Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

50a SEDUTA

Mercoledì 17 marzo 1999

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

prima parte

seconda parte

 

Seconda parte

Indice degli interventi

PRESIDENTE
FRANCESCHINI
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore 1 - 2 - 3
FRAGALA' (AN), deputato 1 - 2 - 3 - 4
MANTICA (AN), senatore 1 - 2 - 3
STANISCIA (Dem.di Sin.-l'Ulivo), senatore 1 - 2
TASSONE (Misto), deputato 1 - 2
ZANI (Dem. di Sin.-l'Ulivo), deputato 1 - 2 - 3 - 4

 

ZANI. Mi sembra di capire che lei sia convinto che Moro sia stato ucciso, fondamentalmente, per ciò che ha detto, comunque entro una dinamica interna alle Brigate rosse. Moro è stato ucciso per ciò che ha detto e dunque tutto il dibattito che prosegue ancora oggi sulla fermezza e sulla trattativa ha poco a che vedere, di fatto, con l’uccisione di Moro. Su questo vorrei ascoltare una sua opinione, ricevere una conferma.

FRANCESCHINI. Questa è la mia ipotesi. Interviene un momento di svolta su cui si dovrebbe indagare, sia politicamente che con atti giudiziari, ed è la scoperta del covo di via Gradoli. Ho sempre pensato che la cosiddetta linea della fermezza avesse un senso perché si riteneva che, comunque, lo Stato disponesse di forze per liberare Moro. Sono sempre stato convinto che si conosceva la prigione di Moro, si sapeva dove Moro fosse rinchiuso e quindi si riteneva possibile una operazione che poi è stata condotta pochi anni dopo durante il caso Dozier. Ritengo che, a quel punto, sia accaduto qualcosa che ha cambiato lo scenario e penso che sia attribuibile a ciò che Moro aveva detto. Questa è una mia ipotesi. Interviene poi il famoso memoriale – ed è chiaro che poi sono morte delle persone - ; si dice che Dalla Chiesa tenesse il memoriale nascosto a Palermo e che probabilmente l’omicidio Dalla Chiesa era in rapporto al memoriale Moro piuttosto che a questioni di mafia. Probabilmente, quindi – ripeto che questa è una mia ipotesi – Moro deve aver detto una serie di cose che certamente sono servite ai brigatisti per condurre una trattativa sotterranea per salvare se stessi, sostanzialmente, e si trattava di informazioni che non potevano essere riferite, ma non so quali fossero, e andavano contro interessi molto profondi dello Stato. Quando parlo dello Stato mi riferisco ad un arco di forze molto ampio e non ad un solo partito. Se questa è la verità, a quel punto Moro era segnato.

FRAGALA’. Oppure doveva essere psichiatrizzato.

FRANCESCHINI. Ma anche quella era una operazione molto difficile, era una morte civile.

ZANI. Era una operazione da film.

FRANCESCHINI. Era più semplice farlo uccidere.

ZANI. Tutto questo ha un senso per chi, come me, pensa che Moro sia stato ucciso per ragioni relative ad una vicenda che si chiama "Yalta". Ciò che noi conosciamo del memoriale di per sé è estremamente grave. Il problema vero è che Moro era il protagonista di una stagione politica che non poteva esistere. Del resto, mi sembra di capire che l’obiettivo politico ed ideologico, il bersaglio fondamentale per le Brigate rosse fosse l’idea stessa del compromesso storico, di una strategia di tipo assolutamente nuovo. E’ così?

FRANCESCHINI. In modo più o meno consapevole, questo era certamente l’obiettivo, cioè rompere un possibile accordo tra una parte della Democrazia Cristiana e una parte del Partito comunista. Su questo ho riflettuto anche successivamente. Interpretavo questa situazione solo dall’ottica occidentale, ma la strategia del compromesso storico, la democratizzazione di un partito come quello comunista, quindi l’accettazione della NATO e lo sganciamento dall’Unione Sovietica, avrebbe significato una serie di gravissime contraddizioni soprattutto nei paesi dell’Est, a mio avviso. Al di là dei problemi dell’Ovest, il problema più grande era quello dei paesi dell’Est. A quell’epoca governava Breznev che manteneva tutto congelato. Probabilmente, ciò che poi Wojtyla ha determinato negli anni ’80 era una dinamica che si voleva attuare con la politica di democratizzazione, di compromesso, con la visione dell’eurocomunismo riferita alla Polonia o all’Ungheria avanzata da Berlinguer. Probabilmente, quindi, si trattava di un progetto destabilizzante, in quegli anni, sia all’Ovest che all’Est. Era difficile mantenere nascosto Moro per così tanti giorni in una città come Roma perché se ci fosse stato anche un solo servizio, ad esempio il KGB, che non era d’accordo, sarebbero stati scoperti. Questo significa che esisteva un accordo tra tutti quelli che contavano e che avevano deciso che Moro doveva morire. Quel tipo di strategia politica doveva finire. Il sequestro Moro aveva chiuso quel tipo di strategia politica. La domanda cui si deve rispondere è perchè è stato anche ucciso, visto che era sufficiente averlo distrutto dicendo che non era più lui. Era finita la strategia del compromesso storico, perché hanno dovuto anche ucciderlo? Questa spiegazione può trovarsi solo in ciò che lui ha detto: è l’unica chiave.

FRAGALA’. E che non è stato rivelato.

FRANCESCHINI. Che è stato oggetto di trattative e di ricatti: il discorso dei vari ritrovamenti di memoriali in via Montenevoso, la "manina" e la "manona".

ZANI. Su questo le interpretazioni possono essere le più diverse: nel suo libro lei da l’idea che ci sia stato un contrasto interno alla sfera del potere e può darsi che in questo contrasto alcune forze abbiano agito. A noi, che dovremo scrivere una relazione conclusiva, interessa stabilire che c’è stata una convergenza tra l’obiettivo strategico delle BR e le forze che a quell’epoca intendevano impedire l’effetto "palla di neve" per ciò che attiene agli equilibri stabiliti a Yalta. Eravamo negli anni ‘70 e secondo me questa è la chiave storico-politica, ma mi sembra di capire che lei sostanzialmente la condivida. Un’altra delle cose sulle quali mi piacerebbe conoscere il suo parere, sia pur breve, riguarda la descrizione del cosiddetto "Superclan". Quella che lei ci ha fornito stasera è abbastanza bonaria, mentre, a leggere i suoi libri e anche altri, compresi quelli di quel senatore che lei nel suo libro fa strangolare con un filo di nylon, emerge la descrizione di una tecnostruttura vera e propria, adatta alla bisogna nel caso, per esempio, della salvaguardia a tutti i costi degli equilibri di Yalta. Peraltro una tecnostruttura con rapporti con i servizi dell’Est e dell’Ovest, collocata in un punto nevralgico. Per la verità, anch’io propendo ad interpretarla così, mentre invece questa sera lei ci ha dato l’idea di una sorta di comando rivoluzionario europeo, in questo modo facendo anche salva la figura di Moretti. Al contrario, da una certa lettura dell’evoluzione (probabile, perché prove non ne ha nessuno, ma anche questo è abbastanza curioso) viene fuori l’idea di una vera e propria tecnostruttura, che non è un comando rivoluzionario, non è gente che agisce in buona fede. D’altra parte, nel suo romanzo Moretti va a Venezia a prendere ordini non ho capito bene se da Simioni o…

FRANCESCHINI. Da Vanni Mulinaris o da Berio.

ZANI. Uno di quelli. E’ chiaro che questo è un punto dirimente, almeno sul piano dell’analisi. Dopo di che mi rendo conto che non verremo a capo di nulla, ma sapere che nei giorni del sequestro e dell’uccisione di Moro si apre una sede dell’Hyperion a Roma non è cosa di poco conto, sapendo che l’Hyperion ha quel tipo di evoluzione. All’epoca, quando eravamo tutti giovani, potevate anche dare questa denominazione di tipo ironico, i "superclandestini", quelli che vogliono fare cose inimmaginabili che non riusciranno mai a fare. Allora è meglio bruciare la macchina del capo reparto. Ma oggi, tra queste due ipotesi, tecnostruttura o comando rivoluzionario, per quanto velleitario o efficace, quale delle due sposa?

FRANCESCHINI. Probabilmente non ho chiarito bene il mio punto di vista. Sono convinto che sia una tecnostruttura, ma essa può presentarsi rispetto a certi soggetti anche come un comando rivoluzionario. Tento di spiegarmi meglio: leggendo gli atti dell’inchiesta Mastelloni-Priore, troviamo una serie di nomi di personaggi che fanno parte del "Superclan". Uno di questi era Ivan Maletti, uno di Reggio Emilia, che stava nella FGCI, un compagno che conosco benissimo. All’inizio degli anni ’70 è sparito e nessuno lo ha mai più rivisto. L’ho ritrovato negli atti dell’inchiesta: senza essere ricercato, vive da trent’anni in Francia. C’è una caratteristica interessante: un gruppo composto da una trentina di persone che vivono da sempre insieme; dagli atti degli anni ’80 hanno studi o attività finte o vere, si aiutano, formano una specie di loggia solidaristica tra soggetti che è strano rimangano per tanti anni insieme. Se penso ad uno come Ivan Maletti, alla sua storia, credo fosse convinto di operare all’interno di un comando rivoluzionario. Al limite, per la sua storia, avrebbe anche potuto accettare l’idea del KGB. E’ l’esempio che portavo prima parlando dei compagni delle BR infiltrati nell’Autonomia: se l’esecutivo era in mano ai servizi di qualcuno non lo potevano sapere e rimanevano convinti di svolgere un’opera rivoluzionaria. Loro certamente si presentavano e tendevano a presentarsi come una scuola, una cosa assolutamente legale; ai loro militanti si presentavano come gruppo rivoluzionario; quattro o cinque di loro, comunque pochi soggetti, quelli che esistono insieme sin dall’inizio, hanno in mano la verità.

ZANI. Ma insomma, lei è convinto che qualcuno sia venuto a Roma ad interrogare Moro?

FRANCESCHINI. L’ho scritto anche nel libro: conoscendo uno come Corrado Simioni, penso che per lui la tentazione di farlo era troppo forte. E’ una mia idea, posso sbagliarmi, ma conoscendo la persona, la tentazione era troppo forte. Anche perché Moro non era uno qualunque. Moretti non ha niente da dire a Moro, non ha nulla di interessante…

PRESIDENTE. Certo non gli viene in mente di porre domande sulla Montedison.

ZANI. Aveva la tentazione di misurarsi con Moro.

FRANCESCHINI. Era misurarsi intellettualmente con un livello alto. Un’altra riflessione che voglio fare è la seguente: non so se è casuale o meno, ma l’Aginterpress, organizzazione di destra degli anni ’70, stranamente dal 1974, dopo il colpo di stato dei garofani, si sposta in Spagna e diventa anch’essa una scuola di lingue. A Parigi in quegli anni c’è un’altra scuola di lingue. Non so se questo è casuale o se c'è una rete che ha il compito, all'estrema destra e all'estrema sinistra, di manovrare…Delfino, nel suo libro, dice una cosa molto interessante. Non ho mai riflettuto su questa una frase che adesso, se volete, vi leggerò, perché in genere si pensa sempre politicamente al discorso del sequestro Moro, si pensa al compromesso storico…

PRESIDENTE. Delfino fa un'apertura tutta sul lato dell'economia.

FRANCESCHINI. …oppure al fatto di non far andare il PCI al Governo. Delfino scrive: "Primo file: una foto di Henry Kissinger. L'illustre politico aveva a suo tempo ostacolato, sia in USA che in campo internazionale, ogni iniziativa diplomatico-giudiziaria e di intelligence, volta a fare in modo che Aldo Moro fosse salvato? Per ostacolare qualcosa è necessario riuscire a dominarla? Per ostacolare un paese - perché di questo si trattava - non era forse necessario "dominare" quel paese? Eravamo dunque una colonia, o una democrazia autonoma?". Secondo me è una tesi estremamente interessante, cioè probabilmente il paese Italia - e a questo proposito c'è anche la precedente storia di Mattei - faceva paura, soprattutto rispetto alla Germania, tant'è che in una lettera Moro dice che bisognerebbe chiederlo ai tedeschi perché era lì.

PRESIDENTE. Ai tedeschi e agli americani.

FRANCESCHINI. Adesso vi è la storia dell'ingresso dell'Italia nell'euro, dei rapporti tra la Lega e la Germania e così via.

PRESIDENTE. Ma lei una riflessione di questo tipo l'ha mai fatta a suor Teresilla?

FRANCESCHINI. Francamente non l'ho fatta, comunque Teresilla era incapace di afferrarla, onestamente.

PRESIDENTE. Questo potrebbe aver suggerito a Piccoli l'identikit del quarto uomo di via Montalcini, che egli ha delineato con estrema precisione al Comitato di questa Commissione e che poi somiglia a Germano Maccari, più o meno come un mio identikit, sotto il profilo sociale, potrebbe somigliare a quello dell'onorevole Fragalà: tutti e due siamo parlamentari e avvocati, però siamo persone del tutto diverse. Infatti, Piccoli descrive un intellettuale che potrebbe corrispondere alla figura di Simioni.

FRANCESCHINI. Credo che le informazioni di Piccoli siano ben al di là delle ipotesi che posso fare io, che dicevo a suor Teresilla o a Cavedon. Sono informazioni che vengono direttamente - credo - da Lauro Azzolini, da gente che era direttamente a conoscenza di una serie di segreti.

PRESIDENTE. In effetti, egli fa una descrizione così completa di una persona che mancano solo il nome e il cognome.

FRANCESCHINI. Ad esempio, Cavedon stabilì un rapporto molto stretto con Azzolini, con Morucci; penso che egli andò anche a trovare diverse volte Moretti a Milano, perché sapevo da suor Teresilla di questi spostamenti.

