolare dal comunicato n. 3 in cui Moretti - che si attribuisce la paternità dei comunicati - inserì per intero la lettera del 29 marzo che Moro scrisse a Cossiga. Questa lettera, per i suoi contenuti, evidentemente era stata scritta da Moro sulla base dell’intesa con i suoi carcerieri che essa doveva rimanere segreta. Infatti, la lettera si conclude in questo modo: "Converrà che tu tenga, d’intesa con il Presidente del Consiglio, riservatissimi contatti con pochi qualificati capi politici, convincendo gli eventuali riluttanti. Un atteggiamento di ostilità sarebbe un’astrattezza ed un errore". Si parla poi anche di contatti discreti con la Santa Sede. E’ chiaro quindi che la lettera viene scritta da Moro perché Moretti gli aveva assicurato che non sarebbe stata resa pubblica. Moretti, invece, la rende pubblica e questo dà inizio al conflitto tra Moretti e Morucci all’interno delle Brigate rosse; Morucci infatti, contestava il fatto che la pubblicazione di tale lettera rendeva la trattativa più difficile ed era quello cui loro miravano. Nel suggerire la linea della trattativa, Moro disse testualmente "di correre il rischio di essere chiamato e indotto a parlare in maniera che potrebbe essere sgradevole e pericolosa in determinate situazioni". Il discorso poi viene esteso in termini più generali perché si dice che era estremamente probabile che ci sarebbero stati danni sicuri e incalcolabili. Nella lettera infatti si dice: "Il danno del rapito estremamente probabile non regge in circostanze politiche dove si provocano danni sicuri e incalcolabili non solo alla persona ma allo Stato". Pertanto, sembra che Moro dica in maniera trasparente che "al processo cui sono sottoposto, perché sono preda di un dominio incontrollato, mi potrei trovare nella condizione o di dire cose sgradevoli e pericolose in determinate situazioni o addirittura di provocare danni sicuri e incalcolabili allo Stato". Moro sembra quasi invocare la ragion di Stato come vero motivo per un’apertura della trattativa. Quale fu la vostra valutazione in merito a questa lettera a fronte della verità ufficiale che immediatamente si era formata ed in base alla quale Moro in realtà non aveva niente di grave da rivelare alle Brigate rosse?

CAPPELLETTI. Le persone che facevano parte del comitato erano uomini di scienza di alto bordo, non tanto facilmente inclini a sposare le soluzioni di comodo. D’Addio, che era una persona di alto rispetto, dava molto peso a questo dato e aveva espresso alcune preoccupazioni, mentre Ferracuti svolgeva i termini psicologici della solidarietà del carcerato con i carcerieri, elaborando quindi la cosiddetta "sindrome di Stoccolma".

PRESIDENTE. Cosa pensava invece D’Addio?

CAPPELLETTI. D’Addio, uomo cauto, conservatore, pensava che in mano di Moro effettivamente ci fossero dei contenuti forti la cui pubblicazione era pericolosa.

PRESIDENTE. Quale fu la vostra valutazione in ordine alla verità ufficiale che Moro non sapeva niente? A lei che lo conosceva bene sembra possibile che un politico che era stato Presidente del Consiglio e Ministro degli esteri non sapesse nulla di importante?

CAPPELLETTI. Signor Presidente, con la libertà dei professori devo affermare che io ebbi una sconsolata impressione dello stato in cui versava il Dicastero dell’interno nella sua totalità: era preda di ingenuità, di non informazioni, di disinformazioni, di incapacità di agire. Ebbi una sconsolata impressione di deserto, di povertà di incapacità di azione. Lei, come gli onorevoli commissari, avrà saputo anche questo. Il consigliere Manzari presso Moro era persona con la quale io intrattenevo rapporti di cordialità. Il consigliere Manzari mi riferì che erano state segnalate delle auto che seguivano quella di Moro nei giorni precedenti al suo rapimento e nessuno aveva dato peso a questo fatto. Per quanto mi riguarda, dell’ambiente in cui mi trovavo ebbi una sconsolata impressione di disarmo professionale e credo che le lezioni del brillante amico Ferracuti sulla "sindrome di Stoccolma", le analisi linguistiche di Baldelli che furono certamente da non sottovalutare sotto il profilo dello studio di questi linguaggi, o le dichiarazioni del professor D’Addio o dello psichiatra Ermellini riempissero un vuoto totale; per fortuna in seguito le forze dell’ordine procedettero portandosi su ben altre posizioni!

PRESIDENTE. Ritengo però che in quella situazione in cui vi era da una parte Moro che dichiarava: "potrei parlare" e dall’altra il comunicato n. 3 che si chiudeva con la seguente frase: "l’interrogatorio prosegue con la piena collaborazione del prigioniero", l’unica cosa che potesse fare lo Stato fosse quella di provare a fare controinformazione affermando che Moro non sapeva niente proprio al fine di depotenziare questo tipo di minaccia, e credo che questo fosse valido anche a livello di opinione pubblica. Ripeto, credo si possa dare questa spiegazione, e cioè che si costruì una verità formale che si andò consolidando, in base alla quale Moro non poteva dire niente alle Brigate rosse semplicemente perché non sapeva niente. Successivamente, nel comunicato n. 4 Moretti rilanciò con forza il tema della trattativa pubblicando ancora un’altra lettera di Moro, questa volta diretta all’onorevole Zaccagnini. In essa si dichiarava che le Brigate rosse volevano una trattativa visibile e trasparente dal momento che quello era sostanzialmente il prezzo politico che la Democrazia cristiana e il Governo dovevano pagare. Nel comunicato si afferma: "Certo perseguiremo ogni strada che porti alla liberazione dei comunisti tenuti in ostaggio dallo Stato imperialista, ma denunciamo come manovre propagandistiche e strumentali i tentativi del regime di far credere nostro ciò che invece cerca di imporre: trattative segrete, misteriosi intermediari, mascheramento dei fatti". In questo caso, quindi, Moretti sembra far riferimento a episodi concreti di "trattative segrete" e "misteriosi intermediari". Nell’analisi di questo comunicato che valutazione effettuaste?

CAPPELLETTI. Signor Presidente, non avevamo come riempire di contenuti concreti le cose che Moretti diceva e ignoravamo se queste trattative ci fossero realmente. La linea ufficiale era quella di non trattare in alcun modo; ogni tanto giungeva notizia che c’erano stati elementi trasmessi dai servizi di informazione, ma, ripeto, per quanto mi riguarda continuavo ad avere l’impressione di un vuoto totale nel quale ci si muoveva.

PRESIDENTE. Precedentemente lei, professor Cappelletti, ha dichiarato che esisteva tutta una strana cinghia di trasmissione per cui avevano l’impressione che le Brigate rosse sapessero…

CAPPELLETTI. Sì, lo confermo, erano informati per tempo di ciò che avveniva, ma in che modo e attraverso chi non so dirlo.

PRESIDENTE. Queste linee non potevano funzionare anche a rovescio nel senso che potevano essere i canali effettivi di quella trattativa che a parole veniva negata e che invece di fatto si stava intessendo? Infatti, ho l’impressione che Moretti, al di là del background sociologico di cui era imbevuto, fosse uno che pesava le parole nei comunicati, e quindi le espressioni "trattative segrete" e "misteriosi intermediari" non credo fossero scritte a caso.

CAPPELLETTI. Il termine "intermediari" funziona nei due sensi, tuttavia chi fosse a funzionare in tal modo non saprei dirlo. Avevamo la netta impressione, tante volte non confermata, di chiacchiere senza prove concrete, che ci fossero canali verso le Brigate rosse, ma di canali dalle Brigate rosse, cioè di intermediari nel senso italiano del termine debbo dire che non ci constava.

PRESIDENTE. Qualcuno degli "intellettuali", secondo il termine da lei precedentemente utilizzato, avrebbe potuto dare suggerimenti ad esempio per telefono?

CAPPELLETTI. Signor Presidente, quello fu il periodo in cui si verificò un grande attacco alle strutture universitarie tradizionali da parte delle facoltà di sociologia prima maniera, di quelle facoltà marxianamente o forse marxisticamente impostate. Ripeto, c’era questa specie di virus delle cattedre di sociologia; poi la sociologia ha appreso ben altra serietà e rigore scientifico, ma in quel momento…

PRESIDENTE. Parecchi di loro venivano dall’università di Trento, a cominciare da Curcio e dalla Cagol.

CAPPELLETTI. Esattamente. Pertanto, quando arrivai al Viminale, ritenni che fosse opportuno mettere sotto controllo i telefoni di dieci facoltà di sociologia, ammesso che vi fosse l’autorizzazione da parte della magistratura. L’insidia della sociologia tuttavia esisteva, c’è stato un momento in cui la cultura italiana è stata sotto il peso della sociologia, peso che è stato poi superato con una ripresa dei vicini dipartimenti o cattedre di filosofia o di storia. Ricordo la violenta opposizione alla sociologia di Rosario Romeo, un amico carissimo e un grande studioso che avremmo perduto in anni successivi. Il professor Romeo era un violento oppositore della sociologia in sede universitaria, ma torno a ripetere che un peso della sociologia c’era. Confesso di non essere a conoscenza di intermediari, né credo lo fosse il presidente Cossiga; si andava cercando in questo senso. Eravamo invece al corrente del passaggio delle notizie al nucleo brigatista.

PRESIDENTE. Che valutazione effettuaste rispetto all’eventualità che la trattativa potesse partire anche dalla famiglia di Moro?

CAPPELLETTI. Conoscevo il figlio, ma in quel momento la famiglia non era accessibile, aveva un rancore profondo…

PRESIDENTE. Intendevo dire se a suo avviso sia possibile che i "misteriosi intermediari" potessero essere intermediari tra la famiglia e le Brigate rosse.

CAPPELLETTI. Su questo Cossiga avrà fatto le sue valutazioni, la questione non era di nostra competenza, ma del Ministro; va comunque tenuto conto che la famiglia – a mio avviso per giustissimi motivi – aveva un profondo rancore rispetto al sistema. Non si elimina, infatti, il controllo della segnalazione delle macchine che seguivano quella del Presidente del Consiglio, come Manzari ebbe a dirmi e come pare sia effettivamente avvenuto. Vi era infatti l’impressione che la macchina fosse seguita e questo fatto era stato segnalato, ma non si era in alcun modo provveduto. Non so dire se le cose fossero in questi termini, ma se ciò fosse vero e se l’apertura di un’eventualità di contatto fu poi tardiva e ripassò nelle mani – ammesso che questo sia vero – del presidente Fanfani il giorno successivo a quello in cui Moro fu ucciso, era plausibile e giusto che la famiglia fosse adirata; ripeto, avrebbe avuto motivi per esserlo.

PRESIDENTE. Il giornalista Scialoja in un articolo sul settimanale "L’Espresso" riferì – successivamente ha avuto modo di chiarire che la fonte era il professor Stefano Silvestri – che questi contatti tra la famiglia e i brigatisti ci furono e che addirittura i brigatisti avevano ottenuto che alcuni documenti che stavano nello studio di Moro in via Savoia, 88 venissero presi e consegnati alle Brigate rosse e che Cossiga lo avrebbe saputo e che per questo fatto si fosse innervosito e adirato perché a quel punto il patrimonio di informazioni in possesso delle Brigate rosse diventava ovviamente più esteso. Lei sa niente di questo episodio?

CAPPELLETTI. Di questo episodio non ho mai saputo alcunché.

PRESIDENTE. Non se ne è mai discusso?

CAPPELLETTI. Mai.

PRESIDENTE. Un’ultima domanda. Il 15 aprile 1978 il comunicato n. 6 delle Brigate rosse chiude drammaticamente la vicenda del processo con la condanna a morte dell’ostaggio. In tale comunicato si afferma che in realtà il prigioniero aveva parlato di stragi, di sangue, di crimini, di misfatti del regime e altro. Improvvisamente c’è quasi una virata nel comunicato che dice: non ci sono quindi "clamorose rivelazioni da fare". Poco dopo aggiunge: a questo punto facciamo una scelta. Mentre fino a quel momento avevano sempre detto che l’interrogatorio sarebbe stato reso pubblico, a quel punto, poiché secondo loro la stampa di regime in realtà alterava e mistificava i contenuti veri della vicenda, compiono la scelta di non rendere pubbliche le carte di Moro ma di affidarle ai mezzi di informazione dell’organizzazione clandestina. Di questa scelta dei brigatisti, di questa frase stranamente messa tra virgolette (clamorose rivelazioni) che un po’ contraddice la parte iniziale del comunicato, voi che valutazioni faceste?

CAPPELLETTI. Nessuna, perché non sapevamo neppure quali potessero essere queste rivelazioni.

PRESIDENTE. Questi comunicati li analizzavate oppure no?

CAPPELLETTI. Venivano analizzati per una certa parte che desse l’idea di un percorso coerente nel quale inserirsi interpretativamente in questa eventuale trattativa, alla quale sempre si guardava come ad una possibilità. Negli interna corporis era difficile al comitato penetrare, perché non aveva elementi politici di conoscenza e il fronte che si stabilì – questo è noto – fu subito anti-trattativa.

PRESIDENTE. Ad esempio, avete fornito una lettura di questo comunicato nel senso che le BR non rivelassero subito il contenuto delle dichiarazioni di Moro per avere un’ulteriore forma di pressione e convincere alla trattativa?

CAPPELLETTI. No. La trattativa veniva vista come uno scambio di persone e non come scambio di notizie. Ce n’erano tali e tante: che cosa poteva dire di più?

PRESIDENTE. L’altro esperto aveva il timore che Moro rivelasse elementi importanti sulla sicurezza dello Stato.

CAPPELLETTI. La trattativa verteva non tanto su notizie ma sull’ostaggio nella sua fisicità, a fronte di altri ostaggi nella loro fisicità. Delle notizie poco si temeva. Questo mi parve di capire anche da parte del Ministro dell’interno e, attraverso di lui, da parte del Presidente del Consiglio. Si cercava di costruire vie interpretative per questo evento che piombò come qualcosa di assolutamente inatteso e neppure lontanamente previsto, sui responsabili politici delle forze dell’ordine. Il comitato cercò di riempire il vuoto con delle ipotesi, delle vie d’intervento psicologiche. La criminologia dà molto peso alla psicologia dall’una e dall’altra parte; ma tutto questo – per dirla in termini fisici – apparve una forza debole rispetto a forze molto più forti che reggevano il campo e che la politica neppure sospettava. Questo è forse il senso meno tronfio.

