Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi
48a SEDUTA
MARTEDI 9 MARZO 1999
Presidenza del Presidente PELLEGRINO
Indice degli interventi
La seduta ha inizio alle ore 20,35.
PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.
Invito il senatore De Luca Athos a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.
DE LUCA Athos, f.f. segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del 17 febbraio 1999.
PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.
COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE
PRESIDENTE. Comunico che, dopo l'ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti, il cui elenco è in distribuzione, che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell'inchiesta.
Comunico inoltre che la seduta di domani 10 marzo 1999, destinata all'audizione dell'avvocato Guiso, non potrà aver luogo per una sopravvenuta indisposizione dello stesso ed è quindi rinviata ad altra data. Se le condizioni di salute dell'avvocato Guiso miglioreranno e se voi siete d'accordo fisserei questa audizione per martedì prossimo, per non interrompere il calendario dei nostri lavori, che proseguirà con le audizioni di Franceschini e dell'onorevole Signorile.
INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL DOTTOR GIOVANNI MORO
Viene introdotto il dottor Giovanni Moro
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Giovanni Moro, figlio dello statista, che ringrazio per la sua disponibilità nell'ambito dell'inchiesta sugli sviluppi del caso Moro.
Data la particolare natura dell'audito e dei suoi rapporti con le vicende oggetto della nostra inchiesta, se voi siete d'accordo, vorrei limitarmi solo a un breve inquadramento iniziale; poi darei la parola al professor Moro, che naturalmente sa quali possono essere le acquisizioni di cui la Commissione ha bisogno. Non porrei specifiche domande, se non inserendomi in ciò che il professor Moro dirà; lascerà poi ai colleghi il compito di formulare domande specifiche.
Penso che sulla vicenda Moro gran parte della verità sia ormai acquisita agli atti delle inchieste giudiziarie e agli atti della nostra Commissione. Anche per fugare equivoci ricorrenti sul tipo di verità ulteriore che noi cerchiamo, direi che è certo storicamente che sono le Brigate rosse a rapire Moro, a processarlo secondo un loro codice, ad emettere una condanna sempre secondo quel codice e ad eseguire la sentenza nell'ambito di scelte possibili all'interno della logica delle BR. Penso anche che le Brigate Rosse facciano parte della storia della sinistra politica di questo paese; così come non diversamente fanno parte della destra politica di questo paese Avanguardia nazionale e Ordine nuovo.
Per quel che riguarda il fenomeno eversivo della destra radicale noi abbiamo già prove o ragionevoli certezze o elevate probabilità - secondo i punti di vista - di una contiguità con le istituzioni di questo paese: Ordine nuovo, o almeno una parte, per lo più in un rapporto con gli apparati di sicurezza militari; Avanguardia nazionale in un rapporto con il Viminale e le strutture che facevano capo a D'Amato. Questo almeno alla stregua della memorialistica dei protagonisti di quel periodo che, se sono di Ordine nuovo, accusano Avanguardia nazionale di contiguità con il Viminale, se sono di Avanguardia nazionale, accusano Ordine nuovo di contiguità con gli apparati di sicurezza alla stregua di una serie di elementi che, anche recentemente, sono emersi da inchieste giudiziarie.
Per quel che riguarda invece il terrorismo di sinistra non ci sono elementi di questa contiguità. Ricorderete che nell'altra legislatura la conclusione che era inserita in quella mia proposta di relazione era che, semmai, si poteva pensare che le Brigate rosse fossero state condizionate più con una logica di relativo contrasto che attraverso una logica di vera e propria strumentalizzazione o etero-direzione, cioè che fossero state contrastate in alcune fasi della loro storia e meno in altre, tanto da far sorgere il sospetto che la caduta nell'azione di contrasto possa in alcuni momenti essere stata determinata e voluta. In questa legislatura abbiamo sottoposto il problema ai nostri consulenti. Su questo ha riferito in particolare alla Commissione il dottor Nordio, che ha tratto una conclusione negativa. Ha detto che i limiti del contrasto alle Brigate rosse erano soltanto l'effetto della disastrosa situazione di disorganizzazione dei nostri apparati di sicurezza e quindi quella che poteva sembrare una logica voluta di stop and go era invece dovuta ad uno Stato non attrezzato a resistere al terrorismo che in alcuni momenti, anche a prezzo di sacrifici individuali, conosceva momenti di efficienza e poi invece conosceva momenti di fragilità e di scarsa efficienza nel contrasto. Però, lo stesso dottor Nordio ha detto, con riferimento al caso Moro, che la debolezza della risposta istituzionale soprattutto nell'attività di indagine, che poteva portare all'individuazione della prigione dell'onorevole Moro e poi alla sua liberazione, è così intensa da lasciar adito a dubbi e quindi da legittimare un'inchiesta ulteriore da parte della Commissione. Poi l'anno scorso - lo ricorderete tutti - sono venuti segnali provenienti da luoghi istituzionali; il Capo dello Stato si domandò in una sede pubblica se oltre alle Brigate rosse non ci fossero state altre intelligenze che avevano potuto guidare l'intera vicenda, o quanto meno contribuire a portarla al suo tragico epilogo.