PRESIDENTE. Quindi le fonti di Piccoli sono di prima mano.

FRANCESCHINI. Sì, certamente.

ZANI. Nel suo libro, ad un certo punto, lei situa un personaggio in vicolo Sant'Agata. C'è una ragione particolare per cui ha scelto questo vicolo?

FRANCESCHINI. Pensavo e penso di aver capito qual è la logica del sistema che è stato usato; quindi ho cercato, partendo da elementi che già esistono nelle inchieste giudiziarie, di dar corpo in qualche modo a questa tesi, inventandomi le connessioni che non conoscevo. Ad esempio, la cosa interessante di Venezia (non è inventata, esiste agli atti, credo, dell'inchiesta Mastelloni) è una dichiarazione di Galati, il quale afferma che Moretti si incontrava a Venezia con Mulinaris. Non so se avete ascoltato Galati, che è l'unico del "Superclan" ad aver fornito a suo tempo informazioni molto precise, che gli venivano date direttamente da Moretti, perché lui è di Verona, conosceva il Veneto. Ho preso dalle inchieste giudiziarie una serie di dati, che poi ho messo lì.

ZANI. Ma vicolo Sant'Agata non c'è?

FRANCESCHINI. È una mia invenzione.

ZANI. Però vicolo Sant'Agata è a 50 metri da piazza Belli. Ciò ha a che fare con la vicenda del comunicato del lago della Duchessa. Vicolo Sant'Agata si trova in Trastevere.

FRANCESCHINI. In quel periodo abitavo in Trastevere.

ZANI. Che idea si è fatto di un personaggio come Senzani? Come nasce politicamente?

FRANCESCHINI. Anche questa è un'altra storia. Infatti, c'è una storia delle BR divisa in due fasi, che però ha una sua continuità fino al 1978. C'è stato un periodo fino al 1974 (cioè fino al mio arresto e a quello di Renato e di altri compagni), cui è seguita una fase di transizione nel 1975, quando vengono arrestati praticamente tutti i compagni originari. Dal 1976 al 1978, cioè fino al sequestro Moro, c'è una fase in cui l'organizzazione assume altri connotati, però è sempre e comunque figlia di quell'epoca, di quella matrice. La fase del post Moro, poi, è di totale disgregazione: in essa avvengono varie rotture, ci sono varie BR (partito Guerini e così via). Senzani è uno di questi soggetti molto strani, per tutta una serie di motivi. Non so se siete in grado di documentarvi o meno, ma ciò che dico l'ho appreso tramite Fenzi, cognato di Senzani. Siamo stati un anno insieme, Fenzi ed io. Senzani, a detta di suo cognato, era un consulente del Ministero di grazia e giustizia (questa non era un'invenzione). Fu inquisito nel 1976 per essere un fiancheggiatore delle Brigate rosse, a Firenze, perché in casa sua ospitava riunioni di un certo tipo. Nonostante ciò, nel 1977, mi sembra, andò negli Stati Uniti, in California a studiare il sistema carcerario dei minori come esperto del Ministero di grazia e giustizia. E in quegli anni andare negli Stati Uniti era impossibile, credo che neanche qualche esponente del PCI vi sia riuscito. Ho provato l'anno scorso ad andare negli Stati Uniti; sono andato all'ambasciata ed ho presentato la richiesta, ma il Dipartimento di Stato mi ha rifiutato il visto, dicendo che, nonostante siano passati tutti questi anni, secondo loro sono ancora un terrorista pericoloso. Avevo anche specificato che mi sono dissociato. Per questi motivi, ritengo sia davvero strano il fatto che questo soggetto sia riuscito ad andare negli Stati Uniti per compiere i suoi studi (credo nel 1979). Nel 1980, ritornò nuovamente nelle BR. È un soggetto che tende a mettersi in mostra - questo non l'ho mai capito -, si fa ricercare. Ad esempio, nella storia dell'intervista durante il sequestro D'Urso, fa in modo che i giornalisti lo riconoscano. A quel punto, si rende clandestino. Le operazioni condotte da questo soggetto sono stranissime. Ad esempio, ad un certo punto a Rebibbia si fa cadere da un panino, durante la perquisizione, la lista di tutti i compagni del partito Guerini. Certamente era uno smemorato, da questo punto di vista. Alcune persone sono state condannate proprio per questo biglietto, nel quale era specificato quali soggetti erano compagni e quali non lo erano. Credo sia rimasto due anni in isolamento insieme ad Alì Agca. Alì Agca, quando ha elaborato la pista bulgara, aveva Senzani nella cella accanto, e costoro stavano insieme durante l'ora d'aria.

PRESIDENTE. Con Firenze che rapporti aveva?

FRANCESCHINI. Senzani era di Firenze. Credo fosse consulente di un professore (Cavalli, forse). Infatti, ricordo che avevo letto nei suoi articoli che era un professore universitario che scriveva su una rivista…

PRESIDENTE. Che adesso vive a Firenze.

FRANCESCHINI. …di area socialista. Egli scriveva anche su questa rivista, ad esempio sul terrorismo.

ZANI. Nell'episodio dello scontro a fuoco, nel quale morì Mara Cagol, emerge l'idea di una convergenza (eventualmente, facciamo questa ipotesi) tra chi voleva in qualche modo prendere in mano l'organizzazione delle BR e strutture dello Stato. L'episodio è da lei descritto come una liquidazione a freddo. Se per ipotesi, ad un certo punto, lei, Curcio e Mara Cagol, foste stati tolti di mezzo in modi diversi, questo poteva bastare a prendere le redini dell'organizzazione, non c'era bisogno di uccidervi. Invece, almeno per Mara Cagol, questo avviene e lei descrive l'episodio come un fatto di una certa efferatezza, ma anche di precisione tecnica, per essere cinici. Se questo avviene, vuol dire che si accredita una versione di contatti tra chi eventualmente, dentro le BR, aveva quell'interesse e strutture dello Stato. Questo è ciò che viene in mente leggendo la dinamica, come viene raccontata, di quell'episodio. Lei ha il sospetto che vi fossero, tanto per intenderci nei carabinieri…

FRANCESCHINI. Questa era un'ipotesi che noi discutevamo. In particolare, era un'ipotesi che io discutevo con Semeria. Mara Cagol è stata uccisa con un colpo particolare; aveva le braccia sollevate e le fu sparato un colpo sotto l'ascella. Bastò un colpo solo, perché il proiettile forò entrambi i polmoni e nel giro di trenta secondi morì per asfissia. Semeria tentarono di ucciderlo nello stesso identico modo. Cioè alla stazione di Milano lo ammanettarono con le mani sopra, gli spararono un colpo in mezzo alla gente solo che lui ebbe la fortuna che il proiettile per un qualche motivo era stato deviato, per cui credo gli ruppe la scapola, gli forò un solo polmone e riuscì in qualche modo a sopravvivere. Chi sparò a Semeria era il brigadiere Atzori, uno degli uomini di fiducia di Delfino, che allora credo fosse capitano o colonnello, o roba del genere; stranamente Marra dice in questa dichiarazione che lui aveva rapporti con il capitano Atzori, non so se sia lo stesso.

PRESIDENTE. Sì.

FRANCESCHINI. Rileggendo queste cose, Semeria che affermava che Moretti era una spia eccetera e che tutto quello che era successo … certamente conoscevano Semeria perché Marra lo conosceva benissimo. Ci sono tutta una serie di cose che possono arrivare… Comunque l’ipotesi che faceva Giorgio con me era che lo volevano uccidere, allo stesso modo con il quale hanno ucciso Marra. Questa era la sua tesi, che i Carabinieri lo volevano uccidere. Adesso poi il perché ed il per come uno può fare una serie di ipotesi… però c’è una serie di dati di fatto elementari. Perché sapevamo questo? Perché il brigadiere Atzori aveva contattato varie volte la famiglia. Cioè. Semeria era figlio di un dirigente medioalto della SIT-SIMENS, come allora si chiamava, di famiglia milanese benestante, borghese come si diceva allora. Il brigadiere Atzori quando Semeria era latitante aveva contattato varie volte la madre e gli aveva detto: "Faccia consegnare suo figlio; non si preoccupi, non succederà niente, gli salviamo la pelle" eccetera. Ad un certo punto la madre aveva addirittura concordato un appuntamento con Giorgio per farlo arrestare. Giorgio aveva capito la cosa e non era andato ovviamente a questo tipo di appuntamento. Quando Giorgio viene poi arrestato, Atzori gli spara – dice che gli era scappato il colpo -, Atzori andò a casa della madre varie volte dicendogli piangendo: "Mi scusi, io non volevo, mi è scappato il colpo". Per quello Semeria sapeva il nome ed il cognome della persona che gli aveva sparato, perché questa persona era andata addirittura dalla madre a scusarsi, perché temeva la storia…

PRESIDENTE. Ma Semeria era stato catturato a seguito di un conflitto a fuoco?

FRANCESCHINI. No, fu un infiltrato a far catturare Semeria alla stazione di Milano.

PRESIDENTE. Facevo questa domanda perché la scena della Cagol è tutta diversa: i Carabinieri probabilmente sparano, nel frattempo c’era l’appuntato D’Alfonso che agonizzava per terra, che dopo due giorni morirà in carcere. Riconosco anch’io che probabilmente aveva già alzato le mani, però ciò avviene nella fase finale di uno scontro a fuoco dove l’autocontrollo è già caduto in tutti quelli che partecipano allo scontro a fuoco. Quindi può darsi pure che gli abbiano sparato nella fase finale in cui lui si era arreso.

ZANI. La cosa interessante non è questa. Il senso della mia domanda è un altro, cioè capire se si pensa o si è pensato descrivendo quell’episodio ad una connessione, ad una sorta di complicità tra gli uomini delle BR e gli apparati dello Stato. Anche perché, naturalmente, come sapete, noi abbiamo avuto sempre il sospetto che nessun sano di mente possa non aver pensato che la prigione di Moro si sapeva dov’era e non la si è voluta trovare e tante altre cose. Questo è il sospetto di tutti noi. Poi diamo un’interpretazione diversa, però di fatto…Un’ultima domanda. Nelle Brigate rosse avete discusso e ci sono state delle occasioni in cui si è parlato e ci si è fatti un’idea o anche solo si è semplicemente discusso dell’omicidio Calabresi?

FRANCESCHINI. Rispetto all’omicidio Calabresi io ricordo che quando questo avvenne noi eravamo in fuga per l’Italia perché venti giorni prima c’era stata la storia di Pisetta; cioè la Polizia aveva fatto un’operazione in cui aveva arrestato una ventina di compagni. Io mi ricordo ancora che ero a Pavia e avevo letto su "La Notte" alle due del pomeriggio la notizia che era stato ucciso Calabresi. Per cui restammo abbastanza meravigliati e ci chiedemmo chi fosse stato a fare una cosa del genere. La discussione che facevamo allora era questa. Noi sapevamo che, ad esempio, i GAP di Feltrinelli sapevano dove abitava Calabresi ed avevano preparato loro un’azione di questo tipo su Calabresi. Per cui la prima ipotesi che facemmo fu che forse qualcuno dei GAP, siccome siamo sempre in quell’epoca lì ed era morto Feltrinelli da pochissimo, come vendetta rispetto all’uccisione di Feltrinelli avevano fatto questa operazione. Poi quando entriamo in rapporto con questi capi loro lo esclusero. Loro dissero che c’era nei loro archivi però non avevano fatto nulla. Questo era il quadro della lettura che noi davamo in quel momento.

PRESIDENTE. E poi vi siete fatti un’idea ulteriore?

FRANCESCHINI. Io avevo delle ipotesi iniziali di questo tipo. La prima era legata a questa storia dei GAP, perché poi c’era tutta la vicenda di Quintamilla, una storia vecchissima questa dell’attentato che era stato fatto e portato anche a compimento per uccidere in Germania chi aveva ucciso Che Guevara e Feltrinelli in qualche modo era coinvolto nella storia per la pistola che era stata usata. Calabresi indagava su questo filone; questo era il rapporto. Noi allora pensavamo che rispetto al movimento nessuno era in grado di fare un’operazione militare di quel tipo. Cioè noi certamente non eravamo in grado di farlo; fino ad allora, nel ’72, non avevamo mai ammazzato nessuno, per cui rimanemmo assolutamente colpiti e stupiti. Io dopo anni ho scoperto che si era trattato di Lotta continua; anche quando dopo sentivo dire che era stata Lotta continua non ho mai creduto al fatto che questa potesse fare una cosa del genere. Però altre ipotesi io non ne ho mai… Cioè è un fatto anche quello assolutamente poco chiaro e di difficile lettura.

MANTICA. Vorrei ripartire da quest’ultimo episodio perché mi pare che Franceschini abbia ricostruito abbastanza bene una realtà milanese degli anni ‘69- ‘70-‘71 che, come il Presidente sa, conosco abbastanza; che Calabresi fosse un commissario molto impegnato nella lotta al partito armato, senza definire una struttura o l’altra, insieme al dottor Giovanni Allegra, che allora era il capo dell’ufficio politico, mi pare che sia evidente. Lei mi ha già risposto, ma certamente che il 2 maggio del 1972 salta Via Boiardo e 15 giorni dopo viene ucciso Calabresi, mi consenta, visto da questa parte può anche essere un collegamento. E’ la prima volta che salta un covo delle Brigate rosse, tra l’altro in Via Boiardo viene trovato anche un arsenale abbastanza importante di armi. Lei lo esclude, anzi ci dice che non eravate nemmeno in grado di fare una cosa del genere. Calabresi ed Allegra sono tra quelli che più indagano sulle attività del GAP di Feltrinelli, che, se ho capito bene dalla sua ricostruzione, forse perché, partiti prima, erano la struttura del partito armato forse più efficiente o più efficace presente sulla piazza di Milano. Lei sostanzialmente dice che poi avete sentito il GAP e questi lo hanno escluso, ma ne è convinto, cioè ha accertato questa tesi dell’esclusione da parte del GAP o le è rimasto un dubbio?. Perché che il GAP di Feltrinelli, con Calabresi… voglio dire ci leghiamo a Piazza Fontana, al vostro controinterrogatorio, all’ipotesi che potevano essere stati anche gli anarchici o Feltrinelli. Vi è in voi per esempio la convinzione che Pinelli si suicida, non sia ucciso da Calabresi, perché anarchico ingenuo, se vogliamo onesto; quando capisce che l’esplosivo che ha procurato è servito ad uccidere alcune persone ha una crisi evidentemente violenta. La mia domanda precisa è allora questa: ha avuto questa risposta, ne è convinto o ancora oggi le resta il dubbio che quella struttura in quel momento fosse in grado di uccidere Calabresi?