PRESIDENTE. Non posso astenermi da un commento, che ovviamente impegna soltanto me. Resto sempre più meravigliato e sbalordito. Professore, il problema è che per come abbiamo analizzato noi la vicenda questo vuoto di conoscenza in cui voi nuotavate, per cui ci si rivolgeva ad intellettuali per leggere o intuire dai comunicati cosa fossero le BR, in realtà non esisteva perché chi fossero le BR lo si sapeva con sufficiente precisione. I vertici militari delle BR erano già stati arrestati; c’era presso procure di questa Repubblica un vasto corredo fotografico di immagini di brigatisti in attività di servizio; le BR erano in attività da almeno cinque anni. Per esempio, l’idea di chiamare Dalla Chiesa per effettuare un briefing di indottrinamento vi sarebbe dovuta saltare agli occhi. Adesso le BR hanno ripreso l’attività e noi abbiamo acquisito le relazioni dei ROS, abbiamo sentito il prefetto Andreassi, abbiamo ascoltato il Ministro dell’interno. Penso che tutti i membri della Commissione in maniera più o meno precisa si siano fatti l’idea di cosa sia questo nuovo fenomeno che ha portato già ad un omicidio in questo Paese, tanto è vero che ci meravigliamo che risultati concreti in sede giudiziaria ancora non si siano ottenuti. Per esempio, si poteva chiamare il dottor Caselli e farsi dire quale idea egli, che aveva già arrestato i capi delle BR, si fosse fatto. Perché navigare nel buio come se fosse caduto un fulmine a ciel sereno quando erano cinque anni che stava grandinando, per dirla in termini contadini? Passiamo ai quesiti dei commissari.

MANCA. Professore, sarò brevissimo o almeno veloce nel porre le domande. Lei dovrebbe sapere che questa seconda fase dell’attività della Commissione stragi ha avuto l’avvio dopo alcune dichiarazioni del presidente della Repubblica pro tempore Scalfaro che ha detto che secondo lui si conoscono i colonnelli e invece non si conoscono i generali dell’ordinamento delle BR.

PRESIDENTE. La domanda è molto interessante e si riallaccia ad affermazioni che lei ha già reso. Il presidente Scalfaro ha detto che oggi noi continuiamo a conoscere i colonnelli, ma non si conoscono ancora i generali.

MANCA. Siccome il compito principale di questa Commissione è analizzare le cause che hanno impedito la individuazione dei responsabili delle stragi, le chiedo un contributo di pensiero su questo aspetto del problema.Prima di questo contributo, che secondo me presenta un certo spessore, le vorrei porre delle piccole domande. Ha detto che lei e altri colleghi dovevate formulare una serie di ipotesi. Fino adesso lei ci ha parlato soprattutto di una ipotesi: quella della facoltà di sociologia. Ci può dire quali altre ipotesi lei o altri colleghi avete formulato in quel comitato attraverso la vostra opera, il vostro apporto, il vostro lavoro quotidiano?

PRESIDENTE. Chiedo scusa al senatore Manca se intervengo: …che possa dare oggi una risposta all’interrogativo se vi erano altre intelligenze.

MANCA. In generale, vorrei capire come funzionava questo comitato. Lei aveva l’impressione che l’attività di questi esperti fosse poi messa insieme o valorizzata dall’attività investigativa oppure ognuno andava per conto suo e quindi era inutile che ci fossero tanti gruppi di esperti? Una domanda che può sembrare stupida. Perché Grassini avrebbe detto a Ferracuti, in ambiente sequestro Moro, di iscriversi alla P2? Su questo episodio si possono formulare tante ipotesi.Cosa ne pensa inoltre della famosa seduta spiritica? Infine ci può dire qualcosa sull’ipotesi di una etero-direzione delle BR?

Ricapitolando, le domande riguardano: la conoscenza dei colonnelli e non dei generali; il contributo suo e dei suoi colleghi, oltre all’ipotesi della facoltà di sociologia; il problema della P2; la seduta spiritica; l’etero-direzione; la valorizzazione dei lavori dei vari comitati in vista di un’attività investigativa.

PRESIDENTE. A queste domande lei può fornire una risposta unitaria.

CAPPELLETTI. Senatore Manca, cercherò di risponderle lasciando una traccia, un residuato della mia comparsa presso di loro.

La ragione genetica di questo comitato fu un vuoto nei sistemi ufficiali a quel livello. La polizia italiana, per quanto posso sapere, e forse anche i carabinieri che sono una realtà diversa e più chiusa, di sindrome di Stoccolma, di analisi di testi scritti non sapeva nulla. Questo trascendeva l’organizzazione allora propria delle forze di polizia, le quali non soltanto a me ma a tutti dettero l’impressione di essere sguarnite, forse anche non adeguatamente collegate a quei centri di scoperta di quella cospirazione diffusa a cui ha fatto riferimento il presidente Pellegrino. Si decise addirittura di comprare apparecchiature che dovevano essere fatte venire d’urgenza dagli Stati Uniti. Mancava il settore della ricerca scientifica applicata, insomma.

DE LUCA Athos. Che tipo di apparecchiature?

MANCA. Per l’intercettazione.

CAPPELLETTI. Sì, ma credo anche per la messa in memoria di testi per verificare la frequenza dei termini. Mi dispiace che Ferracuti non sia vivo perché al riguardo avrebbe potuto dare una risposta più esaustiva. Si partì da un livello zero. All’Enciclopedia italiana abbiamo avuto il glorioso ricordo di Enrico Fermi: ebbene, il lavoro di Fermi sulla fisica atomica partì da zero. Tra le partenze da zero che ho in testa c’è quella di Enrico Fermi che cominciò ad applicare dei concetti e dei criteri che nell’Istituto di fisica dell’università di Roma, che fortemente lo ostacolò nel concorso universitario, non erano noti ed erano considerati arbitrari. Si decise di colmare un livello zero. Ricordo l’interesse con cui si ascoltava in particolare Ferracuti, che era un libro stampato come si dice, perché faceva la spola con gli Stati Uniti dove aveva una vasta rete di rapporti. Su questo il comitato si tenne pronto ad intervenire in maniera inessenziale all’inizio, che però sarebbe potuta diventare importante in seguito: se gli appigli di carattere psicologico alla trattativa si fossero rivelati degli appigli solidi, ciò avrebbe potuto giovare. Questo fu il contributo del comitato. E’ da notare che forse il collega Franco Ferracuti aveva anche rapporti "extra comitato" perché era un criminologo di grande valore. La criminologia italiana era anch’essa giovane. La ricerca scientifica in Italia è cresciuta in varie direzioni e Ferracuti garantiva un’eco della criminologia americana, di cui si sapeva veramente poco alla fine degli anni ’70.

Perché l’offerta di entrare nella P2? Francamente, non sono in grado di dirglielo.

MANCA. Mi scusi, le ho fatto una domanda precisa: oltre all’ipotesi, che lei ha spiegato benissimo, che le Brigate rosse potevano collegarsi alle facoltà di sociologia, lei ci ha parlato di una rete di ipotesi ma una rete è fatta da più di una ipotesi. Oltre a quella che lei ci ha riferito quali altre ipotesi ha fatto questo gruppo di esperti durante tutto il periodo del sequestro Moro?

PRESIDENTE. Il senatore Manca ha parlato anche di eterodirezione. Tra le ipotesi c’era anche quella di una eterodirezione internazionale?

CAPPELLETTI. Questa rimase in piedi presso il comitato e anche fuori. Dopo essere stato nel comitato ricordo la visita a Parigi ad un intellettuale ebreo di alto rilievo, Manes Sperber, uno scrittore molto noto, il cui figlio era ed è con me all’Enciclopedia. Un uomo così esperto, che aveva attraversato la tragedia dell’olocausto, mi chiese: "Ma questi quanti sono? Sono centinaia di migliaia?". Risposi che la mia impressione era che fossero un numero relativamente ristretto e ciò rendeva anche meno facile la loro scoperta, la loro cattura. La loro forza era l’efficacia di un numero ristretto e ben collegato di persone. Quindi l’eterodirezione, la loro consistenza erano ipotesi veramente molto aperte. Ho vissuto questo aspetto in varie dimensioni, anche internazionali. Riporto l’ipotesi di Sperber, un uomo di grande peso, che diceva: "Questi sono centinaia di migliaia, un esercito", a cui rispondevo: " Secondo me non è un esercito, è un nucleo ben più ristretto di un esercito". Il comitato riempiva pertanto un vuoto totale. Talvolta per riempire un vuoto si parte dalle basi primarie.

PRESIDENTE. Si parlò di possibili rapporti con servizi di intelligence orientali? Di un rapporto, per esempio, tra qualcuno delle BR e la Cecoslovacchia?

CAPPELLETTI. Sì, sì. Si diceva che Moro era stato portato all’ambasciata di Cecoslovacchia che stava vicino a via Fani e lì aveva sostato. La verifica di questa eventualità trascendeva assolutamente dalla facoltà del comitato, ma di questo all’interno si parlava liberamente.

MANCA. Che facevate, chiacchieravate tra di voi o partiva un’ipotesi e si dava l’input per un’azione? Da quello che capiamo si trattava di scambi di idee.

CAPPELLETTI. Lei ha ragione.

PRESIDENTE. E’ rimasta traccia documentale? Perché certo non eravate voi un braccio operativo.

CAPPELLETTI. Non eravamo braccio operativo. I comitati consultivi esplorano…

PRESIDENTE. Ma di questa attività di consulenza, secondo lei, è rimasta traccia documentale al Ministero?

CAPPELLETTI. Forse qualcosa è rimasto.

PRESIDENTE. Noi non riusciamo a trovarlo. Se tra i suoi appunti fosse rimasto qualcosa…

CAPPELLETTI. Signor Presidente, qualunque cosa io abbia (sono un raccoglitore di archivi delle cose che faccio), se c’è una pur limitata cartella, questa verrà in sua mano.

PRESIDENTE. Ripeto, di questo le saremmo molto grati. Tornando al discorso delle intelligenze che ha fatto il senatore Manca, lei prima ci ha parlato del suo consiglio di sorvegliare le facoltà di sociologia. Penso che questa sia un’ipotesi molto realistica: sono personalmente convinto che se i capi militari delle Brigate rosse sono noti, probabilmente della direzione strategica delle Brigate rosse faceva parte non un grande vecchio ma una pluralità di consiglieri aulici.

CAPPELLETTI. Questo lo penso certamente.

PRESIDENTE. Consiglieri aulici che oggi non sono stati ancora individuati.

CAPPELLETTI. I generali con una stella, poi c’erano quelli a tre o a quattro stelle.

PRESIDENTE. Le leggo a questo proposito una frase dell’ultimo dei brigatisti che noi abbiamo ascoltato, Maccari, che confessa di aver addirittura partecipato all’esecuzione materiale della sentenza contro Moro. "So con certezza che oggi vi sono persone, magari giornalisti o sindacalisti, che ricoprono incarichi importanti, che allora tifavano ed erano onorate di avere in casa il cavaliere impavido, il terrorista, il guerrigliero. Era una figura affascinante, romantica, ovviamente in quegli anni. Vi sono anche filosofi e sociologi, insomma l’intellighenzia di sinistra. Non nascondiamoci dietro queste cose". Lei pure ci ha parlato di sociologi ma l’Italia è un piccolo paese: alla fine il ceto dirigente italiano in un modo o nell’altro si conosce tutto. Il senatore Manca ha ricordato anche un gruppo di noti professori bolognesi che furono visitati in una collina dell'Appennino emiliano da uno spirito che gli suggerì addirittura il nome di Gradoli. Ecco, da lei un nome a questi fantasmi riusciremo ad averlo? Io sono personalmente convinto che quello che non si sa del caso Moro non è che sia poi moltissimo, ma quel tanto che non si sa, e proprio perché non lo sappiamo può sembrarci di spessore maggiore, è consegnato a questo rapporto ambiguo tra gli apparati di sicurezza e queste intellettualità, che erano allora ideologicamente, ma in qualche modo anche operativamente, vicine alle Brigate rosse. Lei potrebbe dare corpo a qualche ipotesi? Se ritiene, possiamo anche passare in seduta segreta.

CAPPELLETTI. Per carità, no. No, non furono analizzati questi simpatizzanti per il braccio armato; non ricordo che siano stati fatti dei nomi. Quando però poi dall'inchiesta di Padova emersero delle indicazioni precise…

PRESIDENTE. I nomi di Potere operaio, quindi Piperno e gli altri.

CAPPELLETTI. Piperno e Negri. Io dissi a Cossiga: hai visto? E lui mi rispose: ma sai, io credo che queste siano ancora tutte invenzioni. In buona fede, per carità; cioè, Cossiga fino all'ultimo rimase convinto che gli ideologi della sociologia non c'entrassero per nulla. Quindi, il comitato lavorava sui princìpi più generali e, se vuole, più vacui, ma anche dire: c'è questo rapporto con la sociologia universitaria o non c'è, questo non era a contenuto zero, non era un'affermazione priva di contenuto.

PRESIDENTE. Il problema è però che i socialisti si muovono e vanno sostanzialmente a colpo sicuro. I socialisti vanno a trovare Piperno; Signorile è venuto qua e ci ha confermato che fu lui a prendere contatto con Piperno. Piperno contatta Pace, Pace contatta Morucci e Faranda e se qualcuno avesse pedinato Signorile e poi avesse pedinato Pace, sarebbe arrivato a Morucci e Faranda e Morucci e Faranda lo avrebbero portato a Moretti: il vertice militare delle Brigate rosse sarebbe stato decapitato. Questa è la situazione con la quale noi non riusciamo a fare i conti; ci sembra che in realtà questo buio totale in cui si navigava era in contrasto con il fatto che poi i socialisti erano in possesso di informazioni che li portano in contatto con le Brigate rosse. Che erano insieme inafferrabili e note, in qualche modo, ed io sono convinto che ha ragione Maccari: saranno state ricevute in diversi salotti romani…

CAPPELLETTI. C'era poi il caso milanese: una signora della buona società milanese aveva in casa un brigatista…

PRESIDENTE. Anche qualcuno a Roma.

CAPPELLETTI. Il comitato aveva facoltà limitate, però riempiva di idee non prive di contenuto, con una sostanziale indicazione di aggiornamento necessario, una situazione delle forze dell'ordine di totale sprovvedutezza in questo campo.

MANCA. Lei insiste nel dire: totale buio; poi insiste nel dire che ha avuto delle idee. Ma io ancora non ho capito, oltre l'idea delle facoltà di sociologia, quali altre idee concrete hanno avuto per poi muoversi su quella strada. Altrimenti dobbiamo concludere che il vuoto c'era di là, ma c'era anche di qua.

CAPPELLETTI. L'ipotesi non è un vuoto.

MANCA. Sì, ma a parte la facoltà di sociologia, quale altra ipotesi avete formulato voi per aiutare chi dirigeva le operazioni di ricerca e di investigazione ad operare? Perché l'obiettivo era quello: cercare di liberare Moro. Quindi, ci si serve anche di esperti che fanno ipotesi, e poi queste ipotesi passano all'atto pratico, eccetera. Oltre all'ipotesi di investigare attraverso le formule che ha detto lei nelle facoltà di sociologia, quali altre ipotesi sono state consegnate al braccio?

CAPPELLETTI. Guardi, noi eravamo professori universitari; potevamo fare ipotesi nel mondo al quale appartenevamo e furono fatte ipotesi corpose. Perché individuare le facoltà di sociologia, mentre l'amico Ministro dell'interno lungamente escluse che fosse un terreno da investigare, era anche troppo.

MANCA. Ma quella è un'ipotesi!

CAPPELLETTI. Ma noi lavorammo un mese, senatore, non lavorammo tre anni.

PRESIDENTE. E poi ha fatto anche l'altra ipotesi che ci fosse addirittura questa intelligence cecoslovacca, dietro, tanto è che rifluì anche all'interno del comitato l'idea che Moro fosse prigioniero nell'ambasciata cecoslovacca.

MANCA. Ecco, questa è un'altra ipotesi. Ritorniamo ora al fatto di Grassini e della P2. Le chiedo poi se ci può dire qualcosa sulla seduta spiritica e sulla questione collegata al mandato che ci ha affidato il presidente Scalfaro, cioè i generali e non colonnelli.

PRESIDENTE. Ha già risposto a questa domanda.

CAPPELLETTI. Generali con una stelletta appartenevano ai ranghi culturali, con più stellette, se ci furono, forse vanno ricercati tra i politici, o tra i poteri economici, non so dire, o tra i servizi segreti di altre potenze. Nel breve tempo queste ipotesi erano tali da essere difficilmente perseguibili in quella sede. Della seduta spiritica devo dire che noi non fummo mai adeguatamente informati per potercene occupare. Ho riferito con grande franchezza che ebbi l'immediato sentore di una discriminazione che mi riguardava da parte della P2, e invece di una mano tesa che non so se l'amico Ferracuti abbia colto o no. Lui credo che abbia avuto dei problemi per la P2. Attenzione: Ferracuti quando ci furono le ricadute della P2…

MANCA. Ma poi si iscrisse lui?

CAPPELLETTI. Mi pare che in sede universitaria, quando ci furono gli elenchi degli iscritti, siano state prese delle misure di sospensione accademica e credo che Ferracuti ci sia ricaduto; quindi Ferracuti forse accettò questo invito, perché prima non aveva nulla a che fare. Secondo me Ferracuti aderì a questo contatto con l'alto ufficiale dei carabinieri perché poi ebbe una sanzione universitaria, quando ci furono gli elenchi della P2, come l'ebbero tanti altri.

PRESIDENTE. A proposito della P2, noi come complesso delle istituzioni abbiamo oscillato tra due estremi: c'è la relazione Anselmi, e poi vi è stata una sostanziale decisione assolutoria da parte della giurisdizione italiana. La magistratura italiana alla fine ha assolto quelli della P2. Quindi oscilliamo tra questo regno del male golpista, che è la valutazione che ne fa l'Anselmi, (anche se non scioglie il nodo della piramide rovesciata, cioè di ciò che vi fosse sopra a Gelli), e invece questa definitiva parola giudiziaria, per cui la P2 era solo un club di affaristi, di carrieristi, ma non persone che attentavano alla sicurezza dello Stato, non erano golpisti, cioè non erano criminali.Una ipotesi intermedia e diversa potrebbe essere invece che la P2 fosse anche e principalmente un centro di oltranzismo atlantico, di iperfedeltà atlantica e che chi si iscriveva alla P2 era come se ricevesse una specie di nullaosta di sicurezza. All’interno di questo comitato di esperti questa fedeltà atlantica veniva richiesta, accertata? Il Ministro dell’interno si preoccupava di avere tutte persone che comunque fossero di fede atlantica ancorché non tutti iscritti alla P2?

CAPPELLETTI. Aver chiesto a me di proporre questi studiosi era in funzione di avere persone di provata fedeltà. Ricordo l’amicizia che si stabilì tra Cossiga e D’Addio, studioso di grande livello morale, Ermentini, lo psichiatra di Milano; Baldelli, critico letterario e non soltanto un linguista; americanofilo all’estremo era Ferracuti che viveva sugli aerei che lo conducevano da una sponda all’altra dell’Atlantico; aveva una casa ed un posto come insegnante a Puerto Rico; era legatissimo agli ambienti americani; era un filo-americano accanito.

PRESIDENTE. Potevano esserci legami con l’intelligence americana? Tenga presente che non lo riterrei un fatto né positivo né negativo poiché eravamo inseriti in quel sistema di difesa.

CAPPELLETTI. Mai mi parlò di rapporti con l’intelligence ma sempre di rapporti con il mondo scientifico. La commissione fu una sorta di grande grido che la ricerca scientifica applicata in questo campo emise in sede di Ministero dell’interno dove di tutto questo non si aveva nozione; il vecchio questurino era il paradigma della persona che operava. Non sottovalutino lo zero di prevenzione su cui ebbe a verificarsi il caso Moro. Le ragioni dello sdegno della famiglia nacquero da questo.

PRESIDENTE. Approfittando dichiaratamente della sua disponibilità anche intellettuale con cui sta rispondendo alle nostre domande, le chiedo se aveva rapporti con l’amministrazione americana, con uomini politici americani, con circoli americani.

CAPPELLETTI. Io molto meno. Ne ebbi e ne ho avuto negli anni successivi; disponevamo anche di un ufficio dell’Enciclopedia a New York ma la grande interfaccia con il mondo americano era Ferracuti.

PRESIDENTE. Infatti, Ferracuti in una intervista a Panorama dell’88 disse che era addirittura preoccupato che la collaborazione di Ledeen, con il Ministero dell’interno durante quei cinquantacinque giorni potesse metterci in difficoltà con i circoli democratici americani dell'allora amministrazione Carter. Lo ricorda questo? Potrebbe riferirne? Come esce fuori questo Ledeen?

CAPPELLETTI. Sì; lo ricordo bene. Il nome di Ledeen mi torna adesso tra altri nomi che in questo momento non ricordo, ma che erano quelli più spesso fatti da Ferracuti. Queste persone le si incontrava a casa sua perché era persona molto ospitale ma erano rapporti con il mondo scientifico della criminologia e psichiatria forense americani.

BIELLI. Continuo a manifestare dubbi, perplessità su come si è formato questo comitato e sul ruolo che ha svolto in quel periodo ma mi sembra che quanto da lei detto non sia stato fugato. Però, proprio perché nutro dei dubbi su questo comitato, provo ad approfondire una questione un po’ più generale chiedendo a lei alcune informazioni anche sulla sua persona: l’amicizia con Cossiga è molto, ma non mi sembra potesse essere la ragione principale per poter avere il ruolo che lei ha svolto; lei ha detto di essere stato quello che ha indicato anche gli altri nomi; quindi, la sua non era una funzione minimale ma molto importante. Proprio per questa ragione, le pongo una domanda: nel 1983 lei partecipa a Chicago ad un convegno della Conferenza internazionale sull’unità della scienza, emanazione dell’Associazione spirituale per l’unificazione del mondo cristiano. Questa associazione, dal libro di Massimo Introvigne "Il reverendo Moon" risulta essere parte di una rete più grande, facente capo a questo reverendo, uomo legato a doppio filo alla CIA. Aggiungo che, stando a quanto scrive Civiltà Cattolica in una sua pubblicazione del 19 marzo 1977, pagina 164, dice che questa setta è caratterizzata da un anticomunismo senza quartiere, al quale è finalizzata un’organizzazione emenante dalla setta, l’Associazione internazionale per la vittoria sul comunismo. Lei è al corrente di questa strana combinazione? Ci può raccontare meglio di cosa si tratta? Ha lei oggi una qualche responsabilità all’interno di questa associazione?

CAPPELLETTI. Nessuna. I congressi per l’Unità della scienza erano riunioni di filosofi della scienza, di epistemologi, di scienziati, in alcuni casi di altissimo rilievo; quasi sempre erano presieduti dal premio Nobel Eccles ma ne faceva parte lo zoologo Mellanby, il popperiano Radnitzky; ero di casa nella Romania di Ceausescu per avere pubblicato un numero unico della mia rivista sui rapporti tra l’Italia e la Romania, un numero bellissimo; ancora oggi aiuto tante persone ma i miei rapporti con Ceausescu erano di mutua estraneità; però, mi recavo spesso in Romania come andavo spesso in Cecoslovacchia. Analogamente il reverendo Moon finanziava questi congressi per l’unità della scienza di elevato interesse scientifico ma i miei rapporti si limitano all’avervi partecipato. Al di là di questo non posso dire alcunché.

PRESIDENTE. Quale idea si è fatta di questa organizzazione? Al di là dell’aspetto scientifico e umanitario ha qualche diverso legame?

BIELLI. Abbiamo parlato prima di intelligence. Questa organizzazione ha rapporti diretti con la CIA. Il giudizio non mi interessa. Faccio, però, notare come rapporti ce ne siano e sono documentati.

CAPPELLETTI. Può darsi. Perché la posizione del Moon era ispirata ad un violento anticomunismo. E’ una delle nuove religioni e lei ha citato uno storico delle nuove religioni come Introvigne. Questi sono etiam hoc o post hoc; ma dall’etiam al propter naturalmente c’è un passaggio che va stabilito. Altrimenti siamo tutti coinvolti in tutto.

PRESIDENTE. Per dovere istituzionale avanzo io un’ipotesi post hoc: sembra quasi che anche in questo gruppo di esperti legati da rapporti personali il Ministro dell’interno volesse avere delle antenne che lo aiutassero a decifrare questo fenomeno nazionale delle Brigate rosse dove, secondo me, se avesse sentito Dalla Chiesa ne avrebbe saputo subito molto di più per le cose che oggi noi sappiamo con tutto il rispetto per voi. Come se dovessero esserci delle antenne tese a percepire umori di oltre oceano su tutto quello che stava succedendo in Italia.

CAPPELLETTI. Di oltre oceano, presidente Pellegrino, no, ma che ci fosse una funzione di antenna in questo comitato – lei ha toccato un punto sostanziale – probabilmente è vero; è forse una delle funzioni a cui il comitato doveva rispondere. La prima domanda che mi fu fatta buttandomi i comunicati il giorno della mia andata in Spagna ed i due giorni successivi fu: chi sono questi? Le ho accennato che la domanda fu questa. Io dissi: "Metti sotto controllo i telefoni delle facoltà di sociologia".

PRESIDENTE. Io pensavo alla funzione di antenna pluridirezionale anche perché vivevamo una fase politica delicatissima. Era nato il primo Governo di solidarietà nazionale; il primo Governo con i comunisti nella maggioranza. I comunisti facevano a gara per dimostrarsi fermi nemici della trattativa. Avevano una sindrome di legittimazione che, per lo meno dal mio punto di vista, è evidente in quella fase.

CAPPELLETTI. Tenete presente, Presidente ed onorevoli parlamentari, che l’impianto di un lavoro di ricerca scientifica segue ritmi esponenziali, ma ritmi plausibili. Cioè, non passa da zero a cento, ma, crescendo del 20 per cento, passa a 20, poi a 20 più il 20 per cento e qualche altra cosa che si somma. Se avessimo avuto tempo… Poi probabilmente le Forze di polizia se lo sono fatto per conto loro, valendosi peraltro della via non teorica ma pratica del generale Dalla Chiesa e di altri. Concordo con lei sull’opportunità di chiedere a queste persone qualche cosa. La funzione di "antenna" era molto forte in ciò che Cossiga fece ed in parte il lessico mentale del Ministro e di altri si arricchì di categorie conoscitive allora sconosciute: la sindrome di Stoccolma era sconosciuta; adesso ne parla la stampa gialla. Vi fu ad opera del comitato un forte contributo, una scossa, la "torpedine di Socrate", insomma.

BIELLI. Lei sa chi in questo ultimo periodo abbia assunto funzioni di presidente o di segretario in questa associazione spirituale per l’unificazione del mondo cristiano?

CAPPELLETTI. Credo il professor Radnitzky, professore di filosofia della scienza: un antinazista, pilota valorosissimo, che salì su un aereo e fuggì dalla Germania nazista atterrando in Svezia; un personaggio straordinario, il più coerente degli allievi di Popper.

BIELLI. Ed in Italia esiste una sua sezione? Conosce qualche italiano che ne sia presidente?

CAPPELLETTI. Io lo sono stato per alcuni anni quando frequentavo… ma poi la cosa è caduta in…

BIELLI. A proposito di antenne non unidirezionali ma che agiscono in più direzioni di cui abbiamo parlato, presso l’Enciclopedia Treccani ci sono state forme di collaborazione con un altro noto criminologo quale Giovanni Senzani, che ha collaborato con riviste significative di questo Paese? Ad esempio, nella rivista di Lagorio "Città e Regione" Senzani ha scritto e continuato a scrivere. Siccome parliamo tanto del ruolo di Ferracuti come criminologo, noi scopriamo, ma non questa sera, che anche tra i brigatisti c’era un criminologo e forse tra criminologi ci si può intendere. Senzani ha avuto forme di collaborazione con l’Enciclopedia Treccani? Lo ha conosciuto?

CAPPELLETTI. I collaboratori sono molti. Non lo ho presente. Vorrei ricordarle, senatore, che l’Enciclopedia italiana ha corso seri rischi in quel periodo; non era esente da minacce brigatiste all’interno. Io ho cercato di "staccare i fili", con calma e senza far avvenire guasti. Mi duole dirlo, perché è una persona degnissima: il padre del Barbone uccisore di Walter Tobagi era all’Enciclopedia ed io cercai di "staccare". C’erano dei lontani nipoti, credo del generale Dalla Chiesa, incriminati per l’incendio di Primavalle; gli incendiari di Primavalle erano lì. C’era poi un’infiltrazione nel dizionario biografico degli italiani, a livello di un redattore che poi è morto.

PRESIDENTE. A noi interessano i nomi; se vuole passiamo in seduta segreta.

CAPPELLETTI. No, no. Veniva accennato che una persona sentimentalmente vicina al professor Mutini, morto di recente, era legata con il nucleo brigatista della Toscana e forse di Pisa; quando si è parlato della morte tragica di D’Antona e di questa branca pisana, mi si sono "rizzate le orecchie".

PRESIDENTE. Ci fa piacere sentirlo perché siamo stati tra quelli che hanno sottolineato questo possibile legame fra gli uccisori di D’Antona e il brigatismo toscano.

CAPPELLETTI. Non c’è dubbio, c’era questo contatto di cui io fui avvertito da qualcuno. Il controspionaggio entrò nella mia stanza per arrestare la spia sovietica, che era sentimentalmente legata ad un professore, il quale me l’aveva indicata come una bravissima traduttrice dall’italiano al tedesco. Io tenevo delle lezioni a Berlino in quel periodo; le traduzioni dei miei testi fatti da questa dottoressa - che aveva anche un nome da spia, Pinkovski - erano di una perfezione linguistica che probabilmente sarebbe piaciuta a Goethe: traduzioni straordinarie. Talché, quando arrivò il controspionaggio dicendo che c’era una spia sovietica io risposi: "Ma dove?" Mi dissero che era la dottoressa Pinkovski – tra l’altro, bellissima, il che non guasta – ed io risposi che non la vedevo da un mese e mezzo. Quindi, l’Enciclopedia ha avuto le sue ragioni di stare attenta.