FRANCESCHINI. Per come ho conosciuto io i GAP milanesi (Saba, questo Gunter eccetera), sono convinto che non fossero in grado di fare un’operazione di quel tipo. Un’ipotesi a cui ho sempre pensato è che Feltrinelli comunque aveva rapporti internazionali di un certo tipo e indipendentemente dai quattro o cinque sulla piazza milanese c’era qualcuno ben più attrezzato che poteva fare un’operazione del genere. Questa è l’idea che avevo allora. Poi è saltata fuori la storia del pentito Marino, Lotta Continua, per cui non so più valutare gli elementi. Ancora adesso pensare che un episodio del genere possa nascere dall’ambito di Lotta Continua di allora mi stupisce; tutto è possibile, ma mi stupisce dal punto di vista psicologico: noi che, tutto sommato, eravamo quelli che stavano di più sul terreno della lotta armata, i primi morti li facciamo nel 1976 (tolta la parentesi dei due missini di Padova, che però è veramente un incidente). Infatti ci vuole anche un modo di porsi, una capacità psicologica. Noi non ce l’avevamo certamente.

PRESIDENTE. Ma Coco non è prima del 1976?

FRANCESCHINI. No, è del 5 giugno 1976. Fino ad allora noi praticamente non abbiamo ammazzato nessuno (tolto, ripeto, quell’incidente a Padova). Per me ancora è un episodio veramente non chiaro.

MANTICA. Restando all’epoca del 1969-1970, nel suo libro "Mara, Renato e io" riferisce di un certo Sergio, quarantenne, ex gappista, che la portò nel 1970 in una cascina deposito dove aveva nascosto i due fucili mitragliatori STEN e diversi caricatori e munizioni. Il deposito, secondo lei, era soltanto nella disponibilità di questa persona, cioè un fatto personale, o vi accedevano anche altri ex partigiani? E dopo questo episodio avete mai fatto ricorso a canali di questo genere per le vostre armi?

FRANCESCHINI. In genere, il rapporto con questi ex partigiani aveva le seguenti modalità. Di solito erano operai, come dicevamo noi "proletari", gente che era uscita dalla resistenza continuando a fare l’operaio, che non aveva ricevuto dalla resistenza privilegi di nessun tipo; gente che pensava che la resistenza in qualche modo fosse stata tradita, perché dalla lotta al nazifascismo bisognava sviluppare la lotta di classe, cioè contro i padroni eccetera. Quando ci fu il famoso disarmo delle brigate partigiane individualmente questi pensarono di nascondere le armi. Il rapporto quindi era sempre con degli individui, con soggetti che dicevano di avere armi in un certo posto e ce le davano perchè di noi avevano fiducia. Se poi questi soggetti fossero collegati a strutture o altro noi non lo sapevamo, questo era il modo in cui si presentavano: l’esperienza che ho io è di tre o quattro partigiani che dicevano che avevano delle armi e la mettevano sempre sul piano personale.

MANTICA. Vi sono alcuni documenti dei Servizi che indicano la Federazione giovanile comunista di Reggio, insieme ad altre sezioni locali dell’ANPI, come uno dei serbatoi più utilizzati dal Partito Comunista per la vigilanza rivoluzionaria o, come dice Seniga, per l’apparato di riserva del partito. Lei, frequentando allora la Federazione giovanile comunista, ha mai avuto la sensazione che vi fosse un apparato clandestino (qui lo chiamiamo "Gladio rossa"), un servizio di sicurezza del Partito Comunista, quindi una struttura parallela a quel partito?

FRANCESCHINI. Certamente vi era quella che era chiamata "la vigilanza", una struttura formata in genere da ex partigiani che aveva compiti difensivi. Allora c’erano sempre questi timori di colpi di Stato per cui si organizzava … In qualche modo si sapeva che c’era una struttura che garantiva un retroterra, una via di fuga nell’eventualità di un colpo di Stato, oppure la difesa dai fascisti. Tale struttura passava di certo attraverso l’ANPI e dall’altra parte si collegava ai giovani, alla FGCI, come sostanzialmente diceva lei. Ho avuto rapporti – e anche nel libro ne ho accennato – con partigiani anche di Reggio che ti davano le armi, ma era sempre nella chiave di un rapporto individuale. A me non si è mai presentato qualcuno a nome di una struttura.

PRESIDENTE. Senatore Mantica, questo fenomeno di molti partigiani che conservavano le armi ancora negli anni ’70 era diffuso un po’ in tutta Europa. Ricordo un episodio personale. Noi, nell’epoca dei Colonnelli, nella Grecia del 1974, andavamo a caccia nella zona di Igoumenitza; chi ci accompagnava era un geometra del Ministero dell’agricoltura, in borghese. Un giorno ci condusse a caccia nella zona del villaggio da cui proveniva e poi mangiammo a casa del padre, un contadino delle montagne greche. Quando alla fine del pranzo il tasso alcolico aveva raggiunto per tutti un grado elevato, scoprì un tappeto (era la zona orientale: si mangiava seduti – per me in maniera scomodissima – sui tappeti) e ne uscì una mitragliatrice in perfetto stato di funzionamento, oliata e tutto. Siccome il tasso alcolico era alto, lui era molto contento di dire che con quella mitragliatrice aveva sparato sull’esercito italiano durante la guerra. Penso che fosse diffuso in tutta Europa il fatto che molti dei partigiani non avevano lasciato le armi, soprattutto la gente di quella estrazione sociale. Questo era un contadino.

MANTICA. Può darsi pure che sia un fenomeno europeo ma …

FRANCESCHINI. E’ emerso anche che in un fienile vi era un carroarmato smontato: a Sant’Ilario di Nizza avrebbe dovuto essere!

MANTICA. C’è una cosa in questo suo libro che mi ha particolarmente colpito o sconvolto, se permette l’espressione. Ad un certo punto afferma: "Arrivai ad immaginare … Pecchioli seduto allo stesso tavolo del generale Dalla Chiesa, che ci invita a fornire i nomi dei compagni". Evidentemente lei non scrive questo nome a caso, Pecchioli per voi aveva una immagine di un certo tipo, perché altrimenti non l’avrebbe fatto sedere allo stesso tavolo di Dalla Chiesa. Che cos’era per voi Pecchioli?

FRANCESCHINI. Questa cosa in realtà si collega ad una informazione, una notizia che avevamo avuto nel 1973-1974 sempre dal canale israeliano. Diceva che si era svolta una riunione a Torino, ai primi del 1974, cui avevano partecipato Pecchioli, Pajetta, Dalla Chiesa e Reviglio della Veneria che era il procuratore generale, nella quale di fatto si era decisa la costruzione dei "nuclei speciali", che formalmente vennero realizzati alcuni mesi dopo, durante il sequestro Sossi. Noi trovammo conferma che l’operazione di Dalla Chiesa aveva l’appoggio del Partito Comunista da alcune cose che succedevano in quel periodo. Per esempio, a Reggio Emilia, quando noi uscimmo dalla FGCI, una parte dei compagni che erano d’accordo con le nostre posizioni sulla lotta armata rimasero (nella FGCI o nel partito). Alcuni di essi, nel 1972 fecero alcune rapine con compagni nostri di quella zona. Erano ancora iscritti alle sezioni, al partito. Fino al 1974 nessuno disse loro niente; poi, all’inizio del 1974 vennero chiamati dal segretario della sezione: "Guarda, noi sappiamo che hai fatto questa rapina, questo e quest’altro: non ti denunciamo alla Polizia, però ridacci la tessera e per il resto sono affari tuoi". Pertanto era chiaro che anche da questo punto di vista c’era una svolta che passava dal vertice probabilmente e arrivava fino alla base del partito, cioè se fino a quel momento vi era stata dal punto di vista della struttura del partito comunista una non belligeranza nei nostri confronti, da un certo momento in poi vi è un rapporto organico – questa è un’ipotesi, neanche peregrina, mi sembra – con Dalla Chiesa e certe strutture dello Stato. Quindi il partito comunista utilizza la sua struttura radicata nel territorio proprio come struttura informativa nelle fabbriche, eccetera, a supporto chiaramente dell’azione repressiva dello Stato.

MANTICA. Seguendo questa logica, anche tenendo conto dell’audizione dell’onorevole Barca, mi viene da porle una domanda, anche perché l’onorevole Barca stesso si stupì per un certo verso che l’apparato del partito comunista in certe situazioni fosse insensibile, cioè non cogliesse questo rapporto con le Brigate rosse. Lei fa un’ipotesi; non succede che il partito comunista denunci i suoi associati o quanto meno che spinga i suoi iscritti ad indicare non chi sono gli esponenti delle Brigate rosse, forse difficili, ma ad esempio i collettivi di fabbrica che sono il mare, per così dire, in cui nuotate perché fino a questo punto il partito comunista non arriva. Dice lei: si chiama la persona e le si dice restituisci la tessera, sparisci, non devi più avere rapporti con noi. Quindi, la sua tesi cozza con questo tipo di realtà. Noi non conosciamo gli episodi in cui il partito comunista abbia fatto – per così dire - da delatore nei confronti dei compagni che sbagliavano sempre per usare un’espressione di allora.

ZANI. Guido Rossa è morto per questo, faccio per dire.

FRANCESCHINI. E’ del 1979.

MANTICA. Ha perfettamente ragione ma, se mi lasciava arrivare, lo avrei ricordato. Ma ora stiamo parlando del 1973. Franceschini fa riferimento ad un episodio del 1974 anche perché io sono interessato a sapere ciò che Franceschini ha visto da fuori, non le riflessioni che ha fatto da dentro. Quindi, siamo nel 1974: già in quel periodo il partito comunista si accorge a Reggio Emilia che la separazione fra chi ha compiuto la scelta istituzionale e chi ha compiuto la scelta della lotta armata in molti casi è confusa. Lo dico a Zani perché avendo vissuto dall’altra parte esperienze del genere posso dire che certamente non sono situazioni che si risolvono in due minuti. Lui fa un’ipotesi. Dice: credo che il partito comunista abbia fatto una scelta istituzionale; ho dei riscontri. Io però rispondo: è una scelta che non va fino in fondo. Comunque è una domanda quella che sto facendo. Siccome a lui non risulta che vi siano elenchi che il partito comunista fornisce ai servizi segreti o all’apparato di repressione di Dalla Chiesa, resta comunque questo. Poi vi è il 1979 – ci arrivavo – come dice anche Barca. Lui afferma di restare stupito del fatto che durante il rapimento Moro questa struttura sensibile del partito comunista non fosse - è un suo parere – attivata. Forse, dice Barca, avremmo potuto scoprire di più poi però, dopo il sequestro, e questa non è una mia opinione ma risulta agli atti della Commissione …

PRESIDENTE. E’ vero: Barca ha fatto questa critica.

MANTICA. Dopo il rapimento Moro vi è il caso Rossa. Quindi vuol dire che si verifica un cambiamento ad un certo punto. Però nell’arco temporale 1974-1979 il confine resta grigio. Questa era la domanda, siccome Franceschini mi ha già risposto dicendo che venivano solo invitati a lasciare la sezione, ne prendo atto.

ZANI. Franceschini ha risposto su un episodio specifico.

FRANCESCHINI. Credo che in quegli anni il rapporto del partito comunista con questi settori dello Stato fosse molto stretto ed organico. Ovviamente non poteva prendere una posizione pubblica su questo altrimenti non avrebbe potuto fare le operazioni che ha fatto. Il problema era che per raccogliere certe informazioni tu dovevi essere contiguo, affidabile, cioè, nella cultura di quegli anni, basta pensare a certe fabbriche , a certi luoghi, eccetera. Nel libro riporto l’esempio di un compagno, Angelo Basone, che era un operaio della Fiat, delle presse, iscritto al partito; era un nostro compagno che poi è finito in carcere e ha scontato 10 anni di galera. Allora c’era anche Giuliano Ferrara, il ciccione, che era responsabile del lavoro operaio in FIAT del partito comunista a Torino, che io conoscevo anche dall’epoca della FGCI. Giuliano spesso mi vedeva in certe trattorie insieme ad Angelo e Renato. Mi conosceva di sicuro, però Giuliano allora non diceva niente; riferiva forse, a chi di dovere. Tant’è che quando Angelo Basone fu proposto da alcuni operai come segretario della sezione interna delle presse per il PCI, ovviamente Giuliano si oppose e aveva i suoi motivi per farlo. Però è chiaro che restava tutto all’interno, perché Angelo Basone era un compagno stimatissimo nelle lotte del sindacato…

ZANI. Un conto è un sospetto, un conto è avere le prove. Non si può denunciare uno solo perché si ritiene che sia estremista, come si pensava all’epoca!

PRESIDENTE. Mi sembra che Franceschini stia dicendo che probabilmente le denunce sono state pure fatte, ma non sono state pubblicizzate.

FRANCESCHINI. Sì, signor Presidente erano fatte ma non erano state pubblicizzate. Tant’è che nel 1976 quando iniziò il nostro processo, il partito comunista a Torino (e in particolare Giuliano fu l’artefice di questo) raccolse cento o duecento mila firme per fare condannare noi brigatisti del nucleo storico. Quindi cominciarono a prendere un a posizione pubblica contro di noi. Credo che vi sia una fase complessa, però certamente il rapporto tra partito comunista o certe strutture e fasi di quest’ultimo e carabinieri (Dalla Chiesa in particolare) o comunque certi apparati dello Stato era un rapporto organico preciso, strutturato in un certo modo, che poi ha anche delle manifestazioni pubbliche politiche. Però certamente è un rapporto sotterraneo molto articolato, molto preciso, molto utile per gli apparati repressivi.

PRESIDENTE. Così veniva percepito da quel movimento che scriveva – visto che lo abbiamo nominato – Pecchioli con due "k".

MANTICA. Questo è un vizio della sinistra e della destra.

PRESIDENTE. Infatti, è molto vero quello che lei ha detto circa il difficile rapporto spesso non chiaro con alcune frange.

MANTICA. E’ certo un rapporto complesso e non facile da risolvere.

PRESIDENTE. Un’ultima domanda: spesso può essere che la struttura del partito assuma certi comportamenti e poi nella base, fra gli iscritti il rapporto è diverso?.

MANTICA. Vorrei fare solo una domanda: i rapporti tra la Raf e le Brigate rosse cessarono nel 1972 o continuarono anche dopo in forme più o meno dirette? Quanto è servito loro questo rapporto con la Raf?

FRANCESCHINI. Per la mia esperienza cessarono nel 1972, perché furono arrestati. Erano Baader Meinhof, e via dicendo; furono arrestati nel maggio 1972. Noi poi stabilimmo rapporti con un altro gruppo armato di Berlino, che mi sembra si chiamasse "2 giugno"; avevano loro il borgomastro di Berlino. Da quello che so io, che mi avevano raccontato, loro poi hanno avuto nuovamente rapporti con la Raf e certamente durante il sequestro Moro si sono incontrati varie volte con esponenti della Raf a Milano.

PRESIDENTE. Il luogo di residenza dell’onorevole Fragalà mi ha ricordato di fare una domanda che volevo porre ma non lo avevo mai fatto. In realtà ieri Guiso ci ha detto che voi siete stati essenzialmente un movimento metropolitano; al di fuori delle grandi città vi muovevate male, eravate pesci fuor d’acqua, però tutto sommato l’insieme del movimento e non solo delle brigate rosse è andato dalla Calabria alle Alpi. Perché la Sicilia ne è rimasta sempre immune? Che ruolo ha avuto la mafia in questa sostanziale immunità dal terrorismo della Sicilia? Lei su questo può dirci nulla?

FRANCESCHINI. Una chiave di lettura potrebbe essere un episodio accaduto nel carcere di Palmi, non so datarlo esattamente, credo che fosse il 1982. Venne Liggio, perché credo che era processato a Reggio Calabria o Catanzaro, credo Reggio Calabria, per l’omicidio credo del giudice Scaglione.

FRAGALA’. Terranova.

FRANCESCHINI. Terranova, esatto. Credo che era sotto Natale, perché mi ricordo la storia dei pranzi di Natale. Liggio fu messo al piano di sotto, noi eravamo al piano di sopra. Ad un certo punto – questo lo so perché poi questo me lo raccontò Renato – Liggio invitò a pranzo Renato – perché in questo carcere c’era un certo movimento, c’era socialità – e Renato mi riferì che rimase un po’ scombussolato dalle cose che diceva Liggio, anche per il parlare che aveva Liggio per aforismi…

FRAGALA’. Ammiccamenti, parabole…

PRESIDENTE. Molto siciliano.

FRANCESCHINI. Gli faceva ammiccamenti perché probabilmente Liggio sapeva molto di più di quello che sapeva Renato e probabilmente era convinto che Renato capisse, ma non capiva. Liggio gli disse praticamente che lui parlava a nome di qualcuno, non è che diceva che era la mafia, diceva: "gli amici miei, che voi sapete chi sono, dicono che se le Brigate rosse vogliono venire in Sicilia possono venirci, ci mettiamo d’accordo, però una cosa doveva essere molto chiara, che se andavano in Sicilia dovevano uccidere gli uomini del PCI e non della Democrazia Cristiana". Cioè, siccome allora c’era tutta la campagna contro la DC, in Sicilia il nemico era il PCI.

STANISCIA. Anche fuori dalla Sicilia il PCI era il nemico.

FRANCESCHINI. No, ma lì era riferito…

FRAGALA’. Perché la Democrazia Cristiana in Sicilia era il PCI, questo era il problema.

FRANCESCHINI. Comunque, l’interpretazione del fatto era che in Sicilia ci andavi solo se loro ti permettevano di andarci e ci andavi solo a fare delle cose su cui la mafia o comunque gli amici di Liggio erano d’accordo.

PRESIDENTE. A me interessava questo aspetto. Quindi praticamente è Cosa Nostra che finisce per operare come una struttura che non consente la penetrazione del terrorismo nella Sicilia. Mi sta dicendo che è un’ipotesi credibile?

FRANCESCHINI. E’ credibile perché aveva una struttura certamente di controllo totale del territorio.

FRAGALA’. Però voi, come Brigate rosse, non avete mai tentato di andare in Sicilia a organizzare dei nuclei.

FRANCESCHINI. No, e anche quella volta lì, più che una richiesta nostra era Liggio – da quello che mi ricordo io – che in qualche modo ci invitava ad andarci.

PRESIDENTE. Onorevole Fragalà, la domanda però a cui noi dovremmo cercare di dare risposta è perché nessun movimento terroristico penetra in Sicilia. Non Prima Linea, non i Fuochi di Barbagia, non i primi Fuochi di Guerriglia; sto parlando della Sardegna, della Calabria, lì si insediano. Invece mi ha sempre colpito il fatto che in Sicilia non succede mai niente, non c’è un solo fatto di terrorismo politico negli anni del terrorismo politico. Evidentemente c’era una struttura che controllava il territorio.

FRAGALA’. No, avevano inventato l’omicidio di Mattarella come atto di terrorismo politico!

PRESIDENTE. Questo succede molto dopo.

FRAGALA’. Nel 1980, non molto dopo; due anni dopo il 1978. Detto questo, se ho la parola, intanto la ringrazio, Franceschini, per la disponibilità e per le articolate riflessioni che ha fatto un po’ a tutto campo. Su Piazza Fontana, vorrei che lei illustrasse alla Commissione come aveste l’idea di fare la famosa controinchiesta sulla strage di Piazza Fontana, su Segrate, sulla morte di Feltrinelli e sull’omicidio Calabresi; chi la fece, se la fece Controinformazione e se è vero che questa controinchiesta fu fatta addirittura interrogando i testimoni attraverso un registratore, cioè attraverso delle cassette registrate che dovrebbero essere depositate in qualche fascicolo giudiziario e che ancora la Commissione non riesce a trovare.

FRANCESCHINI. Quello cui lei accenna è il famoso archivio di Robbiano di Mediglia…

PRESIDENTE. Ma allora lo abbiamo trovato, perché sono i documenti che ci ha portato l'avvocato Guiso.

FRAGALA’. No, non abbiamo trovato le cassette registrate.

FRANCESCHINI. Lì c’era una valigia o due valigie, non so perché io ero già stato arrestato. La dinamica è questa: io e Curcio siamo arrestati nel settembre, lì cominciano una serie di azioni repressive e a quel punto – questo mi viene riferito da Roberto Ognibene, che è uno di quelli arrestati a Robbiano di Mediglia – Bellavita, che era il direttore di Controinformazione, dice a Roberto: "noi abbiamo un archivio con delle inchieste importanti che stiamo facendo e vogliamo metterlo in un posto sicuro; siccome temiamo che i carabinieri vengano a perquisire la sede, eccetera, lo diamo a voi, mettetelo in un posto sicuro"; per cui Roberto prende questa o queste valigie e le porta a Robbiano di Mediglia, che era casa sua. Nessuno dei compagni sapeva cosa c’era dentro queste valigie ed era sostanzialmente l’archivio di Controinformazione, fatto da Bellavita, da Franco Tommei che adesso è morto, compagni che erano della redazione di Controinformazione. Poi viene scoperta la base di Robbiano di Mediglia e ovviamente Bellavita fugge proprio perché pensava che queste valigie potessero in qualche modo essere… Da quello che mi è stato riferito ci dovevano essere questa inchiesta su Piazza Fontana, fatta da questi compagni di Controinformazione, e doveva esserci soprattutto l’inchiesta sulla morte di Feltrinelli, di cui ero a conoscenza perché questa inchiesta l’avevano fatta anche discutendone con noi, per questo lo so. Credo fosse direttamente Bellavita che aveva scoperto – forse glielo aveva detto Gunter, non lo so bene – chi erano le tre persone, le due o tre persone che stavano con Feltrinelli sotto il traliccio; lui era andato a interrogare queste persone e aveva registrato o almeno per una di queste ci aveva detto che c’era una bobina dove questo ricostruiva tutto l’episodio di come era saltato in aria Feltrinelli. Questo è quello che io so.

FRAGALA’. Sulla strage di Piazza Fontana la controinchiesta delle Brigate rosse arrivò a stabilire la responsabilità o degli anarchici o di quelli di Ordine Nuovo…

FRANCESCHINI. Ma la controinchiesta non è delle Brigate rosse…

FRAGALA’. No, è di Controinformazione, che era però il vostro organo di stampa.

FRANCESCHINI. Sì, però non per questo…

FRAGALA’. Era il livello legale delle Brigate rosse.

FRANCESCHINI. Il problema è che non è detto che noi conoscevamo esattamente tutto ciò che questi facevano, per quello ho fatto questa precisazione. C’era un’autonomia di fatto, anche perché doveva esserci altrimenti questi sarebbero andati a finire in galera subito.

FRAGALA’. Lei è a conoscenza dei risultati della controinchiesta per quanto riguarda Piazza Fontana?

FRANCESCHINI. Quello che so, che mi veniva appunto riferito poi da Bellavita, che ogni tanto incontravo e mi riferiva di come si sviluppano le inchieste, si tratta della storia di Pinelli. A quanto risultava loro, sembra che Pinelli si fosse suicidato per il fatto che si era reso conto… cioè c’era un rapporto stretto tra Pinelli e Calabresi, si scambiavano libri…

MANTICA. Era l’informatore di Calabresi.

PRESIDENTE. Sì, c’era il romanzo di Castellaneta: "La paloma".

FRANCESCHINI. Lui si era reso conto che era stato messo in mezzo, cioè che era stato coinvolto in una vicenda allucinante, di cui non aveva la più pallida idea, e di fronte a questo fatto probabilmente lui si era…

PRESIDENTE. Dai documenti che ci ha dato ieri Guiso - resti pure per il verbale - il risultato dell’inchiesta sono venti righe e - cito a memoria - dicono: " c’entra Freda, però sono implicati anche gli anarchici. In particolare Pinelli si suicida perché aveva fornito materiale convinto che doveva essere utilizzato per degli attentati a monumenti della Resistenza" - e c’è un punto interrogativo - "e quando invece capisce che quell’esplosivo è stato utilizzato per Piazza Fontana si suicida".

FRANCESCHINI. Sostanzialmente questo è ciò che sapevo anch’io, ma io non ho mai visto questi documenti.

PRESIDENTE. Ce li abbiamo da ieri.

FRAGALA’. Il problema è quello delle bobine che non riusciamo a trovare. Lei sa se queste bobine sono depositate in un fascicolo processuale?

FRANCESCHINI. Le bobine sono quelle riferite alla storia di Feltrinelli?

FRAGALA’. Sì.

FRANCESCHINI. Allora, certamente, all’epoca, negli anni ’70, dovrebbe essere stata svolta un’inchiesta su Feltrinelli da parte di Di Vincenzo.

PRESIDENTE. Nel documento a nostra disposizione si fa riferimento al medico che li ha curati ma non si fanno i nomi delle due persone che erano con Feltrinelli.

FRAGALA’. Lei ha saputo che le BR avrebbero avuto informazioni direttamente dall’interno dell’ufficio politico della questura di Milano e, in particolare, da uno dei più stretti collaboratori del commissario Calabresi? Nell’audizione di ieri il dottor Guiso ha praticamente affermato che il sistema di questa controinchiesta era simile a quello delle veline dei servizi segreti. A quanto sembra, le Brigate rosse, attraverso Controinformazione avrebbero ottenuto queste veline, queste informazioni, direttamente da uno stretto collaboratore del commissario Calabresi che faceva parte dell’ufficio politico della questura di Milano. Lei ha mai saputo di questo particolare?

FRANCESCHINI. Probabilmente, su questo aspetto l’avvocato Guiso conosce più cose di me. Infatti, lui faceva parte della Controinformazione ed era molto amico di Bellavita, di Tommei che frequentava molto più di noi perché noi li incontravamo qualche volta per svolgere discussioni di tipo politico.Sono portato a interpretare come vere le affermazioni del dottor Guiso, anche perché lui non avrebbe motivo di sostenere il falso e sicuramente conosce più cose di me sull’argomento.

FRAGALA’. Vorrei chiedere ancora precisazioni sulla strage di piazza Fontana, sul caso Calabresi e sulla nascita delle Brigate rosse clandestine. Il 2 maggio 1972, quindici giorni prima dell’omicidio Calabresi, l’ufficio politico arrivò alla scoperta dei primi covi delle BR a Milano, in particolare di quello di via Boiardo in cui era custodito un arsenale. Da dove provenivano le armi di quell’arsenale?

FRANCESCHINI. Non ricordo tutti i dettagli, ma credo che in parte le armi provenissero da un furto in un’armeria, ricordo che c’erano anche fucili da caccia cui erano state segate le canne; in parte si trattava di armi di partigiani, vecchie armi della Resistenza ancora efficienti; in parte erano armi da noi acquistate sul mercato della malavita, pistole Beretta, forse il modello 50, un modello nuovo successivo al 34.