BIELLI. Lei può verificare se presso l’Enciclopedia ci sono state queste forme di collaborazione di Senzani?

CAPPELLETTI. Lo farò senz’altro.

BIELLI. Come anche sarebbe necessaria una verifica rispetto alle informazioni del comitato, in ordine alle quali lei dice esistere una cartella; possono essere poche cose ma qualcosa ci sarà.

Sfogliando il lavoro fatto da questa Commissione - che è tanto, nel senso che se si parla di memoria storica questa Commissione può dare molto da questo punto di vista - si scoprono alcune cose interessanti. Ad esempio, alcuni nostri collaboratori – faccio riferimento alla perizia del professor Giannuli – affermano che dai reperti rilevati in casa del defunto generale Adriano Maggi Braschi emerge che lo stesso sarebbe stato il presidente del capitolo italiano di questa lega mondiale anticomunista. Io collego a questa notizia altri due fatti. Il primo è che il generale Maggi Braschi partecipa nel maggio del 1965, assumendone la presidenza, al famoso convegno dell’istituto Pollio, sulla guerra controrivoluzionaria, su espressa disposizione del Capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Aloja. Questo emerge da una perizia che è in possesso della Commissione.

PRESIDENTE. Ed è documentato anche agli atti del convegno, che sono pubblici.

BIELLI. Certo, anche dagli atti del convegno. Un altro punto che vorrei sottolineare è che il generale Maggi Braschi, agli inizi degli anni ‘60, è il responsabile del nucleo guerra psicologica del SIFAR e, in tale veste, tra i principali animatori delle istanze più radicali del cosiddetto oltranzismo atlantico. Lei questo generale lo ha conosciuto? Ha avuto qualche forma di collaborazione con lui su questioni inerenti la cosiddetta guerra psicologica o sulle teorie della contro-insorgenza? Lei ha mai partecipato a iniziative indette o coordinate dal nucleo di guerra psicologica del SIFAR o da altre strutture militari?

CAPPELLETTI. Devo dirle una serie di no.

BIELLI. Ci deve dire di sì o di no. Non può dirci "mi sembra di no". Siccome questa è la Commissione dei misteri…

CAPPELLETTI. Non ho detto: "Mi sembra di no", ma: "Devo dirle una serie di no". Io sono "antimistero", sarebbe stato anche molto poco gentile se avessi detto: "Mi sembra di no", perché non conosco neppure di nome il generale Maggi Braschi, e me ne stupisco perché ho una vastissima serie di conoscenze. Non ho partecipato a convegni di questo genere. Devo anche dire che questa associazione anticomunista che avrebbe avuto un’intersezione con i congressi per l’unità della scienza non mi risultava esistesse, ma può darsi...

BIELLI. La mia domanda aveva una ragione. Infatti, a me risulta ancora oscuro il modo in cui si è formato questo comitato di esperti collegato a Cossiga.

CAPPELLETTI. Perché le risulta oscuro?

BIELLI. Credo che ci possa essere stato del buio rispetto al lavoro dell’autorità giudiziaria e delle forze di sicurezza ma credo anche che a quel punto il Ministero dell’interno avrebbe dovuto chiamare le forze di sicurezza preposte e verificare come era possibile coprire quei buchi.

PRESIDENTE. Tra la sua versione e quello che a noi risulta che in realtà si sapesse c’è un enorme gap.

BIELLI. Inoltre, sembra che il comitato di cui lei faceva parte – non intendo parafrasare il collega Manca – si riunisse solamente per qualche incontro conviviale in cui si lanciavano delle ipotesi e nient’altro. Si sapeva poi che il gruppo di sicurezza non aveva verbali mentre si è venuti a conoscenza della loro esistenza. I lati oscuri sono tanti. Il gruppo di lavoro che affiancava Cossiga, di cui lei è stato uno dei protagonisti, ancora oggi suscita in me alcuni dubbi perché mi sembra che avrebbe dovuto rispondere ad altri criteri, uno dei quali poteva essere l’ipotesi – cui si è riferito anche il presidente Pellegrino – che in qualche modo fosse collegato ad alcune intelligenze e, per questa ragione, si volesse da una parte inviare dei segnali e dall’altra riceverne. Le sue considerazioni però mi inducono a ritenere che lei esclude nel modo più assoluto che la sua consulenza nel periodo del sequestro Moro fosse in qualche modo originata da quelle osservazioni che ho espresso poc’anzi, riferite all’attività di queste associazioni, del SIFAR, attività che era presente nel nostro paese ma di cui lei non ha mai fatto parte. Pertanto, non può essere questa la ragione della sua presenza nel comitato che ha affiancato Cossiga in quel periodo. Lei lo nega assolutamente.

CAPPELLETTI. Forse scendendo ad un livello più semplice di spiegazione genetica, posso affermare che io ero legato da un rapporto stretto di amicizia e di affetto al presidente Cossiga. Un giornalista ha dichiarato: "Cossiga sostiene che Cappelletti è l’uomo più intelligente che abbia conosciuto. Peccato che io non possa classificarlo nemmeno tra gli intelligenti". Questo può dimostrare il tipo di rapporto esistente tra me e Cossiga, un rapporto di stima e di fiducia forse eccessiva da parte sua. Il giorno del rapimento di Moro Cossiga viene colpito dall’assolutamente improbabile. La categoria epistemologica della improbabilità è molto recente ma ci permette di capire che chi è colpito dall’assolutamente improbabile non sa bene a cosa va incontro. Ho avuto occasione di consigliare il presidente Cossiga e di essergli utile sul piano personale; egli aveva visto quale cattivo servigio gli avessero reso coloro che giustamente – come sostiene il presidente Pellegrino – avrebbe dovuto chiamare per primi. Se il suo autista la fa sbattere contro il paracarro lei decide di assumerne un altro in attesa che l’autista manchevole esca dall’ospedale. Anch’io, come lei e come tutti, mi sarei munito di qualcuno che mi consigliasse da vicino in maniera nuova. Cossiga era uomo universitario, un uomo molto intelligente e avvertiva la mancanza non di notizie – in questo caso comprendo ciò che afferma il Presidente – ma di una struttura conoscitiva.

PRESIDENTE. Ma tra quelli che ho conosciuto, Cossiga era uno dei maggiori esperti di attività di intelligence e di apparati di sicurezza. D’altra parte, noi disponiamo di manoscritti di alcuni suoi piani di intervento, come il piano Paters, che dimostrano come Cossiga fosse un tecnico del settore.

CAPPELLETTI. Quando nasce il piano Paters?

PRESIDENTE. Era anteriore al sequestro Moro.

CAPPELLETTI. Forse era desideroso di saperne di più e Ferracuti era una fonte preziosa. Ho introdotto io Ferracuti ed è stato un rifornitore culturale del Ministero dell’interno come nessun altro. Pertanto, la genesi è da ricondurre ad un rapporto personale molto forte e connotato da grande fiducia di Cossiga nei confronti della mia persona, ad una situazione di fortissimo panico perché era accaduto l’assolutamente improbabile. A quel punto ci si munisce di tutti gli strumenti conoscitivi e consultivi non sovvertendo quelli istituzionali. Mi permetto di ricordare di aver sostenuto che inizialmente io chiesi un contatto con la polizia per stabilire un aggancio e per ottenere notizie elementari se ci fosse stato il ponte radio aperto e mi fu risposto: "Per favore, su questo non chieda nulla" e noi agimmo per conto nostro, cercando di renderci utili. Mi perdoni: non si trattava di riunioni conviviali; non ricordo che il Ministero dell’interno mi abbia mai offerto un caffè.

BIELLI. Noi stiamo cercando di indagare su un mistero e dopo 25 anni coloro che potevano sapere sono morti e coloro che sanno, come il presidente Cossiga, non sembra che parlino. Anche noi stiamo cercando in qualche modo di scoprire qualcosa. Questa domanda si ricollega ad una precedente. Il comitato di cui lei faceva parte si è mai attivato in qualche modo sul tema della sicurezza del paese connesso alle lettere che Moro inviava e ai messaggi che egli lanciava? C’è mai stata una discussione in cui tale tema è stato considerato essenziale, da salvaguardare in quel momento?

PRESIDENTE. Lei ha riferito in particolare di una posizione assunta da D’Addio.

CAPPELLETTI. Sì.

BIELLI. Relativamente a questa sua risposta affermativa, come avete pensato di affrontare il tema della sicurezza rispetto alle considerazioni di D’Addio?

CAPPELLETTI. Un’attività di progettazione e di ricerca ha certamente una crescita esponenziale, così come tutta la scienza, e l’ottanta per cento di chi ha svolto ricerca scientifica è in vita proprio perché la crescita è esponenziale e crescita esponenziale significa che una ninfea in una vasca raddoppia se stessa ogni giorno e si sa che in 10 giorni ricopre la vasca e che il nono giorno ricopre quindi metà della vasca. Pertanto, per quanto siano rapidi i punti di accrescimento, lascia spiazzati il fatto di giungere ad una situazione di tragedia come quella che si viveva al Viminale – forse voi non eravate presenti al Ministero in quei giorni –. Ci saranno stati pure il generale Dalla Chiesa e il presidente Caselli ma non si è pensato di interpellarli. La sensazione era quella di un possibile crollo di tutta l’impalcatura.

PRESIDENTE. Come si esprimeva D’Addio in ordine a questa situazione?

CAPPELLETTI. D’Addio era preoccupatissimo - è un cattolico tradizionalista e, a mia differenza, un po’ di destra - e si preparava a rendersi utile, ma nel volgere di un mese fu creata, con prevalente merito del professor Ferracuti, una trama interpretativa molto apprezzata, perlomeno a quello che poteva vedersi, mi riferisco ad esempio al generale Grassini. Ricordo che la polizia rimase totalmente al di fuori e ci fu vietato di avere rapporti con essa o meglio non ci fu permesso di stabilirne. Ritengo che se avessimo potuto continuare il nostro lavoro per un anno, un anno e mezzo avremmo potuto fare qualcosa di più, ma ciò non fu possibile farlo in quel breve periodo. Certamente si parlò di attivare alcune iniziative, ma in una forma molto vaga, accademica e sterile; non altrettanto debbo dire per quello che riguarda la fornitura di uno schema generale nel quale inserire il problema delle Brigate rosse, i comportamenti di Moro e l’eventuale intervento nelle trattative; ripeto, su questi aspetti furono fornite delle strutture concettuali totalmente inesistenti. Credo che il presidente Cossiga abbia spiegabilmente voluto accanto a sé il sottoscritto che era persona di cui si fidava, ed anch’io collaboravo con persone di cui mi fidavo e con cui stabilivo ottimi rapporti, e ritengo che il nostro lavoro abbia lasciato un segno, un seme che poi ha fruttificato. Tuttavia, torno a ricordare che noi ad un certo punto ce ne tornammo a casa e Cossiga si dimise. Questa è la vicenda del comitato.

PRESIDENTE. Sullo svolgimento delle indagini non venivate mai informati? I nomi di Gradoli e di via Montalcini vi erano noti?

CAPPELLETTI. Questi nomi nel comitato non furono mai fatti. Di Gradoli si seppe dopo.

PRESIDENTE. Come avrà potuto leggere sui giornali, la moglie dell’allora Presidente della Repubblica, senatore Leone, ha ricordato di avere addirittura sentito parlare di via Montalcini, cioè della strada in cui Moro è stato con ogni probabilità prigioniero.

CAPPELLETTI. Questo dato non affiorò in quella sede che aveva del resto dei caratteri propositivi, nel senso che preparava un qualcosa che poi si vide in realtà non servire. Ripeto, la polizia svolgeva per conto proprio la sua attività e lo stesso facevano i carabinieri. L’impressione, comunque, era quella di uno sguarnimento totale delle strutture fondamentali dello Stato italiano; ripeto, la mia impressione fu quella accorata di vuoto e di deserto.

PRESIDENTE. Questo è valido anche per quanto riguarda l’autorità giudiziaria che avrebbe dovuto guidare le indagini?

CAPPELLETTI. Questo non posso saperlo, ma l’impressione del Ministero dell’interno, quindi di un organo centrale dell’amministrazione, fu quella di uno sconsolato vuoto e deserto.

BIELLI. Lei, professor Cappelletti, rispetto a questa considerazione non ritiene che tale impressione di vuoto e deserto, di cui si può prendere atto…

PRESIDENTE. D’altra parte è anche il giudizio della Commissione d'inchiesta sulla strage di via Fani e l'assassinio di Moro.

BIELLI. Lei, professor Cappelletti, non crede che ciò sia dovuto al fatto che ad un certo momento ha preso il sopravvento non tanto il bisogno di salvare la vita dell’onorevole Moro quanto invece un’altra questione e cioè quella che abbiamo cercato di porre questa sera, ossia il tema della sicurezza e ciò che aveva scritto Moro? Il problema, ripeto, mi sembra che ad un certo momento non fu tanto quello di salvare Moro quanto invece di fare in modo che le cose scritte non fossero rese note.

CAPPELLETTI. Sono uno storico e come tale amo il concreto. Lei, onorevole Bielli, ha detto una cosa giusta e cioè che la preoccupazione primaria era lo Stato e a me parve che Moro fosse quella secondaria…

BIELLI. Anche per il comitato di cui lei faceva parte?

CAPPELLETTI. No, il comitato era molto sensibile rispetto alla vicenda umana di Moro, in particolare ero stato molto vicino all’onorevole Moro e avevo coscienza della situazione drammatica e grave vissuta da quest’uomo. La "sindrome di Stoccolma" valse a dare una spiegazione delle lettere, secondo la quale esse venivano scritte perché esisteva una forma di solidarietà che si stabiliva. Torno comunque a ribadire che a mio avviso è giusto quanto da lei affermato e cioè che la preoccupazione primaria era lo Stato e quella secondaria la persona di Moro. Per quanto mi riguarda ho potuto apprendere solo successivamente che in realtà stavano per venire giorni in cui questo aspetto sarebbe cambiato. In seno alla Democrazia cristiana – immagino che ciò vi sia noto – il presidente Fanfani si preparava infatti ad avanzare una proposta, ed il giorno prima l’ala che non voleva la trattativa uccise Moro. Questo si è detto all’interno della Democrazia cristiana.

BIELLI. Forse questa sera ho esagerato, non sono abituato a porre tante domande, desidererei quindi rivolgerne un’ultima, accompagnandola con una piccola chiosa e cioè che noi concordiamo con il giudizio finale da lei espresso. In quel momento il Ministro dell’interno era il suo amico Cossiga che a mio avviso avrebbe potuto fare qualcosa per riempire quel vuoto cui lei ha fatto riferimento - ma questo fa parte di un giudizio -, in ogni caso quello che intendo chiederle riguarda un’altra questione. Lei conosce il professor Filippani Ronconi, ordinario di sanscrito presso l’università di Roma e organizzatore del convegno del Parco dei Principi? Questo professore ha avuto forme di collaborazione o collabora tuttora con l’Enciclopedia?

CAPPELLETTI. Mi risulta che sia un sinologo.

PRESIDENTE. Esatto, un sinologo ed un esperto di sanscrito.

CAPPELLETTI. Forse sì, perché è un valente sinologo anche se il nostro prevalente passaggio avviene mediante l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente (Isiao), attraverso il professor Gnoli. Tuttavia, debbo dire che mentre non ho ricordi di Senzani, è molto probabile che il professor Filippani Ronconi sia tra i collaboratori dell’Enciclopedia.

DE LUCA Athos. Ringrazio il professor Cappelletti per aver accolto l’invito della Commissione. Lei ebbe l’incarico importante di formare questo comitato. Da quanto da lei stesso riferito era amico intimo e fraterno di Cossiga e conosceva personalmente l’onorevole Moro di cui scriveva i discorsi…

CAPPELLETTI. Alcune volte.

DE LUCA Athos. Rispetto alla impressione di deserto e di vuoto da lei manifestata e che per noi non rappresenta una novità, considerata la sua amicizia fraterna con Cossiga che nutriva una fiducia cieca nei suoi confronti tanto da affidarle il compito di formare il suddetto comitato, non ebbe modo di far presente la situazione al presidente Cossiga? Immagino che ci saranno stati dei momenti in cui parlavate e quindi avrà avuto modo di riferire la sua impressione di vuoto e di deserto. La sua sensazione veniva trasmessa al Ministro dell’interno? E se questo avveniva nei termini da lei prima evidenziati, quale era la reazione? C’era la consapevolezza del Ministro dell’interno della situazione di vuoto e di deserto, oppure Cossiga riteneva che le strutture fossero efficienti? Questa è la prima domanda.

CAPPELLETTI. Non lo ha mai detto. Era consapevole delle carenze molto gravi e degli ostacoli che aveva trovati nel tentativo di colmarle. Mi è doveroso fare questa affermazione a tutela in quel momento del giudizio che il Ministro dell’interno aveva della situazione. Torno a ripetere che non ha mai detto: "siamo efficienti".

PRESIDENTE. Questo giudizio di inefficienza riguardava anche i carabinieri o riteneva che questi ultimi in quella fase stessero collaborando pienamente?

CAPPELLETTI. Credo che soprattutto la polizia fosse oggetto di critiche. I carabinieri sono circondati da un mito, per cui meno si riesce a penetrare…forse erano anche in condizioni migliori, perché no.

PRESIDENTE. Faccio questa affermazione affinché lei si renda conto del perché di certe nostre insistenze: in questa sede abbiamo ascoltato uno dei più validi collaboratori del generale Dalla Chiesa, attualmente dirigente della polizia municipale di Genova, andato in pensione come generale dei carabinieri, mi riferisco al generale Bozzo il quale era stato fatto venire a Roma, ma dopo un po’ di tempo fece ritorno a casa perché secondo quanto da lui stesso dichiarato: "non mi facevano fare niente e la sera ce ne andavamo al cinema perché eravamo inutilizzati".

CAPPELLETTI. Mi pare di ricordare, ma da parte mia si tratta solo di impressioni, che ci sia stata una grande ondata di ripresa di efficienza più o meno con il ministro Rognoni.

PRESIDENTE. Addirittura miracolosa perché questo Stato, che lei ci sta descrivendo, caratterizzato da una totale inefficienza, di fronte al problema di ritrovare le carte di Moro, nell’ottobre di quello stesso anno in venti giorni (quando a Dalla Chiesa vennero conferiti poteri straordinari) individua il covo di via Monte Nevoso e prende quasi tutti i brigatisti. Quindi, Dalla Chiesa non solo ritrova le carte, ma arresta anche quasi tutto il vertice brigatista.

CAPPELLETTI. Mi pare che fece scappare una brigatista, che la seguì per vedere dove andava a finire.

PRESIDENTE. Su come si arrivò a via Monte Nevoso terremo una audizione di magistrati la settimana prossima. Cercheremo di approfondirlo in quella sede.

DE LUCA Athos. La caratteristica di questo comitato, anche dalla descrizione dei componenti che lei ci ha tracciato, è quella di essere un po’ filo-atlantico. Mi sembra che tutti i personaggi siano schierati in un certo modo. Se uno istituisce un comitato per formulare delle ipotesi, non sarebbe forse opportuno incaricare anche degli esperti di altre realtà? Sono tutti filo-atlantisti, qualcuno in modo spinto, tant’è che ha dei legami con la CIA o qualcosa del genere. Lei ha scelto gli uomini di questo comitato. Si rendeva conto di questo aspetto? Non sentiva, per esempio, la necessità di inserire una personalità che potesse illuminarla da un altro punto di vista, da un altro osservatorio, con un’altra sensibilità anche politica? Invece mi pare che siano tutti schierati in un certo modo, tant’è che si poteva sospettare – mi permetta l’espressione – che fosse un comitato della CIA, filo-atlantico. Ci può dire qualcosa su questo?

CAPPELLETTI. Le persone furono incaricate per l’affidabilità di riserbo che davano e per competenze in settori importanti. La parte politica il Ministro se la faceva un po’ per conto suo. Ad esempio, Silvestri – che era un "atlantico" - non fu portato da me; Ferracuti lo era perché innamorato dell’America e del suo grande progresso raggiunto nella ricerca scientifica e nelle scienze umane. La parte politica la faceva il Ministro e gli eventuali contatti con esperti dei paesi orientali li teneva lui. In sostanza, io portai un criminologo, che dette un grande contributo all’apertura del Viminale su questi problemi totalmente ignorati; fu lasciato un seme, secondo me, molto prezioso e fecondo. Portai uno psichiatra molto bravo, Ermentini, di Milano; portai un linguista, perché in quel momento si trattava di leggere questo carteggio delle BR; portai uno storico. L’"atlantico" Silvestri lo chiamò Cossiga; altri avrebbe potuto chiamarne, ma non era ciò che mi era stato chiesto.

DE LUCA Athos. Mi può dire esattamente in quale periodo ha funzionato il comitato da lei presieduto?

CAPPELLETTI. Dai due giorni successivi al sequestro (perché io tornai da Barcellona) per i quarantacinque giorni seguenti, fino alla morte di Moro. Pressappoco un mese e mezzo.

DE LUCA Athos. Vorrei altre informazioni tecniche puntuali. Il vostro lavoro avveniva senza che voi foste investiti di altre informazioni? Vi fornivano aggiornamenti sulle indagini come materia prima sulla quale attivare le vostre intelligenze?

CAPPELLETTI. Il capo di Gabinetto Squillante, persona di stretta fiducia del Ministro e anche di alcuni di noi, era sempre presente. Quindi ci informava, nei limiti in cui riteneva di farlo. Adesso non so quali facoltà e quali interessi avesse il consigliere Squillante a dirci tutto, ma certamente avevamo un quadro di riferimento abbastanza generale.

PRESIDENTE. Quando ci fu il comunicato n.7, quello del lago della Duchessa, che poi si rivelò falso, voi che analizzavate i comunicati che lettura forniste? Vi accorgeste subito che era falso? Il linguista si accorse che il lessico era diverso?

CAPPELLETTI. Debbo pensarci; non lo ricordo. So che fece molta impressione quando partirono le attività dei sommozzatori e quando poi si seppe che il comunicato era falso. Se Baldelli abbia individuato degli elementi di non autenticità nel comunicato della Duchessa adesso non ricordo, ma qualcosa posso probabilmente trovare tra le carte.

PRESIDENTE. Per noi questo sarebbe importante. Quando sapeste che era falso, che idea vi faceste? Che per esempio poteva essere una manovra della nostra intelligence per creare scompiglio nel campo brigatista?

CAPPELLETTI. Della nostra intelligence nulla si sapeva. Devo dire che scarsa fiducia si aveva in essa, ma una delle ipotesi alle quali si pensò era che fosse fatto ad arte, forse per depistare. Ripeto che su dettagli di questo genere dovrei ricorrere a ricordi più precisi di quanti non ne abbia in mancanza di elementi scritti. Comunque si aveva l’impressione di una situazione confusa. Peraltro si credeva che i colonnelli fossero quelli da raggiungere, non essendovi tempo e modo di andare più in là, e che ci si dovesse appigliare a qualcosa di concreto, sfrondando queste ipotesi di una vasta ragnatela, di cui pure si aveva contezza; questo comitato cercava di afferrare un elemento rispetto al quale rendersi utile con le proprie competenze, che ad altri mancavano.

DE LUCA Athos. Avete avuto contatti o riunioni plenarie con gli altri comitati?

CAPPELLETTI. No. Abbiamo sempre lavorato come un gruppo di fiducia del Ministro.

PRESIDENTE. Con Lettieri non aveste mai rapporti?

CAPPELLETTI. No .

DE LUCA Athos. Lei è un uomo di mondo, che ha avuto contatti sia con l’Est che con l’Ovest e ha vissuto anche questa esperienza molto particolare dall’interno, perché era al Viminale nei giorni di questa tragedia. Se la sente di rilasciare a questa Commissione, in un’occasione particolare che le viene offerta, una sua opinione sulla vicenda di Moro, cioè se ritiene esaustivo l’esito dei processi e se si è fatto un’idea del perché le vicende andarono in questo modo. Vorrei che lei fornisse una sua versione, una sua ipotesi, alla luce della sua esperienza e di un osservatorio privilegiato.

PRESIDENTE. Anche alla luce di quello che ha saputo dopo.

DE LUCA Athos. Questo credo possa essere un contributo alla ricerca della verità della Commissione. Per lei è un’occasione unica, non è un’intervista ad un giornale. Ci terremmo a questa sua opinione.

CAPPELLETTI. La mia impressione (abituati al lavoro scientifico, prima di passare da intuizioni e ipotesi a prove ci vuole non poco) è che si sia voluto colpire l’uomo che aveva stabilito un contatto tra i due poli dello schieramento politico, per cui l’Italia entrava in una fase di dialogo, di rimozione delle barriere e di possibilità di collaborazione. Mi pare difficile discostarsi dall’ipotesi che Moro sia stato colpito per la solidarietà nazionale, come attore principale ("un grande orafo" mi pare fu il commento dell’onorevole Andreotti in quell’occasione) per portare il suo partito sul piano dell’accettazione della solidarietà nazionale, come aveva fatto con la collaborazione con i socialisti. Mi pare difficile discostarsi dall’ipotesi che si sia trattato non di un colpo rivolto ad una persona determinata, ma di un colpo rivolto ad un disegno politico che comprendeva la solidarietà nazionale e l’uscita del Partito comunista italiano dall’esclusione dal gioco politico che fino allora lo aveva contrassegnato.

DE LUCA Athos. Sulle responsabilità, perché le cose sono andate in quel modo, che cosa ci può dire?

CAPPELLETTI. Secondo me, a colpirlo è stata un’alleanza tra forze intellettuali di second’ordine, non certo forze scientifiche. Ricordo il bel comunicato che De Gaulle fece da Londra: des politiciens de rencontre, "politici, intellettuali da strapazzo" e tuttavia forti e nuclei marxisti irriducibili.

DE LUCA Athos. E sul fronte dello Stato, quali sono le responsabilità per come sono andate le cose?

CAPPELLETTI. C’è stata una responsabilità di forze dello Stato nel volere morto Moro? Onorevoli parlamentari, sciogliamo insieme questo nodo. Può darsi, lo Stato ha mostrato di avere troppi organi malati al proprio interno. Nessuno a questo punto può essere tanto ingenuo da ignorare che c’era una cancrena in alcuni corpi dello Stato: certamente una parte dello Stato ha lavorato in questo senso, forse la parte della massoneria (non quella tradizionale perché era una forza culturale) ha lavorato in questo senso. Non ho dubbi che ci sia stata una collaborazione di organi dello Stato.

PRESIDENTE. Quello che lei ci sta dicendo è molto importante e la ringrazio per questo suo contributo. Ci riporta a quello che drammaticamente nell’altra legislatura ci disse un intellettuale che lei ha ricordato, Corrado Guerzoni, il quale ci parlò addirittura di un sequestro "appaltato" alle Brigate rosse.

CAPPELLETTI. Non avrei dubbi.

PRESIDENTE. Mi fa piacere che dica di non avere dubbi.

CAPPELLETTI. Sulla plausibilità di questa ipotesi.

PRESIDENTE. Per aver riecheggiato questa ipotesi un nostro comune amico, il senatore Francesco Cossiga, dalla sedia dove si trova ora lei, mi disse: "Questa è una mascalzonata politica e siccome dico che lei è un mascalzone politico, dicendo politico non si può offendere". E’ consegnato ai verbali della Commissione: "Lei non si può offendere". Tuttavia oggi a questa chiave di lettura Est-Ovest - secondo cui la solidarietà nazionale poteva dar fastidio a circoli occidentali, essere vista con ostilità in Gran Bretagna, in Germania, in America, ma anche dall’altra parte perché era un esito pericoloso dell’eurocomunismo - in una riflessione della Commissione più recente si aggiunge una chiave interpretativa diversa, quella Nord-Sud del mondo, e cioè la possibilità che in realtà fosse la politica filo-araba di Moro a renderlo sgradito a un insieme di equilibri geopolitici interni al mondo occidentale perché poteva proiettare l’Italia in una dimensione diversa.

CAPPELLETTI. Gli onorevoli parlamentari sono molto più abili di me, ma non mi sentirei di escludere nulla. Certamente Moro fu colpito da chi voleva bloccare il processo della solidarietà nazionale. Che tra le forze che volevano bloccare questo processo vi fossero quelle di apparati - come è stato detto con termine cecoslovacco apparatcik - dello Stato mi pare molto più che probabile.

PRESIDENTE. Quanta probabilità attribuisce al fatto che invece sia stata la politica filo-araba, filo-libica di Moro a creare risentimenti inglesi e israeliani?

CAPPELLETTI. Vede, i servizi segreti, in particolare quelli americani, hanno avuto un loro miglioramento etico sotto il segretario di Stato Schultz, mentre prima andavano a briglia sciolta. Parlare di israeliani o di inglesi mi pare ricorrere a mezzi estremi, non così per apparati dello Stato legati a poteri economici forti, a spinte forti, anche a singoli poteri forti. Mi pare molto probabile.

PRESIDENTE. Senza arrivare all’ipotesi estrema dell’appalto che ci fece Guerzoni, la possibilità che informazioni che i servizi israeliani, statunitensi, inglesi potevano fornirci e che potevano servire a salvare la vita di Moro non ci siano state date…

CAPPELLETTI. Non mi sento di escludere nulla. Molti interessi cozzavano in quel periodo; si cercò al momento di trovare la strada di non considerarli. E’ un caso tipico di ricerca scientifica.