FRAGALA’. In quella occasione, come riusciste, lei, Curcio, Moretti, Mara Cagol, ad evitare l’arresto?

FRANCESCHINI. Quel giorno, intorno all’una, io dovevo recarmi nella prigione, dove doveva essere tenuto Massimo De Carolis e dove ci saremmo dovuti incontrare io, Moretti e Pisetta, il quale era già lì dalla mattina perché faceva il falegname e preparava la prigione del popolo. Via Matteo Boiardo è vicino a corso Buenos Aires e uscendo dalla metropolitana mi sono avvicinato cautamente al luogo dell’incontro ed ho visto molta gente che parlava nei pressi della saracinesca; pertanto, ho compiuto un giro da lontano e sono arrivato ad un bar poco distante da via Matteo Boiardo dove ho sentito persone che riferivano di un posto in cui erano state trovate delle armi; avvicinandomi al nascondiglio mi sono accorto che c’erano persone in tuta con dei borsoni. C’era molta confusione e quindi mi sono allontanato. Lo stesso accade a Moretti che probabilmente arriva lì dopo di me, e vede Tortora, allora giornalista, che stava facendo delle riprese e quindi si insospettisce. Moretti era ancora legale, non era clandestino ed arriva al luogo dell’incontro con la 500 della moglie, che lascia parcheggiata; vedendo Tortora e tutta quella gente capisce immediatamente la situazione e fugge lasciando la macchina, che poi è stata ritrovata. Da quel momento Moretti diventa clandestino.

FRAGALA’. Allora perché lei ha dichiarato in più occasioni: "Se avessero voluto, quel 2 maggio ci avrebbero arrestati tutti, Curcio, Mara Cagol, Mario Moretti"?

FRANCESCHINI. C’è la figura di Pisetta. Se Pisetta era un infiltrato – cosa ormai assodata - …

PRESIDENTE. Direi certa, lo ha confermato anche il generale Bozzo.

FRANCESCHINI. Pisetta conosceva la casa dove abitavo io e quella dove abitava Renato; aveva a disposizione una serie di informazioni ed è impossibile che non le abbia fornite. Questa è la chiave del ragionamento.

PRESIDENTE. Quindi lei sostiene che con una operazione a rete, non concentrata sul covo, vi avrebbero catturati tutti quanti?

FRANCESCHINI. Se Pisetta era un infiltrato, certamente disponevano di informazioni su di noi molto ampie. Moretti era ancora legale, tant’è vero che lascia la macchina nei dintorni.

PRESIDENTE. Chiariamo che lei utilizza l’espressione legale per definire Moretti "non clandestino".

FRANCESCHINI. Sì, certo. Se Pisetta era un infiltrato – dato che sembra ormai acquisito – le informazioni in suo possesso erano superiori.

FRAGALA’. Però non vi arrestano e lei si meraviglia continuamente di questo. Non ha trovato una spiegazione?

FRANCESCHINI. L’ho già detto. Certamente c’era un interesse politico affinché sia a Sinistra che a Destra si svolgesse una dinamica di tipo più o meno armato, in modo tale che il centro dello schieramento politico, che in quel caso era la Democrazia Cristiana, potesse ogni volta riequilibrare al centro la situazione. E’ la famosa strategia degli opposti estremismi.

STANISCIA. E voi non vi rendevate conto di questo?

FRANCESCHINI. Relativamente no. Allora era comunque in piedi un discorso rivoluzionario. Non era un’invenzione; gli opposti estremismi esistevano davvero.

MANTICA. Erano due fiumi.

FRANCESCHINI. E chi era di Destra lo sa meglio di me. A Destra non c’erano agenti dei servizi ma un mare di giovani che pensavano in un certo modo e dentro questo fiume di giovani c’erano anche agenti del SID, o di altri organismi. Alcuni di questi giovani erano più o meno consapevoli dei rapporti con i servizi, altri no.

MANTICA. Quelli più rivoluzionari.

FRAGALA’. Altri credevano di utilizzare i servizi.

FRANCESCHINI. Probabilmente lo stesso avveniva a Sinistra.C’erano davvero dei movimenti rivoluzionari allora.

FRAGALA’. Quindi lei spiega l’allentamento della morsa delle forze dell’ordine sulle BR, dal 1972 al 1974, in questa chiave di lettura?

FRANCESCHINI. Il senatore Staniscia si meraviglia della nostra ingenuità, ma se voi esaminate gli atti ufficiali dei magistrati, della ex Commissione Moro, tutto viene spiegato con l’inefficienza dei Servizi o degli apparati di sicurezza. Pertanto, anche noi ipotizzavamo una probabile inefficienza della polizia; si parlava comunemente della inefficienza delle forze dell’ordine e questa convinzione si è mantenuta fino a poco tempo fa. C’è ancora chi sviluppa la tesi che allora le forze repressive erano inefficienti; probabilmente erano molto più efficienti di quanto noi pensassimo. Probabilmente, esisteva una strategia complessiva unitaria ben più consapevole ed articolata di quanto allora non potessimo immaginare.

PRESIDENTE. Forse la verità era nel mezzo: c’era inefficienza, sciatteria e un coefficiente di inefficienza voluta.

FRAGALA’. Riguardo al sequestro Sossi, lei ha detto che Moretti e Marra erano tra i falchi favorevoli all’uccisione del giudice e che questa azione rappresentò l’anteprima del sequestro Moro. Come riuscì ad evitare che venisse ucciso?

FRANCESCHINI. Fu sostanzialmente un fatto mio e degli altri due compagni: ci pesava tantissimo ucciderlo. Allora non lo avrei mai confessato, perché l’avrei buttata in politica, ma era difficile uccidere una persona con cui avevamo convissuto per un mese. Non sono nemmeno convinto che chi aveva in mano Moro gli abbia sparato: può essere stato soltanto qualcuno che non sapeva nemmeno chi era.

PRESIDENTE. Questo è un argomento molto interessante. E’ una domanda a cui l’avvocato Guiso non ha risposto. Questa è un’ipotesi che ha fatto Craxi, cioè che quello che ha ucciso Moro sia stato un gruppo che si è aggiunto a quello che lo teneva prigioniero. Quindi lei ritiene che le confessioni fatte da Maccari e Moretti non sono veritiere?

FRANCESCHINI. Secondo me c’è qualcosa di vero e molto di non vero.

FRAGALA’. C’è il problema del mancino, di cui parleremo.

FRANCESCHINI. Nessuno di noi tre che tenevamo prigioniero Sossi se la sentiva di arrivare alla sua soppressione.

PRESIDENTE. Invece, nella versione ufficiale sulla morte di Moro, solo a Gallinari alla fine cedono i nervi e non se la sente di farlo.

FRANCESCHINI. Conoscendo le nostre dinamiche è matematicamente impossibile arrivare a questo, a meno che uno non sia il diavolo in persona. E’ umanamente impossibile costruire una estraneazione di questo tipo.

PRESIDENTE. A meno che non lo si odii come un nemico di classe.

FRANCESCHINI. Se stai con lui per un mese, è una persona, non è più un nemico di classe. Ne ho parlato con Bonisoli e con vari altri compagni che hanno ucciso persone per strada, i cosiddetti nemici di classe: loro mi dicevano che non guardavano mai in faccia le loro vittime. Era fondamentale perché altrimenti rischiavano di non farcela a sparargli. Come si può sparare ad una persona con cui vivi per un mese?

FRAGALA’. Come riuscì ad evitare che venisse eseguita la sentenza di morte?

FRANCESCHINI. Pensavamo di essere soltanto noi tre a conoscenza del luogo dove era la prigione e decidemmo, contro il parere dell’esecutivo, che avremmo preso noi la decisione. Non eravamo d’accordo ad ucciderlo e quindi lo liberammo senza che nessuno lo sapesse. Accelerammo al massimo il processo. Leggendo il documento di Maletti e Miceli si capisce che loro sapevano dove eravamo. Anche l’operazione del giudice Coco di bloccare la liberazione di quelli della "22 Ottobre" serviva a prendere tempo per decidere l’operazione contro di noi. La nostra fortuna fu di anticiparli: non si aspettavano che nel giro di 24 ore noi lo liberassimo. Probabilmente, in base alle informazioni che avevano dall’interno dell’organizzazione, pensavano che comunque dovevamo aspettare ancora un po’ di tempo. Poi fummo accusati di aver fatto un "colpo di Stato" all’interno dell’organizzazione. Ma si trattò di un vero e proprio colpo di mano, perché avevamo la sensazione di essere controllati, di essere stati individuati e non ce la sentivamo più di tenerlo prigioniero.

FRAGALA’. Allora è vero quel che diceva Curcio all’avvocato Guiso, che una cosa è che la sentenza di morte fosse stata pronunciata, un’altra cosa che essa fosse eseguita?

FRANCESCHINI. Anche noi avevamo pronunciato una sentenza di morte, ma non l’abbiamo mai eseguita.

FRAGALA’. E’ vero che nella primavera del 1972 lei e Curcio aveste una serie di incontri con Giorgio Pietrostefani, allora responsabile del servizio d’ordine di Lotta continua, per stabilire le strategie del partito armato?

FRANCESCHINI. Forse fu nel 1971. Io e Renato ci incontrammo con Pietrostefani, che era responsabile di Lotta continua a Milano, in particolare sulla Pirelli. Avevamo già compiuto le azioni contro i capi della Pirelli, bruciando delle macchine o dei camion: per questo dicevo che era prima del 1972. Siccome gli operai di Lotta continua della fabbrica erano d’accordo con questo tipo di azioni, ci chiese un incontro per discuterne. Tanto tutti sapevano che eravamo noi a fare queste cose.

FRAGALA’. Lei ha sostenuto che il suo arresto assieme a Curcio nel settembre del 1974 fu ritardato di una settimana dal generale Dalla Chiesa per evitare che venisse catturato anche Moretti. Perché?

FRANCESCHINI. Fu ritardato di alcuni mesi. Questo è un altro di quegli episodi strani di cui non ho mai trovato la spiegazione. Gli incontri con Frate Mitra furono tre, in mesi successivi. A tutti e tre andò Renato: al primo assieme ad Attilio Casaletti, che è un pentito; al secondo assieme a Moretti; al terzo ci vado anch’io, che pure non ci dovevo essere. Dalla Chiesa, nelle deposizioni che ha rilasciato di fronte alla Commissione Moro, ha dichiarato espressamente che fece fotografare tutti e tre gli incontri: lo dichiarò a proposito del doppio arresto di Peci. Quando fui arrestato, il giudice Caselli nel corso dell’interrogatorio mi fece vedere una cinquantina di fotografie in bianco e nero, mescolate tra loro, sugli incontri con Frate Mitra. Mi chiedeva: "Lei conosce questa persona?" Erano le foto con Casaletti, quelle del primo incontro. Io rispondevo di no. Poi mi fece vedere le foto in cui c’ero io e una foto in cui c’è Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e io risposi di no. Lui si mise a ridere e mi disse: "Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l’operazione è stata fatta quando c’era lei e non quando c’era quella persona". Ho scritto questo episodio nel libro "Mara, Renato ed io". Ho saputo dal giornalista Piergiorgio Buffa, coautore del libro, che ad un certo punto fu chiamato da Caselli, incavolato nero, che gli disse: "Franceschini ti ha preso per il culo: non è mai successa quella storia". Ma io lo ricordavo benissimo e allora ho chiesto a Piergiorgio che lavorava all’Espresso di mandare qualcuno a Torino a vedere negli archivi delle foto. Ha trovato tutte le foto degli incontri, tranne quelle nelle quali c’era Moretti. Dalla Chiesa però sostiene di aver fotografato tutti gli incontri e tutti gli interlocutori.

FRAGALA’. Quindi le ha fatte sparire Caselli?

FRANCESCHINI. Qualcuno lo ha fatto. Moretti non è imputato in alcun processo fino al sequestro Moro. Nel processo ai capi storici delle Br non è imputato, nonostante gli episodi del 1972, quando lascia la macchina della moglie.

DE LUCA Athos. E’ una spia?

FRANCESCHINI. Non lo so. Ha delle imputazioni dal processo Moro in poi, fino ad allora per la giustizia è uno sconosciuto.

FRAGALA’. Nel 1971-1972 Moretti per un periodo si allontanò dal gruppo di Curcio e aderì al "Superclan". Le risulta che in quel periodo fosse in contatto anche con Feltrinelli?

FRANCESCHINI. La data non è precisamente quella.

FRAGALA'. Dal 1971 al 1972.

FRANCESCHINI. Era il 1970. Dal 1970 al 1971 egli sosteneva di essere stato in contatto con gruppi di cileni, di sudamericani, insieme ai quali aveva condotto delle azioni di esproprio. Poi egli ritorna in contatto con noi intorno alla metà del 1971. Già prima stava nel CPM (collettivo politico metropolitano); ne esce - probabilmente, ho sempre pensato, d'accordo con Corrado Simioni, perché militarmente era uno degli uomini di fiducia di quest'ultimo -, sparisce per un anno e, quando noi esistiamo come BR già da un anno, ricompare dicendo di voler entrare nelle BR. Questo accade fra aprile e maggio del 1971.

FRAGALA'. Dopo la scoperta di via Boiardo, del covo-arsenale, il pentito Marco Pisetta indicò un giovane sindacalista della CGIL aderente alla sinistra extraparlamentare come un irregolare dell'organizzazione e come il basista di una delle prime rapine messe a segno dalle BR nel dicembre del 1971 al supermercato Coin di corso Vercelli, dove Sangermano lavorava, e che si trova a pochi metri dall'abitazione del commissario Calabresi. A distanza di anni, il giovane è stato assolto da questa accusa, tuttavia su di lui gravavano forti indizi che fosse anche il basista dell'omicidio Calabresi, rimasto tuttora sconosciuto e senza che quegli iniziali sospetti siano mai stati approfonditi in sede giudiziaria. Lei, Franceschini, ha mai conosciuto Luigi Sangermano - questo è il nome del giovane - sa dirci che ruolo aveva effettivamente nelle Brigate rosse e se proveniva dai GAP di Feltrinelli?