PRESIDENTE. Le assicuro che è questo l’animo con cui mi accosto a tali problemi, tant’è vero che oggi le ho formulato un’ipotesi a cui ho pensato recentemente e che è diversa da quella a cui mi ero affezionato nella legislatura scorsa.

CAPPELLETTI. Il lavoro di indagine va tenuto vivo: spesso frutta, a distanza di tempo, scoperte improvvise che non si sospettavano. Non c’è dubbio, fu un delitto motivato storicamente.

PRESIDENTE. Ha mai conosciuto il direttore d’orchesta Markevitch?

CAPPELLETTI. No, ne ho sentito parlare. Anche questo sta nell’altra strada della Treccani; si conferma così che la Treccani è un crocevia di problemi.

PRESIDENTE. E Howard, il marito dell’altra Caetani?

CAPPELLETTI. Neppure.

PRESIDENTE. Ma Howard era un personaggio noto in Italia.

CAPPELLETTI. Mi perdoni, lei si riferisce al principe, quello morto: lo conoscevo.

PRESIDENTE. E che personaggio era?

CAPPELLETTI. Dovrei dire un’assai degna persona, questo per averlo conosciuto un po’ dall’esterno. Mi è difficile dare un giudizio. Dovrei dire assai degna persona, ma si tratta di una conoscenza molto superficiale.

PRESIDENTE. Ho letto recentemente un necrologio in cui si parla di grossi servizi da lui resi al nostro paese. Con la sua esperienza, anche internazionale, ha mai avuto sentore di questo?

CAPPELLETTI. No, di questo no.

PRESIDENTE. Come origine egli era un uomo dell’intelligence inglese. Partecipò alla liberazione di Firenze. Un intellettuale.

CAPPELLETTI. Sì, sì. Si può sentire padre Boyle, l’ex bibliotecario del Vaticano, persona anche lui di altissimo livello, inglese o irlandese. Si trovava spesso a quei pochi pranzi a cui ho partecipato con Howard.

VENTUCCI. Professor Cappelletti, la ringrazio perché inizialmente mi stavo annoiando e invece lei in questi ultimi cinque minuti ha reso estremamente interessante l’audizione. Per quanto mi riguarda, essendo io un prodotto prebellico, avendo vissuto quel periodo immerso in attività lavorative e logisticamente vicino all’attività dei servizi segreti sull’aeroporto di Ciampino, mi rendo perfettamente conto dell’oscurità totale cui lei continuamente, per tutta la serata ha fatto riferimento. E sono anche convinto che quello che è stato definito "l'affare Moro" lo è divenuto dopo la morte di Moro e non certo prima della morte di Moro. Quindi quello che dice Guerzoni io lo condivido, come condivido anche l'ultimo accenno che il senatore Andreotti ha fatto giorni addietro al Senato ricordando che il Governo di solidarietà nazionale fu messo in dubbio anche da Carl Schmidt, che aveva delle grosse preoccupazioni, che chiarisce il ruolo del KGB e della CIA. Io non credo all'ipotesi degli arabi, perché ritengo che gli interessi degli arabi siano completamente diversi. Basti pensare che in questo momento sull'"Herald Tribune" di ieri c'è scritto che in Iraq operano 12 grandi società americane che tirano su petrolio. E in Libia quando c'era l'embargo c'era tutta l'attività di americani che estraevano petrolio. Quindi secondo me quel discorso è chiuso. Ma il problema è estremamente grave proprio per il fatto che l'accordo di Yalta era un patto di ferro; i 12 milioni di votanti del Partito comunista che in Italia dal 1948 fino alla fine della guerra fredda hanno cercato di creare un'alternativa al regime cosiddetto democristiano, non potevano essere messi in discussione.

Ecco, i dettagli che questa sera nella prima parte dell'audizione le sono stati chiesti possono sì storicamente cercare di stabilire il perché Cossiga in quel periodo abbia legittimamente chiesto a degli amici un certo conforto. Rimane strano perché il Cossiga abbia usato quella metodologia in atto in quel periodo, periodo in cui i servizi segreti compravano i Mister 20, aerei fabbricati in Francia, e sulle code mettevano le iniziali dei loro nomi e cognomi. Era una gestione, oserei dire, un po’ alla buona. La confusione era enorme, quindi quella confusione a cui lei ha assistito era reale, ne sono convinto. Quello che ovviamente crea dei dubbi è il fatto che alla fine, come lei ha raccontato, le viene data una lettera di ringraziamento, con un rimborso spese minimale, e Cossiga non si sia preoccupato di creare una terza unità di crisi, magari chiamandola come terza unità di consulenza, quindi un po’ al di fuori del fatto operativo, utilizzando cotanti cervelli. Mi viene da domandarle: ma c'era un segretario che a fine serata stilava non dico un verbale, ma raccoglieva un po’ le idee espresse da voi in quei frenetici 45 giorni? Oppure tutto era consequenziale alla conclusione a cui lei è arrivato - e io la condivido - per cui bisognava in qualche modo mettere in atto una forma di scenografia, anche a malincuore, perché ormai del destino di Moro, si era impossessato chi aveva deciso che Moro doveva essere fatto fuori? Lei ha detto che dopo le dimissioni di Cossiga, con l'avvento di Rognoni si è normalizzato il sistema della pubblica sicurezza, il sistema del Ministero dell’interno. Perché dopo la morte di uno? Perché quell'uno si chiamava Moro. Tutto il resto, ovviamente, ha un'importanza storica anche dal punto di vista criminologico, senza dubbio importante. L'asserzione che fa lei di aver consigliato Cossiga di guardare le facoltà di sociologia, a me personalmente come cittadino appare un po’ minimalista, perché per noi che eravamo al di fuori delle grandi cose, delle grandi forme di pensiero, ma stavamo lì a lavorare dalla mattina alla sera, era un fatto scontato perché in fabbrica veniva il senatore Lucio Libertini ad espletare certe teorie estremamente vicine ad un certo modo di pensare. L'ultimo brigatista che è venuto qui aveva appena 23 anni quando partecipava, e ragionare con uno che aveva 23 anni in quel periodo - parliamo del '78 - è un po’ diverso che ragionare con uno che ha 23 anni oggi. Questo la dice lunga di come ci fossero tanti fantoccetti che venivano utilizzati da qualcuno che aveva deciso qualcosa di grosso. E allora il qualcosa di grosso risale a Yalta, KGB, CIA e interessi, equilibri mondiali che non dovevano essere assolutamente messi in discussione. Io non voglio farle una domanda specifica, oltre a chiederle se c'era un segretario, per poterle chiedere di dire alla Commissione di darci un qualche lume, se c'è da andare a rovistare in qualche posto, e noi andremo a rovistare. O comunque riafferma il concetto per cui Moro comunque doveva essere eliminato una volta che le Brigate rosse avevano tentato, a mio parere forse sconsideratamente e senza fine ultimo l'uccisione, il rapimento di Moro.

PRESIDENTE. E' chiaro che in quest'ultima parte la stiamo utilizzando quasi come un nostro consulente.

CAPPELLETTI. Ne sono molto lieto. Essendo adesso costretto a lavorare moltissimo per l'Enciclopedia, che confina con aree, collaboratori eccetera, ne scopro anche di particolarmente interessanti. Essendo andato a fare una lezione alla Georgetown University di Washington, ho scoperto qualcuno esperto di criminalità economica. Io non sono mai riuscito a parlare con questa persona, un italiano, che ha scritto sull'Enciclopedia delle scienze sociali un articolo bellissimo sulla criminalità economica internazionale. Si ignorava che esistesse il professor Ernesto Savona, lo ignoravano tutti; che fosse un pozzo di scienza in questo campo non si sapeva. Il suo articolo si può leggere sull'Enciclopedia delle scienze sociali, ma nessuno di noi ha avuto contatti se non attraverso telefoni, perché forse è una persona che ha interesse a badare a se stesso. Voglio dire con questo che l'Enciclopedia è un terreno di approdo di tante competenze, anche utili, anche molto interessanti. Senatore, il caso Moro determinatosi per una congiura vasta, per una operazione piccola, nacque dopo - come lei ha detto - più che esistere prima; diventò poi un grosso problema da affrontare e anche in questo dobbiamo essere giusti: non fu facile affrontarlo convulsamente ed anche destò tante impressioni e forze inconsce. Quanto ci fu la volontà di salvare Moro? Chissà, forse non fu nemmeno moltissima. Quanta volontà ci fu di preservarlo da quello che accadde? Forse anche questa moltissima non fu, a giudicare dalla poca cura che si ebbe per la sua persona. Cioè il caso nasce - diciamo la verità - in maniera incredibile. E' mai possibile che l'auto del Presidente del maggiore partito venga fermata ai piedi di via Fani da alcuni che ammazzano tutti, tirano fuori lui, portano via la borsa che lui aveva sempre accanto?

PRESIDENTE. Forse.

CAPPELLETTI. Tutto questo non ha dell’incredibile? Mi sembra che abbia dell’altamente improbabile. Una volta nato, questo caso incappò nelle maglie crude che la politica costruisce intorno a sé. Prendere però per buono che tutto il mondo sia implicato in questo non è un corretto metodo scientifico. Bisogna tirare dentro situazioni per cui si abbiano plausibilità e per i corpi dello Stato delle plausibilità ci sono. Avendo tutti all’Enciclopedia ho anche l’autore di quel volume "Il caso Moro".

PRESIDENTE. E’ stato collaboratore di questa Commissione, il professor Biscione.

CAPPELLETTI. Appunto. Il professor Biscione l’ho chiamato io; l’ho fatto lavorare io; era uno dei giovani che non aveva lavoro. Vi sono tanti forti interrogativi nel libro da lui scritto. Anche quello di Alfredo Carlo Moro è un libro da cui è difficile prescindere.

PRESIDENTE. La ringrazio di questo perché spesso siamo accusati di essere tendenziali nella scelta delle nostre fonti bibliografiche.

CAPPELLETTI. Poiché questo che lei fa, Presidente, è un lavoro a lungo raggio e queste fonti bibliografiche che non potrebbero essere esaminate nel volgere di due o tre mesi vanno invece tirate dentro. Credo che occorra includere elementi di ordine causale di mano in mano che da una generica ipotesi di coinvolgimento si passi ad una ipotesi suffragata: formulare ipotesi è molto facile. Sui corpi dello Stato ho l’impressione che sospetti forti gravino. Lei mi ha chiesto se noi sapevamo già qualcosa perché veniva la tale o tal’altra persona. Quando io dissi di mettere sotto controllo i telefoni andavo oltre questo. Che questi coinvolgimenti avessero preso la strada criminosa, della macchinazione questo andava provato. Può darsi che, controllando trenta, quaranta telefoni… La cosa – devo dire – parve inverosimile. Questa è un’altra non attesa notizia di questa mia deposizione. Insistetti molto su questi legami criminosi, produttori dell’effetto Moro tanto che, quando il giudice di Padova – mi sembra si chiamasse Calogero questo magistrato – scoprì quelle prove disse che questa era tutta una montatura.

PRESIDENTE. Parvero inverosimili o vi era paura a verificarle?

CAPPELLETTI. Cossiga forse era andato via; adesso dovrei verificare i tempi; non voglio essere inesatto.

VENTUCCI. Si ricorda il particolare del se a fine serata vi era qualcuno che redigeva un verbale?

CAPPELLETTI. Non lo ricordo. Era sempre presente il capo di Gabinetto che fungeva da...

VENTUCCI. Mi pare strano che con cotanti cervelli – e lo dico non con ironia – sapendo come voi lavorate, avete sempre bisogno di qualcuno addetto a tale scopo.

PRESIDENTE. Questi esperti si riunivano come gruppo?

CAPPELLETTI. Sì, come gruppo.

PRESIDENTE. Questo è un po’ diverso da quello che ci ha riferito Silvestri il quale ha sembrato volerci dire che ognuno faceva appunti, consulenze sue.

CAPPELLETTI. Lui non faceva parte della riunione. Io non ho proposto Silvestri perché sapevo che aveva un rapporto personale.

PRESIDENTE. Questo più ristretto gruppo si riuniva con Squillante. Quindi, è probabile che i verbalini si facessero.

CAPPELLETTI. Che si prendessero degli appunti. Vedrò nel mio archivio, perché lì si conserva scrupolosamente tutto.

PRESIDENTE. Sarebbe molto importante, lo ripeto.

CAPPELLETTI. Le mostro la totale disponibilità. Mi associo anch’io a grattare il terreno.

PRESIDENTE. Moro muore nella primavera del 1978. Sono passati ventidue anni. Vi sono state due inchieste parlamentari, una di questa Commissione che ormai si occupa del caso Moro da quattro legislature; vi sono state inchieste giudiziarie. Che valutazione fa del fatto che prima di questa sera nessuno l’avesse mai sentita? Dalle domande che le ha fatto Bielli, avrà capito che stavamo preparando questa audizione.

CAPPELLETTI. Mi era stato accennato di questa audizione.

PRESIDENTE. Non mi riferisco a questa audizione, ma al fatto che nessuno la abbia mai chiamata prima.

CAPPELLETTI. Il caro Franco Ferracuti, ormai morto, forse non è stato sentito da voi.

PRESIDENTE. No. Sotto la mia presidenza non lo abbiamo sentito.

CAPPELLETTI. Era un uomo ricco di contatti. Franco Ferracuti giocò da protagonista e ha dichiarato ai giornali che aveva proposto e fatto nominare la commissione ma questa era l’ingenuità di un bambino.

PRESIDENTE. Al professor Cappelletti, un intellettuale del suo spessore, ho fatto una domanda diversa: quale valutazione fa del fatto che nessuno abbia mai pensato di sentirla?

CAPPELLETTI. Può darsi che Ferracuti avesse un po’ distolto l’attenzione dalla mia persona, presentandosi come il responsabile ed il proponente del tutto. Lui fu tirato dentro perché era un competente non conosciuto allora dal Ministero dell'interno ed il più valido ponte con l'’esperienza scientifica criminologica e di psichiatria forense.

PRESIDENTE. E’ quasi come se ci fosse una specie di rispetto della vostra persona per cui nessuno vi ha voluto disturbare per capire che cosa fosse avvenuto.

CAPPELLETTI. Nel mio caso è ingiustificato, essendo io lietissimo di dire tutto quello che so.