FRANCESCHINI. Per me questa persona si chiamava Giuseppe. Proveniva da un giro che era comunque vicino ai GAP di Feltrinelli in quegli anni (1971-1972). E' stato abbastanza marginale a noi, però l'episodio del Coin è vero. Sì, confermo, però non sapevo che si chiamasse Sangermano.

FRAGALA'. Quindi ebbe effettivamente un ruolo nelle BR?

FRANCESCHINI. Non un grande ruolo, ma solo un ruolo di brigata di quartiere, perché era di un quartiere vicino a Lorenteggio, e veniva dal giro dei GAP, anzi dalla brigata Canossi (precisamente si chiamava così).

FRAGALA'. Secondo lei, chi era l'editore Gian Giacomo Feltrinelli e quali erano i suoi rapporti con il Partito comunista italiano e con il Partito socialista italiano?

FRANCESCHINI. Bella domanda! Forse ho già risposto. Certamente egli era in rapporto con Secchia, con una parte del PCI. Chi era, bisognerebbe capirlo bene. Quello che so, in base a ciò che mi diceva lui negli incontri che avevamo, è che era una persona di fiducia dei cubani. Non so che rapporti avesse con i paesi dell'Est. Questo, infatti, era uno dei punti di contrasto con lui. Quando si riferiva ai paesi dell'Est, li definiva "campo socialista", mentre noi li definivamo socialimperialisti, usando la terminologia cinese. Quindi, in quanto "campo socialista", era un alleato della rivoluzione in Europa. Questo era uno dei punti di contraddizione. Egli vedeva in quello che chiamava "campo socialista", che andava dai paesi dell'Est, dalla Russia fino a Cuba, un alleato. Nell'ambito di un'impostazione di questo tipo, ovviamente, è possibile tutta una serie di rapporti, che però non sono in grado di documentare. La mia è solo una deduzione politica.

FRAGALA'. Dopo la morte dell'editore "guerrigliero", le Brigate rosse ereditarono la struttura dei GAP e si videro spianare la strada per l'egemonia nel nascente partito armato. Secondo lei, è stata in qualche modo agevolata la supremazia brigatista?

FRANCESCHINI. Non lo so se in quegli anni è stata agevolata. Di fatto poi, attraverso un meccanismo complesso di cui credo che i mass media non siano non responsabili, è stato costruito un meccanismo anche nell'immaginario collettivo, come quello che dicevo all'inizio, in cui le Brigate rosse sono diventate l'organizzazione per eccellenza sul terreno della lotta armata, con una dimensione chiara dal punto di vista politico, cioè marxiste-leniniste, comuniste e così via.

FRAGALA'. Desidero che lei ripeta alla Commissione quanto ha già dichiarato nel processo Andreotti, nel quale è stato sentito come testimone, cioè che i servizi segreti italiani avrebbero proposto a Turatello di organizzare una finta rivolta nel carcere di Nuoro per assassinare tutto il nucleo storico delle Brigate rosse. Lei come lo ha saputo e quali sono i particolari di questa vicenda?

FRANCESCHINI. Ho appreso questo episodio direttamente da Turatello nel carcere di Nuoro, poco prima che egli venisse ucciso. Era un carcere speciale dove si poteva andare all'aria al massimo in dodici persone in ognuno dei passeggi. Si poteva scegliere il passeggio, quindi, ma non si poteva essere più di dodici. Ad un certo punto, Turatello cominciò a frequentare il nostro passeggio e a parlare con alcuni di noi (io ero uno di quelli con cui cercava di parlare). Mi raccontò - ancora adesso mi chiedo perché lo ha fatto - una serie di cose che a me allora sembravano stranissime. Ad esempio, mi riferì che era stato contattato tramite l'avvocato del MSI, Formisano (diceva che era un consigliere regionale del MSI di Roma), che era il suo tramite con i servizi, il quale gli aveva proposto di organizzare in carcere delle squadre di amici suoi, che dovevano uccidere noi capi storici. Ognuno di costoro avrebbe preso un salario di 300.000 lire al mese (che allora non era pochissimo, credo fosse il 1979 o il 1980) e sarebbero stati anche ideologizzati, perché consegnavano loro una specie di manualetto rosso o nero che recava l'effigie di Mussolini in copertina. Mi raccontò questo episodio, cioè che tramite un suo uomo che stava a Torino gli avevano proposto di organizzare una rivolta per ucciderci. Non ho creduto a questi racconti, perché era uno smargiassone e un fanfarone. Pensavo che mi raccontasse queste cose per farsi bello, perché sosteneva che si era rifiutato di eseguire un'operazione del genere, perché secondo lui era roba da carabinieri e lui non era un carabiniere, e quindi in qualche modo ci aveva salvato la vita. Perciò, non ho dato subito molta importanza alle sue parole. Poi invece è successo che si è pentito un tale Costa …

PRESIDENTE. Gaetano Costa, che sul "Corriere dellla Sera" del 29 maggio 1997 racconta la stessa storia e si attribuisce il ruolo di aver convinto lui stesso Turatello a non aderire alla richiesta dei servizi.

FRANCESCHINI. Perciò poi ho scoperto che questa storia era vera. Sono stato chiamato al processo Andreotti come teste, dove ho confermato che Turatello, quindici giorni prima di morire, mi disse queste cose.

DE LUCA Athos. Qual era la finalità di questa operazione?

PRESIDENTE. Era quello di cui ci ha parlato ieri l'avvocato Guiso: la banda Baader-Meinhoff, la Raf, vengono "suicidati" in carcere. Allora Craxi ha raccontato alla Commissione Moro di aver detto a Guiso di cercare di convincere il nucleo storico delle Brigate rosse a prendere posizione a favore della salvezza di Moro, facendo loro capire che se Moro veniva ucciso non sapevano cosa sarebbe potuto accadere nel carcere. Sarebbe potuto succedere qualcosa di analogo a ciò che era accaduto in Germania. Per cui ieri Guiso ci ha detto che avendo questa preoccupazione, nel momento in cui ha capito che le trattative erano finite e che la vicenda di Moro andava verso l’epilogo tragico, lui dichiara alla stampa che i suoi assistiti stanno benissimo per lanciare un messaggio al potere: se poi muoiono non ci venite a raccontare che si sono suicidati. Questo è il senso di tutta l’operazione. Questo troverebbe conferma nel fatto che effettivamente c’era stata l’idea di operare questa rappresaglia, perché è una logica di rappresaglia.

FRAGALA’. C’era stata l’idea ed era stata messa in atto.

PRESIDENTE. Tramite questo avvocato Formisano che aveva parlato a Turatello, che poi dopo del tempo lo racconta a lui, e questo viene confermato da Costa.

DE LUCA Athos. Ma la Destra perché doveva farlo?

PRESIDENTE. No, perché era un uomo dei Servizi.

FRAGALA’.Ieri Guiso ci ha parlato di una colonna genovese delle Brigate rosse che è rimasta sempre super segreta; da chi era formata questa colonna genovese?

PRESIDENTE. Non ha detto che era rimasta super segreta, ma che nella decisione del gruppo militare di uccidere Moro - perché lui naturalmente non aderisce all’idea della decisione imposta dalle Brigate rosse; lui è dell’idea che, nella logica del gruppo militarista, l’esito non poteva essere diverso, una volta che lo Stato non apriva nessuno spazio per la trattativa - avrebbe partecipato la colonna genovese delle BR, che lui dice di non conoscere, perché non sono persone di cui è stato avvocato.

FRANCESCHINI. Onestamente, quando ero fuori io, fino al 1974, non esisteva una colonna genovese, per cui non ho idea a chi ci si potesse riferire. So che c’era un Riccardo Dura, che però non conoscevo.

PRESIDENTE. Il gruppo di Dura, che probabilmente era oggetto anche quello di una rappresaglia, secondo alcuni giornalisti.

FRAGALA’. Lei, nel libro "La borsa del Presidente", fa riferimento all’immobiliare Savellia ed ai suoi sotterranei? Lei sostiene che lo Stato sapeva tutto, sapeva dove era Via Gradoli…

FRANCESCHINI. Questo non lo sostengo io, prima di me lo sosteneva Pecorelli.

FRAGALA’. Lo Stato sapeva dove era Via Gradoli – di questo ne sono convinto anch’io – e dove era Via Montalcini.

FRANCESCHINI. E dov’era tenuto Moro.

FRAGALA’. Probabilmente in un terzo rifugio.

FRANCESCHINI. E appunto Pecorelli in questo suo articolo quindici giorni prima di essere ucciso parla di questo posto, il famoso posto con il passo carraio, dove secondo lui comunque la macchina con Moro passa ed entra. Lì dovrebbe esserci stato un "controllo dei Carabinieri" – lui indica questo termine – che poi, verificato che Moro era vivo, lo lasciano andare. Anche qui è una semplice invenzione letteraria nel senso che tra le cose trovate in Via Gradoli quando viene arrestato anche Morucci ci sono una serie di numeri di telefono che rimandano ad un’immobiliare che è la Montesavellia e siccome poi la distanza tra questo Montesavellia, io sono andato a vedere, perché abitavo lì vicino e c’è proprio un passo carraio con un cortile interno dove adesso mi sembra vi sia una delle sedi dell’ADN-Kronos …potrebbe essere un posto con certe caratteristiche…

PRESIDENTE. Molto lontano da Via Caetani?

FRANCESCHINI. No, vicinissimo. Infatti da lì, facendo 300 metri in macchina, si arriva in Via Caetani. E’ ai limiti del Ghetto.

PRESIDENTE. Non lontano dal Consiglio di Stato.

FRANCESCHINI. Monte Savello è anche una piazza e lì c’è un autobus, che non so se esiste ancora, che ha come capolinea Via Montalcini. Sembra strano ma è così.

FRAGALA’. Secondo la ricostruzione dell’uccisione di Moro così come l’hanno riferita i brigatisti nei processi, cioè Moro ucciso nell’automobile da Moretti, che si volta eccetera, l’uccisore, secondo la perizia dovrebbe essere un mancino. Chi di questi era mancino?

FRANCESCHINI. La cosa interessante è questa. La perizia che a me ha colpito e che io poi cito nel libro, fatta non solo dai periti della commissione ma anche dai periti giudiziari avanza due ipotesi. La prima, che è poi quella che ufficialmente è sempre stata data, è che Moro sia stato ucciso da una pistola che ha sparato dal di fuori della macchina, che però viene ritenuta, per le perizie balistiche, la meno probabile; loro ritengono invece più probabile che il colpo sia stato sparato dall’interno della macchina dal sedile posteriore, cioè da una persona seduta sul sedile posteriore.

PRESIDENTE. Che era l’accenno che ho fatto all’inizio.

FRANCESCHINI. Poi non so adesso se c’è anche l’accenno al mancino; comunque questa i periti la danno come l’ipotesi più probabile.

FRAGALA’. Lei poco fa ha letto soltanto il primo file di quella famosa pagina del libro di Delfino. Io ora le leggo il secondo file e voglio una sua valutazione. Scrive il generale Delfino: "Secondo file: un vocabolario russo-italiano. Stralcio dai primi due comunicati delle Brigate rosse alcune frasi: «La congrega più bieca di ogni manovra giudiziaria….sulle cui gambe cammina il progetto delle multinazionali…», «Le maggiori potenze che stanno alla testa della camera gerarchica…»; «Il compito di trainare le appendici militari…». Il "traino", rifletto, è un concetto agro-pastorale di un’economia agricola che in Italia è antecedente al 1914! In Italia, all’epoca delle Brigate rosse, nessuno, tanto meno dei laureati in sociologia a Trento, si sarebbe sognato di usare termini come "traino" o equivalenti, che sempre negli stessi comunicati compaiono come "cinghia di trasmissione". E la camera gerarchica che vuol dire? In quale paese del mondo era ancora moneta corrente un linguaggio di questo tipo, che poi scompare del tutto a partire dal terzo comunicato delle Brigate rosse? Fantastichiamo un po’: se l’input fosse venuto dall’Unione Sovietica? Se un traduttore russo che conosce poco bene l’italiano avesse dovuto ricorrere al vocabolario per accertarsi del significato di parole…" eccetera. Ora, rispetto a questo secondo file (lei ha ritenuto il primo file molto interessante) che ipotizza che ci possa essere stato un traduttore russo che aveva poca dimestichezza con l’italiano, lei che riflessione fa?

FRANCESCHINI. Io ritengo interessanti tutti e quattro i file, quindi anche questo. La riflessione interessante è che, al di là del pretesto linguistico che lui utilizza, mi sembra che lui dica delle cose molto chiare. Cioè dice che fino al comunicato n. 2 a scrivere sono certe persone, poi, dal comunicato n. 2 al 3 c’è un cambiamento di soggetto; c’è un soggetto che stava in Italia che poi se ne torna perché viene richiamato in Unione Sovietica. Credo che Delfino sappia chiaramente di chi sta parlando; stava parlando di una persona, conosce un nome e un cognome; bisognerebbe chiedere a lui perché è interessante questa cosa secondo me.

PRESIDENTE. Anche se un linguista come Tullio De Mauro ha detto che l’espressione "catena gerarchica" sembra più di origine spagnola che russa.

FRANCESCHINI. Infatti, secondo me, questo è un pretesto.

PRESIDENTE. E’ un pretesto per dare il messaggio. Infatti io penso che il senso di quella pagina è che c’è questo intreccio tra Servizi occidentali, CIA, Mossad e KGB. Questo è il messaggio complessivo che lancia.

DE LUCA Athos. Tranquillizzo i colleghi, sarò molto breve. Intanto anch’io la ringrazio molto, per me è stata utile questa audizione e le cose che lei ci ha detto. Secondo lei, perché Moretti ha rifiutato sempre di venire e di essere audito?

FRANCESCHINI. Perché conoscendolo credo che lui non abbia bisogno di essere audito da voi. E’ audito da altri che contano molto più di voi.

DE LUCA Athos. Colgo questa occasione – non so se la Commissione è d’accordo – per dire che siccome Moretti non è mai stato ascoltato se non dai giudici, si potrebbe riflettere se non sia il caso di chiedere un incontro in base alle nostre prerogative; anche perché siamo in una fase conclusiva delle nostre audizioni. Non vedo perché si dovrebbe sottrarre a questa nostra richiesta.

PRESIDENTE. Le rispondo subito. Non può sottrarsi a venire, come nessuno, avendo noi i poteri dell’autorità giudiziaria, ma può rifiutarsi di rispondere, perché è un suo diritto.

DE LUCA Athos. In tal caso se ne assumerà le responsabilità.

PRESIDENTE. Il fatto che Moretti non voglia venire qua si colloca all’interno di un suo comportamento complessivo. Ciò che trovo singolare è che, dopo che Morucci ci ha detto certe cose e che la Braghetti scrive dei libri e va in televisione, personaggi come lui non sono mai riusciti a dire che Morucci è un depistatore – che è quello che ti aspetteresti – e d’altro canto si sono rifiutati di venire in Commissione. Comunque ne possiamo parlare in Ufficio di Presidenza: possiamo utilizzare i nostri poteri per farli venire ma non so se sia utile perché è un loro diritto rifiutarsi di rispondere.

DE LUCA Athos. Risulta che Moretti andò in Sicilia. Secondo lei che cosa andò a fare?

PRESIDENTE. Se non sbaglio ci va con la Balzerani.

FRANCESCHINI. Sì, credo che fosse nel 1975 o nel 1976; io ero in carcere. Per quello che ne so io almeno ufficialmente ci andò perché vi era un progetto di evasione dal carcere di Favignana. Questa è la versione che conosco io.

DE LUCA Athos. Anche a proposito di quanto diceva prima il Presidente, credo che noi non possiamo sfuggire ad una logica che è stringente. Si può ritenere – e io sono fra quelli che ritengono – che si conoscevano molte cose, si sapeva tutto, vi era un disegno politico per il quale era "funzionale" (senza aggiungere altre parole a quello che abbiamo sempre detto) non intervenire, quindi non vi era una inefficienza della Polizia. Poi qui abbiamo visto il Ministro dell’interno dell’epoca e altri che hanno aperto le braccia dicendo: "Lo Stato era inefficiente, tutto questo era accaduto perché l’intelligence non c’era". Questa è una tesi che io non condivido, non so gli altri.

PRESIDENTE. Io non la condivido dal 1995.

DE LUCA Athos. Ecco, Presidente, ma dobbiamo trarre le conclusioni da questo.

PRESIDENTE. Ci avevo provato, senatore. Questa conclusione del delitto non contrastato io l’avevo scritta nella proposta di relazione del 1995.

DE LUCA Athos. Se questo è vero, come anche l’audizione di oggi mi persuade, cioè non vi era inefficienza - certo, non eravamo al pari di altri, ma i fatti sono così clamorosi che non è pensabile che non si potesse arrivare ad avere dei risultati -, allora bisogna risalire alle responsabilità. Ci sono due ipotesi che le sottopongo e sulle quali chiedo una sua opinione: o l’input veniva direttamente dal potere politico, quindi dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell’interno di allora, cioè c’era la volontà politica di un partito e quant’altro, oppure i Servizi costituivano un filtro ed erano talmente deviati che non rispondevano al potere politico per il quale operavano. Io propendo per la prima tesi, cioè che vi fosse una volontà politica: mi ha sempre convinto la tesi secondo la quale gli opposti estremismi erano funzionali a varie esigenze di equilibri internazionali, Yalta e tutte le cose che lei dice. In tal caso le responsabilità potrebbero essere un po’ sfumate. Ecco, vorrei conoscere la sua opinione: è più valida la tesi che vi era un potere politico che dava direttamente degli input oppure quella secondo la quale i Servizi rispondevano alle potenze straniere e il potere politico era ignaro. Per esempio Andreotti, se non erro, Presidente, ci ha detto qui: "Quando sono diventato Presidente del Consiglio mi hanno detto: "La prima cosa che devi fare è non occuparti dei Servizi. Non te ne occupare."

PRESIDENTE. "Giova alla dignità del Ministro della difesa non occuparsi dei Servizi"!

DE LUCA Athos. Questo è illuminante, rispetto a certe cose. Comunque vorrei una sua opinione su questi due livelli, naturalmente dal suo osservatorio.

FRANCESCHINI. Io non ho mai creduto alla tesi dei famosi "Servizi deviati". A parte il fatto che i Servizi erano di nomina politica e quindi dovevano rendere conto a dei tutori politici, io sono assolutamente convinto della tesi che c’era una parte del mondo politico assolutamente consapevole di una strategia in atto nel nostro Paese, una strategia che ovviamente aveva radici internazionali (non veniva decisa da questa parte del ceto politico a livello nazionale). Vi è certamente una parte dei partiti, del mondo politico dell’epoca che fa riferimento a questa strategia internazionale, opera affinché questa strategia in Italia ottenga dei risultati. E questi risultati li ha ottenuti: in quegli anni il problema non era fare il colpo di Stato; probabilmente una parte dell’intelligence americana pensava a una soluzione di questo tipo, ma era una ipotesi peregrina, non realizzabile. Il problema era rafforzare in questo paese un certo tipo di Governo e di forze politiche: è questo ciò che la strategia della tensione ha prodotto come risultato. Quindi c’erano forze politiche o parti di esse che traevano vantaggi dalla strategia della tensione.

PRESIDENTE. Lo stesso Moro scrive: "Settori del mio partito conniventi o indulgenti con la strategia della tensione". Però non riusciamo ad individuare i settori, di questo dobbiamo prendere atto. Lo stesso figlio, il professor Giovanni Moro, che abbiamo sentito, non ci ha fornito alcuna indicazione. Quindi non andiamo al di là della ricezione delle cose che ha detto Moro.

DE LUCA Athos. A me ha interessato un passaggio. Lei ha detto: "Dopo la vicenda del Lago della Duchessa qualcosa è cambiato, è scattato un meccanismo e in molti, da più parti, si sono resi conto che i giochi erano fatti e si era alle ultime battute della vicenda. In questa coda della vicenda viene fuori una tesi che mi sembra di aver capito bene, ma su cui vorrei conferma da lei, cioè che vi fosse una funzionalità che poi portò all’uccisione di Moro: da una parte Moro era segnato nel destino per le cose che aveva detto; dall’altra parte, le stesse BR che in quel momento gestivano l’operazione (questo è il passaggio meno nobile dell’epilogo della storia di questo gruppo) per salvarsi la vita avrebbero accettato questa via. Ho capito bene?

FRANCESCHINI. Sì, è una ipotesi che ha dei riscontri, degli indizi interessanti. L’operazione Lago della Duchessa–via Gradoli (vanno sempre tenuti insieme) è un messaggio preciso a chi detiene Moro. Da lì c’è una svolta precisa. Gli dicono: "Noi vi abbiamo in mano, possiamo prendervi in qualsiasi momento". Inizia quindi secondo me una trattativa sotterranea tra chi detiene Moro e una parte dello Stato. Mi immagino questa trattativa come un braccio di ferro che alla fine produce certi risultati. Un risultato è: la morte di Moro, la salvezza dei brigatisti che lo avevano in mano. Probabilmente, all’interno dello schieramento che faceva la trattativa c’era anche chi pensava che Moro potesse essere liberato. C’è un passo di Pecorelli, secondo me fondamentale, che riporto nel mio libro, secondo il quale c’era qualcuno (sembra che il riferimento sia a Cossiga) che quella mattina si aspettava che Moro fosse liberato.

FRAGALA’. Cossiga esce con la lettera di dimissioni in tasca, perché si aspetta che inizi la trattativa e quindi lui è finito.

TASSONE. Cossiga la lettera l’aveva in tasca da tempo.

FRANCESCHINI. L’ipotesi che io faccio è questa: una trattativa, che certamente è avvenuta, che ha avuto certi risultati. Lo diceva anche Dalla Chiesa nella seconda audizione presso la Commissione Moro: se vogliamo capire le cose, dobbiamo sapere chi ha recepito i memoriali. Nessuno ha mai trovato gli originali. Dalla Chiesa diceva una cosa elementare, che ho sempre ritenuto anch’io. Se io ho i memoriali originali di Moro, con la sua calligrafia originale, eccetera, mi conservo gli originali e non le fotocopie perché gli originali sono un elemento che si può sempre usare in una trattativa, ma non ha senso conservare le fotocopie e distruggere gli originali.

PRESIDENTE. Questo mi sembra addirittura elementare.

FRANCESCHNI. Dalla Chiesa dichiara di non capire perché si conservino le fotocopie. Dice: abbiamo trovato fotocopie ovunque ma non abbiamo mai trovato gli originali. Perché non erano completi evidentemente.

DEL LUCA Athos. La ringrazio, signor Franceschini, perché la sua audizione è stata molto utile e mi auguro lo sia stata anche per i miei colleghi.

TASSONE. Signor Presidente, da questa audizione esco più confuso di quando sono entrato in quest’Aula. Ci è stato fatto un quadro delle Brigate rosse per alcuni versi contraddittorio. Noi abbiamo le Brigate rosse, con una organizzazione perfetta, che trae il punto esaltante e forte nel sequestro dell’onorevole Moro, in quella grande operazione militare. Attraverso una serie di valutazioni, vediamo che le brigate rosse sono uno snodo confuso di presenze estranee, quindi questa organizzazione, che era sembrata "molto forte", presenta invece per alcuni versi molti fori, fa acqua da tutte le parti. Non le pare, signor Franceschini, che vi sia una contraddizione tra l’operazione 16 marzo 1978 e tutto quello che è venuto fuori almeno dalle sue descrizioni?

FRANCESCHINI. Infatti è questa contraddizione che è il più grande elemento oscuro di tutta l’operazione Moro. Anche da un punto di vista militare chi di voi ha conosciuto le persone che avrebbero dovuto compiere questa operazione si rende perfettamente conto che quelle persone non erano in grado di compierla. Questa non è solo una dichiarazione che faccio io. Anche un generale, non mi ricordo bene chi, comunque uno dei capi di Gladio, faceva un’affermazione del genere: quell’operazione noi l’abbiamo studiata a tavolino; poteva essere compiuto solo da soggetti che si addestravano periodicamente in caserma, in luoghi fisici precisi. Ripeto ancora una volta: un’operazione complessa come quella di Moro non sono convinto che sia stata realizzata militarmente solo dai soggetti indicati dalla verità ufficiale.

PRESIDENTE. Questo si ricollega a quello che io ho detto all’inizio. Franceschini nel suo libro spiega l’uso delle divise dell’aeronautica proprio con la presenza di persone estranee alle BR: siccome arrivano sul posto ed hanno bisogno di individuare gli amici degli amici, si mettono le divise dell’aeronautica, al fine di impedire di morire sotto il fuoco amico. Quindi, la sua tesi è che l’operazione militare non la compiono soltanto le Brigate rosse.

FRAGALA’. Morucci si definisce Tex Willer.

PRESIDENTE. Morucci ha minimizzato e la Faranda pure. Continui pure, signor Franceschini.

FRANCESCHINI. Anche dal punto di vista delle ricostruzioni è impossibile che lui possa esserlo. A volte hanno detto che era Bonisoli, cosa impossibile da un punto di vista tecnico.

PRESIDENTE. Lui poi lo ha spiegato parlando delle perizie.

FRANCESCHINI. La cosa incredibile di queste divise su cui io riflettevo è questa: se sono a Fiumicino e mi vesto con la divisa dell’aeronautica, poiché lì c’è un giro di piloti, può essere un modo per camuffarmi; ma vestirmi con queste divise in via Fani vuol dire il contrario di camuffarmi, vuol dire farmi riconoscere, perché non credo che in via Fani abitino molti piloti dell’aeronautica. Cioè non vi è stata alcuna operazione di quel tipo fatta con divise a meno che non fossero divise della polizia per camuffarsi da poliziotto. Comunque, per come conosco le persone, sono convinto che quella è un’operazione estremamente complessa che non può essere stata compiuta solo da quei soggetti che la verità ufficiale indica come esecutori. Secondo punto: l’organizzazione BR, per come la conosco io, è debolissima. Infatti, la dimostrazione è questa: se vedete l’operazione Moro, avete una certa idea delle BR; se pensate che le BR sono le stesse del 1979 e degli anni successivi, che fanno morti in maniera assurda, hanno una debolezza politica incredibile e dovrebbero essere le stesse BR perché ci dovrebbe essere anche una continuità nel tempo; si ha quasi l’idea di due organizzazioni completamente diverse.

PRESIDENTE. A Monte Nevoso erano state in parte decapitate .

FRAGALA’- Quello che fugge in Nicaragua può essere il personaggio.

FRANCESCHINI. Sicuramente quello poteva essere un personaggio.

PRESIDENTE. Casimirri.

FRANCESCHINI. Casimirri è uno dei tre che Morucci indica in uno dei famosi rapporti che poi suor Teresilla porta a Cossiga, come uno di quelli che aveva realizzato direttamente l’operazione.