GIORGIANNI. La ringrazio per la sua presenza e disponibilità concreta che ci sta dimostrando nel collaborare. Mi scuserà se nelle mie domande non adotto un metodo scientifico e mi faccio fuorviare da una mia deformazione professionale considerato che per venti anni sono stato un magistrato. E’ possibile che i modelli applicati nella nomina di questo comitato sono diversi a quelli a cui faccio riferimento io. Mi è capitato, nel gestire fatti di criminalità, di avvalermi del mondo accademico, di particolari competenze; di quella che normalmente viene chiamata perizia o consulenza che presuppone, però, un mandato e soprattutto, nella fase precedente, all’inizio dell’attività della commissione, oltre che l’indicazione di un mandato, la disponibilità di un certo numero di elementi su cui poter fare valutazioni. Ciò vale soprattutto nell’ipotesi in cui ci sono già dei presupposti che possono far pensare a ipotesi investigative. Mi sembra di aver capito che questo comitato viene nominato immediatamente, appena lei rientra dal suo viaggio. Mi incuriosisce il metodo con cui lei ha formato questa commissione: se devo fare una perizia grafica, chiamo il grafologo. Se viene fuori una pista investigativa di un certo tipo scelgo l’esperto della materia. Quindi, mi fa pensare che con il presidente Cossiga lei abbia discusso su un mandato peritale – chiamiamolo così in senso improprio. Vorrei sapere in questo contatto preliminare quale fosse l’ambito del vostro mandato. In riferimento all’ambito di questo mandato vorrei sapere chi è il vostro interfaccia. Vi riferivate al presidente Cossiga? Travasavate i vostri contributi in sede diversa?

CAPPELLETTI. Quanto ai limiti del mandato essi erano totalmente aperti. Si trattava di trovare elementi significativi in un’area di oggettività che era quella del rapimento di Moro. Quanto a chi potesse aiutarci vorrei innanzitutto dire che io intervengo non soltanto quando è stato rapito Moro; quando sono stati emessi dei comunicati e forse non ancora una lettera di Moro.

PRESIDENTE. Probabilmente no perché lei ha detto uno o due comunicati; la lettera di Moro sta nel terzo.

CAPPELLETTI. Il comitato si monta: prima ci sono io; io porto il professor Franco Ferracuti, criminologo di chiarissima fama; quindi cominciano ad esserci elementi da analizzare e da giudicare: che linguaggio è; che ricorrenze terminologiche vi sono. Questo apre al linguista ed allo psichiatra Ermentini, persona di grande capacità perché si entra nell’analisi della sindrome di Stoccolma; come nessuno si aspettava che venisse rapito Moro…

GIORGIANNI. Mi aspettavo che servisse tutto questo per tracciare il profilo psicologico di coloro che avevano sequestrato Moro più che una preoccupazione su quello che avrebbe potuto dire il sequestrato.

CAPPELLETTI. Non tanto il sequestrato. Nessuno si aspettava che venisse rapito Moro ma nessuno si aspettava l’altalena di comunicati e di lettere di Moro. Questo è uno sviluppo del metodo Delphi, come lo chiamano gli americani; qui si arriva ad una biforcazione che nessuno si aspettava: chi si aspettava le lettere di Moro? Nessuno. Come interpretare questo carteggio dalla prigionia? I comunicati e così via? Questi esperti si sono creati, sorretti dal mio invito a farlo, autorizzato dalla fiducia del Ministro dell’interno, per analizzare questa piega che aveva preso il caso Moro. Certo, non andavamo a fare depistaggi che competevano alle forze di polizia, ma il comitato tentò di lavorare sui comunicati, sulle lettere, inserendosi con elementi valutativi molto innocui che però potessero poi servire ad offrire indizi nel momento in cui altri indizi di altra provenienza non vi erano.

GIORGIANNI. Scusi la mia pedanteria, professore: servire a che cosa? E’ questo che vorrei capire. Torniamo al mandato e a questi elementi oggettivi. Da ciò che lei dice ne ricavo infatti la sensazione che, tutto sommato, bisognava accertare quali erano gli elementi obiettivi. Ma a cosa dovevano servire questi elementi obiettivi? Pensavate di trovare un messaggio indiretto nei comunicati? Pensavate, ad esempio, quando è venuta fuori la lettera di Moro, di poter trovare qualche indicazione che vi desse una traccia che portasse all’identificazione di una matrice? Vorrei capire a cosa erano indirizzati questi elementi oggettivi e questa attività di analisi. Nel mandato era indicato a cosa erano indirizzati?

CAPPELLETTI. A tutto il possibile.

GIORGIANNI. Cioè, a niente: "tutto il possibile" vuol dire niente.

CAPPELLETTI. No, no. Se lei applica al concetto di tutto delle categorie analitiche, il tutto va inteso come tutto ciò che potesse servire a riempire il vuoto totale dell’interpretazione di questo fatto. C’era un fatto al quale nessuno aveva mai pensato. Senza ipotesi sulle cause, sui moventi effettivi eccetera, tutto quanto offrisse dei "punti neri su un foglio bianco" era utile e, poiché dal nulla si era passati ad avere dei comunicati dei rapitori e poi del rapito, questo cominciava a diventare ben più che nulla.

GIORGIANNI. Sì, professore, però, come giustamente diceva il Presidente, sul fenomeno già ne sappiamo abbastanza. Voi su questo fenomeno che cosa sapevate? Qualcuno vi aveva comunicato qual era in quel momento l’articolazione e la strategia di questo movimento eversivo e terrorista? Qualcuno vi aveva fornito gli elementi di fatto su cui calare le vostre analisi?

CAPPELLETTI. No. A questo punto non vorrei passare dalla parte di chi fa domande. Cioè, che cosa si sapeva? L’impressione era quella di un "apparato di apparati" dello Stato, il Ministero dell’interno, colto di contropiede. Non mi pare che il Ministero dell’interno avesse…

GIORGIANNI. Abbiamo opinioni diverse.

BIELLI. I brigatisti si conoscevano tutti.

CAPPELLETTI. Ma il "salto di qualità" per un atto di questo genere ha colto il Ministero completamente impreparato: che i brigatisti potessero fare questo evidentemente esulava dalla valutazione che si dava dei brigatisti.

GIORGIANNI. Il fatto che si registrava è che c’era questo salto di qualità. Bene, l’avevano fatto. Lei avanzò subito l’ipotesi che bisognava mettere sotto controllo i telefoni delle facoltà di sociologia. Questa proposta fu scartata subito, cioè quando lei nell’immediatezza disse a Cossiga di fare questo?

CAPPELLETTI. Cossiga né l’accettò, né la scartò. Ma io glielo dissi.

GIORGIANNI. Quando la scartò? Perché lei ha detto che la scartò.

CAPPELLETTI. Non mi risulta che l’abbia scartata, né accettata. Presumo che l’abbia scartata, perché se l’avesse accettata certamente rimaneva "aggrappigliato" qualcosa: ecco che il comitato avrebbe dimostrato l’utilità della sua esistenza in quanto avrebbe indicato una possibile fonte di indizi. Delle due l’una, o come loro dicono (e mi inchino a queste affermazioni, per carità) i brigatisti erano noti e si sapeva chi erano – e allora dov’era il problema? – o qui invece i problemi erano totali. Io sono arrivato alla totale problematicità di un apparato dello Stato, il quale andava proprio cercando degli indizi poco più che casuali. Siamo su posizioni molto diverse.

GIORGIANNI. Professore, forse ero distratto; mi sembra che lei abbia detto che quando vennero fuori delle indicazioni che confermavano la sua ipotesi che le facoltà di sociologia potessero essere l’humus su cui si era inserito il fenomeno, il presidente Cossiga disse che questa era una fesseria. Forse ho capito male io.

CAPPELLETTI. No, ha capito benissimo, e quindi è probabile che non abbia fatto mettere sotto controllo nessun telefono.

GIORGIANNI. Quindi, questa ipotesi fu liquidata quando ancora il presidente Cossiga era Ministro dell’interno.

CAPPELLETTI. Credo che non sia stata seguita. Non si sarebbe stupito dei risultati del giudice Calogero se avesse seguito questa traccia: lo avrebbe certamente portato ad individuare qualche messaggio interessante.

GIORGIANNI. Lei infatti ne parla con convinzione e questa cosa l’ha ripetuta più volte con convinzione.

CAPPELLETTI. Io sono un uomo universitario.

GIORGIANNI. Lo ha ripetuto con convinzione e sul piano della logica le sue affermazioni trovano uno stretto rigore. Lei dice anche che con riferimento al linguaggio usato, evidentemente c’era qualcuno dietro, perché magari alcune persone non erano attrezzate ad utilizzare quel linguaggio e quindi c’era indubbiamente un livello superiore. Ma su queste ipotesi che lei avanzò nell’immediatezza avete successivamente lavorato, avvalendovi, ad esempio, a vostra volta, della consulenza di un sociologo per cercare di individuare tra tante facoltà di sociologia quale potesse essere quella più contigua come cultura e come humus rispetto al fenomeno che stavate esaminando?

CAPPELLETTI. Vede, senatore, noi con la morte di Moro fummo mandati a casa. L’interesse per una persona come me, gravata da un’enorme quantità di lavoro, tra cattedra, Enciclopedia ed altre cose, di proseguire questo lavoro di indagine… Io sono diventato un lettore di giornali.

GIORGIANNI. Ma, approssimativamente, quante riunioni avete fatto?

CAPPELLETTI. Ne avremo fatte certamente dieci-dodici, forse anche di più; anche questo va desunto dalle agende.

GIORGIANNI. Sin dalla prima riunione lei però aveva la consapevolezza che c’era questa pista delle facoltà di sociologia.

CAPPELLETTI. La avevo io, non per esempio Ferracuti.

GIORGIANNI. Ma ne avete parlato con gli altri?

CAPPELLETTI. Sì, sì.

GIORGIANNI. E non avete fatto nulla per sviluppare questa pista?

CAPPELLETTI. Adesso non ricordo se ciò sia diventato argomento di discussione del comitato; fu la prima cosa che io dissi al Ministro: "Qui ci sono le facoltà di sociologia, metti sotto controllo i telefoni". Evidentemente non l’ha fatto, perché quando vennero fuori i risultati di Calogero io gli dissi: "Hai visto che la sociologia c’entrava?". Lui rispose di no, che forse quella era una contorsione, eccetera.

GIORGIANNI. Mi faccia capire un’altra cosa e scusi la mia pedanteria. Vorrei avere, quantomeno sulle questioni minimali, delle certezze. Un comitato che è stato costituito è una realtà che dà un contributo e tale era stato qualificato da colui che vi ha nominato. Ma alcune persone di questo comitato non sono state indicate da lei. Lei ci ha detto che Silvestri lavorava per gli affari suoi e che quindi non partecipava alle vostre riunioni.

CAPPELLETTI. Mi pare proprio di no.

GIORGIANNI. Ferracuti partecipava invece alle vostre riunioni?

CAPPELLETTI. Certo.

GIORGIANNI. Lei ha dichiarato che Ferracuti è stato convocato ed utilizzato riservatamente su un altro piano. Di che altro piano si trattava?

CAPPELLETTI. Ferracuti era il più competente nella materia di cui si trattava, in quanto aveva conoscenze veramente raffinate sul piano scientifico. Ho saputo poi a posteriori che Ferracuti aveva stabilito con il generale dei carabinieri Grassini rapporti di particolare amicizia tanto che – posso basarmi su quanto mi disse Ferracuti; non ho prove di questo – gli sarebbe stato offerto di aderire alla P2 e certamente Ferracuti subì un procedimento disciplinare all’università quando alcuni elenchi furono resi noti.

GIORGIANNI. Quindi, da questo lei desume che l’adesione alla P2 da parte di Ferracuti ci fu. Ricorda in quale occasione Ferracuti le parlò di tale proposta di adesione alla P2? Devo arguire che, poiché quella commissione era in attività, la proposta risaliva a quei giorni e non ad un tempo precedente.

CAPPELLETTI. Credo risalisse a quei giorni. Non ricordo precisamente quando Ferracuti mi parlò di quella adesione, se dopo la morte di Moro o nel corso del lavoro. Credo dopo la morte di Moro. Tra me e Ferracuti c’era un rapporto di amicizia molto cordiale; probabilmente me ne ha parlato dopo. Mi parlò dell’adesione a distanza di non molto tempo anche perché poi successivamente si ammalò di trombosi della carotide e dovette limitare l’attività.

GIORGIANNI. Il momento in cui Ferracuti le comunicò di tale adesione mi incuriosisce perché lei stesso ha affermato che nel suo rapporto di collaborazione con il generale nella sua formazione cattolica ci fu un’ombra; esisteva quasi una discriminazione tra lei che era cattolico e lui che era laico. A cosa si riferiva concretamente, rispetto all’attività che svolgeva, quest’ombra? Arguisco, infatti, che quell’affermazione era riferita all’attività che stavate svolgendo.

CAPPELLETTI. Anche in questo caso le affermazioni sono da valutare perché Ferracuti era persona abituata ad amplificare. Egli aveva rapporti con il generale, teneva una pistola sotto la giacca e io non ho mai ricevuto pistole in regalo. Con lui c’era una correntezza di rapporti che con me era assolutamente assente anche se con il consigliere Squillante i rapporti continuarono mentre non vidi più il generale. La mia impressione fu di una netta discriminazione nei rapporti che il generale teneva con me e con Ferracuti.

PRESIDENTE. Lei ha insistito in modo particolare sul contributo fornito da Ferracuti in ordine alla sindrome di Stoccolma. Tra i pochi documenti messi a disposizione dal Ministero dell’interno ne ho ricevuto uno relativo al lavoro svolto dal suo gruppo di esperti. Si tratta di un lungo appunto del prof. Pieczenik intitolato "Scenario. Ipotesi sulla strategia e tattica delle BR e sulla gestione della crisi" in cui si legge nell’esposizione schematica: "Tattica: isolare le BR; ridurre l’interesse della stampa sul caso Moro e sulla famiglia Moro; mantenere l’unità della DC". Si legge ancora: "Sminuire l’importanza di Moro e dimostrare attraverso la stampa che egli non è direttamente responsabile di quanto ha scritto e che in effetti ha subìto un lavaggio del cervello; ricercare dichiarazioni di intimi amici e colleghi di Moro che dimostrino quanto egli avesse sostenuto l’attuale Governo e la sua decisa presa di posizione". Ho letto a lungo il memoriale di Moro e devo ammettere che la tesi della sindrome di Stoccolma mi sembra una sciocchezza. In realtà, Moro conduce una battaglia politica e produce documenti politici addirittura di una capacità profetica la cui lettura dà i brividi. Moro, in quella difficilissima situazione in cui si trovava, riesce a descrivere con precisione quella che sarebbe stata l’Italia dopo la sua morte; descrive gli anni Ottanta con estrema precisione ed egli muore nel 1978. L’impressione che potrebbe risultare è che in realtà la tesi della sindrome di Stoccolma non fosse qualcosa in cui credevate veramente e se ci credevate non coglievate l’esatta situazione né l’esatto rapporto che si era stabilito tra Moro e Moretti che era un rapporto rovesciato: in realtà era Moretti, per sua stessa ammissione confermata da altri brigatisti, a subire maggiormente la personalità di Moro. Moro li sovrastava per informazione, cultura, capacità di analisi. La sindrome di Stoccolma è stata un errore di Ferracuti o una scelta tattica, quella cioè di potenziare l’effetto destabilizzante delle lettere di Moro? Non so se lei ha mai letto il memoriale ma non è facile sostenere che da quello scritto possa risultare una sindrome di Stoccolma.