TASSONE. Lei si è convinto di questo subito dopo l’operazione del 16 marzo 1978? Non ha mai avuto sentore di un possibile condizionamento o che quanto meno le brigate rosse fossero teleguidate da altri poteri, anche perché una operazione come quella del 16 marzo credo debba avere anche dei precedenti, dei segnali. Lei ha detto che anche in stato di detenzione aveva contatti e collegamenti continui, tant’è vero che mandava anche rapporti. Circolavano anche rapporti che uscivano fuori dal carcere. Sarei curioso di sapere come si faceva, con quali complicità da questo punto di vista. Perciò anche in quel caso lei, come anche Curcio ed altri, era efficiente. Quale tipo di "solidarietà " si aveva rispetto a questo tipo di rapporto tra il carcere e l’esterno?

FRANCESCHINI. Quanto alla prima domanda come ho detto varie volte, noi rimaniamo fortemente stupiti quando sentiamo del sequestro Moro, cioè per come pensavamo noi, ci sembrava impossibile che la nostra organizzazione avesse compiuto un’operazione di quel tipo. E’ chiaro che poi siamo favorevolmente colpiti perché noi siamo d’accordo con un’operazione di quel tipo. La seconda questione: i collegamenti. Questi avvenivano attraverso gli avvocati sostanzialmente perché queste erano le uniche persone che potevamo contattare senza un vetro divisorio. C’erano diversi avvocati, in particolare erano due quelli che per noi avevano rapporti di fiducia tra noi e l’organizzazione: uno era Arnaldi (che si è suicidato sparandosi a Genova quando andarono per arrestarlo), e l’altro era Sergio Spazzali, che poi è fuggito in Francia. Questi erano i due avvocati, per quanto riguardava noi del nucleo storico, che erano anche avvocati nostri, ovviamente, con cui noi potevamo parlare; con loro era possibile scambiarci delle carte. L’avvocato veniva con delle carte e quando la guardia era disattenta, lui raccattava gli scritti che avevi lasciato e, viceversa, tu prendevi le sue carte. Quindi era abbastanza possibile.

TASSONE. Lei ha parlato della trattativa della fermezza, ne ha parlato nel suo libro, ne ha parlato anche qui. Una domanda che ho fatto anche in altre occasioni. Il destino di Aldo Moro, che lei poi imputa - almeno da quanto recuperato dall’intervento dei colleghi, alle dichiarazioni sottolineate anche dal Presidente della Commissione - alle dichiarazioni rese dall’onorevole Moro, per quello che aveva detto, per quello che aveva scritto, non ha mai pensato che già le Brigate rosse avessero condannato Moro nel momento in cui avevano ucciso il 16 marzo i cinque uomini della sua scorta?

FRANCESCHINI. Sì, infatti questa è un’altra domanda che mi sono posto. Però non credo, perché ad esempio c’è un altro sequestro, Cirillo, a Napoli…

TASSONE. Ma questo avviene successivamente, dopo la triste vicenda di Aldo Moro.

FRANCESCHINI. Sì, però anche lì ammazzano la scorta. Cioè, non è automatica la cosa, secondo me. Non credo che sin dall’inizio i compagni avessero… almeno, a noi ci dicevano che erano intenzionati a compiere una trattativa e non… Io dico che la svolta avviene con via Gradoli, con il comunicato del Lago della Duchessa. Fino a lì le informazioni che noi ricevevamo dai compagni fuori erano che Moro stava collaborando, stava dicendo cose interessanti; quindi secondo loro era possibile, partendo da queste dichiarazioni di Moro, fare una trattativa che portasse dei risultati positivi. Da via Gradoli in poi il quadro cambia radicalmente, tant’è che potete vederlo anche dai comunicati: i compagni fuori dicono: "Moro in realtà non ha detto nulla, non c’è niente da rendere pubblico a nessuno", mentre prima dicevano che avrebbero utilizzato i canali del movimento rivoluzionario per rendere pubbliche le cose. C’è proprio una chiusura netta.

TASSONE. Secondo lei, questo processo di condizionamento – seguendo anche il suo ragionamento, il filo logico anche di questo dibattito – può avere anche dei precedenti, può essere avvenuto negli anni sessanta, 1967-1968, anche all’interno della FGCI? Credo che Imbeni, che allora era segretario nazionale della FGCI, poi europarlamentare e sindaco di Bologna, ebbe qualche difficoltà nella gestione della FGCI. Poi delle frange uscirono anche fuori dalla FGCI. Anche la rottura di queste frange nei confronti della FGCI e PCI può essere teleguidata, con questo ragionamento, per arrivare ad un obiettivo?

FRANCESCHINI. Teleguidata da chi?

TASSONE. Da forze estranee, non lo so.

FRANCESCHINI. Certamente quello che voglio dire e che sottolineavo all’inizio è che non può essere interpretato tutto come un teleguidato. Bisogna tenere presente che la cosiddetta strategia della tensione si muove su dei soggetti storici reali, che sono quelli che venivano chiamati gli opposti estremismi; cioè, esistevano veramente delle aree estreme a Destra e a Sinistra che volevano muoversi su un terreno rivoluzionario, antistituzionale e violento ed è su questa dura realtà che si innesta quella che poi viene chiamata la strategia della tensione. Non so se mi riesco a spiegare. Cioè, quando sono uscito dalla FGCI, non credo di essere stato teleguidato o eteroguidato; sono uscito dalla FGCI perché secondo me ormai non era più un’organizzazione rivoluzionaria. Non credevo che la FGCI volesse fare la rivoluzione in questo paese; io volevo fare la rivoluzione, come me a Reggio Emilia eravamo in sessanta ragazzi che pensavamo questa cosa e in sessanta siamo usciti dalla FGCI. Questo probabilmente è avvenuto.

TASSONE. Ironia della sorte è che i rivoluzionari poi vengono ad essere manipolati e fanno un altro tipo di lavoro.

FRANCESCHINI. Questo me lo aveva sempre detto mio padre. Da vecchio comunista mio padre mi diceva: "guarda che se esci dal partito andrai a finire nelle mani della CIA" e io ci ho sempre riflettuto, forse la vecchia saggezza… (Ilarità).

TASSONE. Lei ha parlato di centro da riequilibrare e faceva anche riferimento alla Democrazia Cristiana. Ha elementi concreti, ha nomi da dare alla Commissione, visto e considerato che siamo una Commissione d’inchiesta? Dopo aver recensito il suo libro, che è molto ricco anche di spunti, sarebbe ora di chiudere. Lei ha qualche elemento oppure sono delle ipotesi o soprattutto delle supposizioni? Nomi e cognomi, Franceschini.

FRANCESCHINI. Farò un nome e cognome, anche se è abbastanza ovvio. Da una parte è un’analisi politica che non faccio solo io ma c’è un testo, anche molto interessante, di Giorgio Galli, che è un politologo serio quale non sono io.

PRESIDENTE. Lo abbiamo utilizzato la scorsa legislatura come consulente della Commissione.

TASSONE. Io purtroppo credo ai Vangeli. Non c’è un evangelista di nome Giorgio.

FRANCESCHINI. C’è questo testo che secondo me è interessante, che si intitola "Storia del partito armato", che è un’analisi dei primi anni ottanta. Comunque, credo che certamente non è una sola persona, è un gruppo trasversale anche a vari partiti. Certamente uno degli elementi fondamentali, secondo me, come punto di riferimento è Giulio Andreotti, anche perché stranamente mi chiamano a Palermo… Cioè, alla fin fine poi – una cosa che racconto anche nel libro e ho detto pubblicamente varie volte – io e altri compagni, dopo il sequestro Sossi, volevamo sequestrare Andreotti e non Moro; io non avrei mai sequestrato Moro, perché politicamente lo ritenevo un obiettivo sbagliato. Noi ritenevamo che l’obiettivo giusto era sequestrare Andreotti, tant' è che io racconto che venni a Roma proprio per preparare il sequestro Andreotti, lo pedinai, gli toccai pure la gobba, perché allora Andreotti stranamente, nel 1974, si muoveva tranquillamente per Roma, andava a messa la mattina alle sette, eccetera. Allora l’obiettivo nostro era di sequestrare Andreotti, tant’è che quando mi arrestarono trovarono nelle mie tasche una serie di bigliettini con dei numeri, dei riferimenti ad Andreotti. Uno dei problemi che mi sono sempre posto è che può essere che noi potevamo fare di tutto, sequestrare Sossi, eccetera, però non sequestrare Andreotti; quando abbiamo deciso di sequestrare Andreotti hanno sequestrato noi. Questa è una mia ipotesi.

TASSONE. E’ una sua ipotesi o ha qualche elemento?

PRESIDENTE. Per chiarire, onorevole Tassone, noi stiamo accogliendo ipotesi. L’ho detto io per primo, non abbiamo prove, stiamo ricostruendo scenari.

TASSONE. Franceschini fa un nome e siccome fa un nome in Commissione lo pregherei di darci qualche elemento in più. Anche l’affollamento delle persone trasversali: è solo Andreotti che faceva anche la folla oppure è il solo, oppure chi erano i complici?

FRANCESCHINI. Non lo so. Io so solo che l’impressione che ho avuto, forse l’onorevole Fragalà lo può dire meglio di me…

TASSONE. Tant’è vero che lo ascolteremo poi (Ilarità).

FRANCESCHINI. Quando mi hanno chiamato lì a Palermo come teste a carico di questo processo di Andreotti, mi chiedevo che cosa volevano da me; poi, dalle domande che mi facevano i PM, ho intuito che loro probabilmente hanno idea che questo piano per far fuori noi tramite una serie di movimenti, esistesse davvero e avesse a che fare con Andreotti, perché era il processo di Andreotti; che in qualche modo era un piano dei Servizi o di una parte dei Servizi che facevano riferimento. Se c’entrano con quel processo perché mi hanno chiamato a quel processo? Allora questo è quello… Dico Andreotti per dire che poi nella mia vita o nelle nostre vicende, gira gira …

TASSONE. E’ sempre Andreotti.

FRANCESCHINI. Gira gira, arriva sempre lui.

TASSONE. E la mafia, Andreotti, e i Servizi, Andreotti, e l’assassinio Pecorelli, Andreotti.

FRANCESCHINI. Infatti. Io non so che dire onestamente, più che dire…

TASSONE. Poteri stranieri?

FRANCESCHINI. Poteri stranieri almeno quattro, come dice giustamente il generale Delfino: certamente la CIA, il KGB, i Servizi segreti israeliani e poi quelli tedeschi.

TASSONE. Tutti insieme gli 007 per un unico obiettivo, sappiamo quale?

FRANCESCHINI. L’obiettivo, diceva Delfino, è quello che ho detto prima: di tenere questo paese sotto un dominio di tipo semicoloniale, come lo definisce lui.

TASSONE. Ma questa è una valutazione di Delfino. Ovviamente è tutto da riscontrare, perché non credo che l’Italia sia stata in una condizione di tipo coloniale. Che mi dice di Piperno? Ha avuto rapporti con Piperno?

FRANCESCHINI. Pochissimi. Ho conosciuto Franco Piperno ai tempi del movimento studentesco, negli anni ’68-’69.

TASSONE. Non c’è stato alcun ruolo di collegamento con voi?

FRANCESCHINI. Con Piperno mai.

PRESIDENTE. Su tutta la vicenda Moro c’è una serie di punti fattuali che non hanno una spiegazione chiara. Uno di questi è che alcuni degli uomini della scorta muoiono perché ricevono il cosiddetto colpo di grazia. La spiegazione più semplice sarebbe che dal momento che si sparava a brevissima distanza non si voleva essere riconosciuti. E’ una spiegazione senza senso perché tutti operavano a viso scoperto ed in presenza di moltissimi testimoni. Lei pensa che questo particolare sia dovuto al fatto che gli uomini della scorta avrebbero potuto, ex post, ricostruire la certezza del passaggio del corteo delle due macchine in via Fani? Nella logica brigatista può rientrare questa azione del colpo di grazia una volta che la scorta era ormai stata neutralizzata e Moro poteva essere comunque catturato?

FRANCESCHINI. Non credo. Anche su questo particolare si è molto riflettuto. E’ molto interessante il fatto che la vedova di Leonardi, il capo scorta, abbia sostenuto varie volte, anche pubblicamente – ho letto sue interviste – che, a suo avviso, chi ha ucciso il marito era persona da lui conosciuta. La vedova Leonardi basava queste sue affermazioni sul fatto che suo marito non avrebbe mai potuto farsi prendere alla sprovvista in quel modo; inoltre, in quei giorni egli era molto in allarme e lo aveva capito da cose che le aveva riferito. La signora Leonardi è convinta che chi ha sparato al marito era una persona da lui conosciuta e questo spiegherebbe il colpo di grazia. Infatti, se si tratta di persona conosciuta, non si può sopravvivere all’evento.

PRESIDENTE. Lei sa se la struttura Hyperion è stata coinvolta in un rapimento effettuato in Argentina nel 1972 ai danni di un direttore della Fiat Oberdan Sallustro?

FRANCESCHINI. Sono a conoscenza di questo rapimento e credo sia stato effettuato da un certo Esercito di liberazione del popolo argentino.

PRESIDENTE. Nella nota intervista che il senatore Andreotti rilasciò nel 1974 a Il Mondo, l’intervista in cui praticamente brucia Giannettini, fa riferimento ad una "centrale fondamentale che dirige le attività dei sequestri politici per finanziare i piani di eversione e che coordina lo sviluppo terroristico su scala europea, e si trova a Parigi". Io, per la verità, ho pensato all’Hyperion. Ho scritto al senatore Andreotti il quale mi ha spiegato che il rapimento a cui faceva riferimento era quello avvenuto in Argentina nel 1972 ed ha anche indicato una sigla, ETA, come sigla parigina. Le dice nulla?

FRANCESCHINI. Assolutamente nulla.

PRESIDENTE. La ringrazio.

Dichiaro conclusa l’audizione.

La seduta termina alle ore 00,45 di giovedì 18 marzo.

Fine seconda parte

prima parte

seconda parte

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