GIORGIANNI. Era condivisa da tutti la tesi della sindrome di Stoccolma? Chi ipotizzò per primo che potesse intervenire un fenomeno del genere che poi fu un germe lasciato al Ministero dell’interno?

CAPPELLETTI. Su questi vagiti di certe scienze umane, compresa la criminologia, ho i miei seri dubbi. Non fremevo di entusiasmo per la tesi della sindrome di Stoccolma di cui parlò con grande precisione di riferimenti Ferracuti, che era un uomo di scienza e di ricerca. In quel momento Ferracuti portò nel Ministero dell’interno una competenza che mancava. Gli onorevoli commissari devono darmi atto di questo. Tutto questo per il momento non servì a niente, anche per la polizia, per i carabinieri, ma non possiamo incolpare di ciò il professor Ferracuti, uno studioso di alto rilievo scientifico che portò nel Ministero dell’interno conoscenze che mancavano. Tra l’altro, Ferracuti, sollevando grande interesse, spiegò cosa fosse la sindrome di Stoccolma, manifestatasi nel corso di un rapimento avvenuto in Svezia.

PRESIDENTE. Noi abbiamo avuto modo di assistere a casi di sindrome di Stoccolma. Si è trattato di una ragazza rapita che si è innamorata del rapitore. Probabilmente, però, si sottovalutava la personalità di Moro e quella molto minore dei suoi carcerieri, argomento che poi è alla base della tesi di Sciascia.

CAPPELLETTI. Si è pensato alla sindrome di Stoccolma perché la posizione di Moro era argomentata. È necessario però fare attenzione perché anche in quel caso si muoveva, in campo cattolico, dall’ipotesi del martirio accettato e subìto. Il primo grande martire nel circo Flavio del Colosseo, Sant’Ireneo, non ha scritto lettere di quel tipo. Veniva applicato uno schema ben più tradizionale.

BIELLI. Silvestri non ha pensato questo.

VENTUCCI. Francesco Bruno, allievo di Ferracuti, sostiene che la sindrome di Stoccolma è stata un abbaglio.

CAPPELLETTI. Di fronte a queste inattesissime lettere di Moro, la gente fu colta da un enorme stupore. Essere stati là significa avere raccolto uno stupore totale per il rapimento. C’erano brigatisti in carcere, c’era gente che sparava ma non si pensava alla eventualità che potesse essere organizzato un rapimento di quel tipo in ordine al quale ancora oggi ci domandiamo se era in qualche modo coinvolta l’ambasciata cecoslovacca. Immaginiamo lo stupore che ha colto tutti quando è stato compiuto l’attentato in via Fani.

GIORGIANNI. Condividiamo la sua analisi ma vorrei capire meglio. Il professor Ferracuti offre il modello con cui leggere le lettere di Moro e mi pare che si tratti di un modello che non viene universalmente accettato anche all’interno del comitato. Lei, tra l’altro, aveva il privilegio di aver conosciuto Moro e quindi credo fosse in grado di fornire un profilo psicologico dello statista da applicare a quelle lettere. Lei, professor Cappelletti, riconosceva in quelle lettere l’onorevole Moro?

CAPPELLETTI. No, anzi ne ricevetti una profonda delusione morale. Le rispondo con franchezza visto che la sincerità è molto apprezzata nella sfera di questa Commissione. In quella occasione non feci alcun appello alla "sindrome di Stoccolma" e, ripeto, l’impressione che ne ricevetti fu quella di una profonda delusione morale.

GIORGIANNI. Perché, professore?

CAPPELLETTI. Perché Moro doveva accettare di morire, anche se ovviamente aveva tante ragioni dalla sua parte in quanto era stato rapito; tuttavia, a mio avviso, egli avrebbe dovuto accettare di morire. Se erano veri i valori in cui Moro credeva, egli avrebbe dovuto accettare di morire. Tanta gente lo ha fatto, non sarebbe stato certamente lui il primo.

PRESIDENTE. Posso aggiungere pacatamente una considerazione? Questa fu la stessa reazione che ebbi allora quando ero un piccolo avvocato di provincia che mai si sarebbe aspettato di occuparsi di questi problemi. Ricordo, infatti, che quando lessi la prima lettera di Moro - quella del 29 marzo cui ho fatto riferimento - ebbi la sua stessa reazione, professor Cappelletti, anche se il modello a cui pensai non era per me quello del martire cristiano - a cui lei ha accennato - ma quello che si ritrova nelle tante lettere dei condannati a morte della Resistenza.

CAPPELLETTI. Questa è una bellissima osservazione.

PRESIDENTE. Tuttavia, in tutti questi anni ho capito di aver avuto torto e quindi ho rivisto questa mia opinione; infatti, mi sono reso conto che è un errore considerare Moro un uomo di Stato perchè non faceva parte di questa categoria in quanto fu fino in fondo un uomo politico che come tale ragionava politicamente sull’utilità, anzi sull’inutilità della sua morte e sulla utilità della sua salvezza. Tanto è vero che anche in base a quanto ci ha raccontato Maccari, quando Moro capì che la battaglia politica era ormai perduta, morì con una rassegnazione assoluta accettando il sacrificio non in nome degli ideali, ma con la logica di chi ha perduto e comprende che non può che rassegnarsi all’ineluttabile. Ho reputato giusto interromperla, professor Cappelletti, proprio per fare ammenda della mia valutazione di allora che almeno, finché non mi sono occupato direttamente del problema, non avevo mai cambiato. Sostenevo infatti proprio quanto da lei dichiarato e cioè che chi occupa un posto di responsabilità come quello occupato dall’onorevole Moro deve anche saper morire. Credo invece che se continuiamo a ritenere valida questa ipotesi facciamo un torto alla memoria di Moro, in quanto egli ragionando politicamente pensava che se fosse morto sarebbe stato il paese a pagare perché si sarebbe verificata una involuzione della società ed in effetti egli descrisse proprio gli anni ottanta, compresi fenomeni come "Tangentopoli" e "Mafiopoli".

GIORGIANNI. Condivido la valutazione effettuata dal Presidente e arguisco dalla risposta che lei ha fornito, professore Cappelletti, che la sua delusione deriva dal fatto che lei ritiene che quelle lettere di Moro siano un suo prodotto e non il frutto della "sindrome di Stoccolma".

CAPPELLETTI. Non ho mai attribuito a me stesso l’ipotesi della "sindrome di Stoccolma", ritengo che si tratti di un elemento conoscitivo importante accanto ai molti altri che il professor Ferracuti per la sua parte, ma anche il professor Ermentini – a mio avviso questa elevata figura di psichiatra dell’università di Milano è forse passata in secondo piano – portarono in una Amministrazione che non sapeva nulla di ricerca nel campo delle scienze umane; si trattò di un soffio di illuminazione e di innovazione. Ripeto, il comitato che formai e presiedetti di fatto rappresentò un soffio di novità in una branca fondamentale dello Stato italiano e prestammo il nostro lavoro gratis e nell’intendimento di fornire un servizio allo Stato e quindi ritengo che non fu inutile nominarlo e farlo funzionare. Furono pertanto esposti questi quadri interpretativi, tuttavia torno a ribadire il mio distacco rispetto all’ipotesi della "sindrome di Stoccolma" in quanto ritengo che chi vive l’avventura di Moro, chi è cristiano, deve morire come Moro non è morto. Quanti martiri ci sono stati che non hanno subìto la "sindrome di Stoccolma" e che non sono venuti a patto con i loro carcerieri!

GIORGIANNI. Sulla questione del patto ho qualche dubbio personale. Desidero ancora rivolgere una breve domanda al professor Cappelletti. Tralasciando la questione relativa a quando collocare l’episodio del dialogo con Ferracuti in merito alla proposta da lui ricevuta di aderire alla P2, vorrei sapere in quale contesto emerse questa comunicazione a lei fatta dal professor Ferracuti. Dal colloquio che ebbe che impressione ne ricavò? Quella proposta a suo avviso aveva stupito il professor Ferracuti, gli determinava in qualche modo imbarazzo o qualche sospetto sulle sue finalità?

CAPPELLETTI. Molto probabilmente i fatti si svolsero in questo modo, o perlomeno così mi sembra di ricordare. Moro era stato ucciso ed io avevo degli incontri periodici con il professor Ferracuti - che mi era molto affezionato - anche presso la sua abitazione, tra l’altro anche sua moglie era una mia vecchia amica. In uno di questi incontri, facendo un bilancio riassuntivo della situazione, affermai che non mi era piaciuta affatto la condotta del generale Grassini, che era una cara persona, ed inoltre che mi faceva tanto pena Cossiga. Il professor Ferracuti a quel punto dichiarò che il generale effettivamente aveva avuto una condotta strana dal momento che gli aveva proposto di aderire alla P2. Quando poi si trovarono gli elenchi della P2 ed il professor Ferracuti, con mio grande dispiacere, subì una censura accademica con una sospensione per alcuni mesi dal suo incarico, ebbi occasione di ricordare questo colloquio rendendomi conto che effettivamente il professor Ferracuti aveva poi accettato quella profferta.

GIORGIANNI. Un’ultima domanda. Il professor Ferracuti si vantò di essere stato lui a far nominare il comitato. Lei precedentemente - ed uso le sue stesse parole - a proposito dell’attività del comitato ha detto che fu "vana, accademica e sterile". Ebbene, quale motivo aveva allora il professor Ferracuti di vantarsi?

CAPPELLETTI. Francamente, ricevendo molte soddisfazioni dal mio lavoro non vado a raccogliere briciole di questo genere. In ogni caso lessi questa dichiarazione del professor Ferracuti in un’intervista, pubblicata su un settimanale, rilasciata poco tempo prima della sua morte. In proposito posso dire che certamente l’apporto del professor Ferracuti fu straordinariamente efficace, forse superiore al mio, tuttavia evidentemente aveva cambiato nella sua mente l’andamento reale delle cose. Questo talvolta si verifica, in quanto si mente senza volerlo fare, evidentemente cambia il ricordo. Lei senatore Giorgianni ha detto di essere un magistrato, ebbene io sono un medico, mi sono infatti laureato prima in medicina e poi in filosofia e la mia è stata la prima cattedra in Italia di Storia della scienza.

PRESIDENTE. Come gli antichi fisiologi.

CAPPELLETTI. Esattamente. Mi sono trovato ad esercitare - essendomi sempre mantenuto agli studi da solo – per un paio d’anni la medicina proponendo alcune diagnosi clamorose anche in campo politico; pertanto sono consapevole che il ricordo può essere falsato involontariamente per ragioni dovute a dinamiche individuali. Forse il professor Ferracuti aveva falsato il suo ricordo, fermo restando che rimane comunque una nobile figura di ricercatore e di intellettuale a cui molto deve l’Amministrazione dell’interno; torno infatti a ripetere che di tutti questi aspetti ("sindrome di Stoccolma", mezzi di indagine, e così via) non si sapeva nulla. Ricordo che addirittura si parlò di far arrivare delle macchine dagli Stati Uniti, ma ripeto l’Amministrazione non sapeva nulla. Certamente c’era un generale Dalla Chiesa che era valentissimo, e quindi giustamente il Presidente ha rilevato perché non ci si fosse rivolti a lui; a riguardo posso soltanto dire che ci si aggrappava a qualcosa che permettesse di muoversi in quella situazione in cui si era verificato un rapimento assolutamente improbabile e da nessuno atteso, ed in presenza di un carteggio - quello di Moro - assolutamente improbabile e da nessuno atteso, il cui sviluppo rivela l’impronta del grande politico che egli era, ma che nello stesso tempo fa emergere una fragilità morale che nessuno si aspettava.

BIELLI. Nella storia è accaduto che per delle cause nobili ci sia stato anche il sacrificio. Sono molti gli episodi. Le rovescio la domanda. Seguendo questo ragionamento ci potrebbe essere anche un’altra ipotesi: che in ragione di un interesse dello Stato si facesse in modo che il sacrificato ci potesse essere, senza intervenire per evitare che si potesse arrivare alla morte di Moro. Se ragiono come lei …

CAPPELLETTI. Da questa parte. Le do perfettamente ragione.

BIELLI. Con il suo ragionamento, è legittimo pensare allora che ad un certo momento proprio in ragione del bene dello Stato era bene che Moro morisse e a quel punto con lui anche i misteri e le cose che avrebbe potuto dire. Seguendo il suo ragionamento, si evince che ci sia un giudizio morale sulla persona in questione, ma c’è un giudizio che potrebbe essere anche politico, in ragione del fatto che nel processo Aldo Moro avrebbe potuto dire qualcosa che doveva essere coperto. Altrimenti, perché il sacrificio? Non so se mi sono spiegato.

CAPPELLETTI. Questa è alta accademia filosofica, che si può anche fare. Domattina ho da fare qui vicino, perché andare a letto? E’ bellissima questa discussione. Onorevole Bielli, ha ragione. Da questa parte il ragionamento è quello che lei dice, cioè che era giusto proporsi di salvare la vita di Moro.

Attenzione, prima dicevo che Moro era stato rapito, sequestrato, aveva svolto un alto ruolo storico, la sua morte avrebbe fatto giganteggiare la sua figura. Questo non è stato dopo quelle lettere, anche se la sua figura si è tinta di pietà, di solidarietà e di apprezzamento, ma non ha giganteggiato come sarebbe stato giusto. Con chi ha ucciso uomini -ma nelle sue lettere non c’è una parola che venga rivolta al maresciallo e agli altri uomini della scorta che sono stati uccisi- io non vengo a patti e decido di morire. Moro avrebbe dovuto o potuto dire questo Questa è un’ipotesi che non si può escludere. Chi stava di qua avrebbe dovuto fare cento tentativi dignitosi - per carità- e concreti per cercare di salvarlo. Erano due posizioni antitetiche. Sarebbe stato bello che stasera ci trovassimo ad analizzare l’ingresso delle scienze umane nell’amministrazione dell’interno, perché di questo si trattò, prendendo atto che è stato un grande martire, di quelli della Resistenza o dei morituri dell’armata di Stalingrado, le cui lettere sono bellissime; e da questa parte c’era uno Stato che aveva preso in considerazione subito, il giorno dopo, cosa fare. Invece non è così. Presidente Pellegrino, metterò a disposizione tutte le carte in mio possesso.

PRESIDENTE. Se il professor Cappelletti potrà integrare dal punto di vista documentale i pochi elementi che ci sono venuti dal Ministero dell’interno sul lavoro di questo gruppo di esperti gliene saremo grati.

CAPPELLETTI. Sarà fatto.

PRESIDENTE. Ringraziamo il professore.

Dichiaro conclusa l’audizione.

La seduta termina alle ore 23,15.

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