Direi che il tema dell'inchiesta che abbiamo ritenuto di dover proseguire, nella quale si inserisce l'audizione di questa sera, è proprio questo: c'è altro oltre alle Brigate rosse? A mio avviso, ovviamente, questo non farebbe cambiare il segno politico delle BR, né escluderebbe che le stesse fossero quello che dichiaravano di essere; però certamente la storia del paese diventerebbe leggibile in maniera diversa. Ho idea che questa non sia una novità. Già guardando gli atti della Commissione Moro, la relazione di minoranza socialista ha un incipit proprio in questo senso, sostenendo che c'è una lettura "facile" della vicenda Moro: sono le Brigate rosse che lo rapiscono; lo Stato è disorganizzato e non riesce a trovare la prigione e a liberare l'ostaggio: sono le Brigate Rosse che lo condannano a morte e, sia pure risolvendo un contrasto interno di linea, decidono poi di eseguire la condanna. Però già allora si avvertiva e si diceva che ci poteva essere una lettura più difficile e complessa, che non esclude la verità di quel che ho detto sinora, ma consente a quella verità di aggiungere verità ulteriori. Vorremmo sapere questo dal professor Giovanni Moro. E un'impressione abbastanza diffusa che anche la famiglia dell'onorevole Moro, per ragioni che allora potrebbero essere state comprensibili, forse non abbia detto tutto quello che sa sulla storia del sequestro. Recentemente abbiamo sentito il dottor Ancora, che era un collaboratore di suo padre, il quale ci ha detto che in qualche modo, durante il sequestro, fu messo da parte per decisione di sua madre; questo ci è stato confermato dall'onorevole Barca, che era il referente nel PCI di Ancora, il quale confermò che fu detto anche a lui che per desiderio della signora Moro anch'egli non si sarebbe dovuto occupare della vicenda, poiché altri se ne dovevano occupare; altre persone dello staff di Moro avrebbero dovuto svolgere il ruolo di interfaccia con le istituzioni, e in particolare per il PCI con il Ministro dell'interno doveva essere l'onorevole Pecchioli. Aggiungo che anche l'onorevole Barca, dal punto di vista del PCI, è sembrato muovere una critica a quello che si fece nei 55 giorni del sequestro, perché affermò che a suo avviso anche gli stessi comunisti avrebbero potuto fare di più. E impressionante il fatto che indubbiamente alla nostra riflessione (o alla mia: devo sempre stare attento a non dare un'interpretazione autentica di un pensiero collettivo della Commissione), alla mia riflessione le occasioni che si sono sprecate in quei 55 giorni mi sembrano moltissime. La facilità con cui il PSI riesce ad entrare in contatto, sia pure mediato, con le Brigate rosse: il fatto che il gruppo di Pace viene contattato e la facilità con cui Pace incontrò Morucci e Faranda (si tratta di incontri che noi sappiamo esservi stati: da documenti acquisiti dal Viminale risulta che la questura di Roma aveva monitorato dal 1975 tutto il gruppo intorno a Morucci, che poi costituisce la sostanza della colonna romana delle Brigate rosse che verrà a costituirsi negli anni 1977-78). Qui sorge spontanea una domanda: forse sarebbe bastato un pedinamento di Pace per portare a Morucci; Morucci avrebbe portato a via Gradoli; a via Gradoli c'era Moretti. Uno dei magistrati che ha indagato su tutta la vicenda, il dottor Priore, ha riferito a questa Commissione che se si fosse giunti a via Gradoli il destino di suo padre sarebbe stato diverso ed aggiunse che forse sarebbe stata diversa la storia del paese.
Ricordo che le indicazioni che pervengono sull'importanza di via Gradoli sono numerosissime. L'onorevole Cazora ha detto che addirittura, da informazioni che lui aveva assunto in ambienti malavitosi, gli era stato detto che la zona della Cassia, di via Gradoli, "scottava"; il questore di Roma, sempre secondo quanto riferisce Cazora, gli riferisce che tale zona era stata setacciata "a tappeto" e che se ci fosse stato qualcosa l'avrebbero trovata. Noi sappiamo che il giorno dopo il sequestro si è bussato all'appartamento di via Gradoli, ma siccome non c'era stata risposta, non si è entrati. Poi c'è la segnalazione di Cazora. Poi c'è quella vicenda sconcertante della seduta spiritica. Se stiamo ai fatti certi, in via Gradoli c'era un covo. Il nome di Gradoli in qualche modo arriva all'apparato di sicurezza, il quale fa una specie di perquisizione a tappeto nel paese di Gradoli. Io mi domando: Moretti, come ha percepito quel segnale quando ci fu la notizia del blitz in Gradoli? Sicuramente come un segnale che il covo scottava e doveva essere abbandonato! Dopo qualche giorno lo abbandona, e lo si fa con quelle strane modalità, cioè determinando una perdita d'acqua. Sembrerebbe quasi come se, dall'interno delle BR, dall'ambiente vicino alle BR, arrivasse questa segnalazione su Gradoli e in qualche modo il sistema di sicurezza non la percepisse. Le letture sono diverse. E chiaro che possiamo pensare che c'era chi all'interno degli apparati voleva che la questione avesse un esito tragico. Potremmo però, pure pensare che, fatta la scelta della fermezza, si avesse paura delle conseguenze che un blitz avrebbe potuto determinare se per caso si fosse chiuso tragicamente con la morte dell'ostaggio. E, quindi, quasi un "lasciar fare", un assumere una posizione istituzionale di fermezza, ma poi uno sperare che altre trattative (in una delle quali avrebbe potuto avere un ruolo di protagonista la famiglia) potesse servire a determinare la liberazione dell'ostaggio.
Questo è l'inquadramento generale della sua audizione, forse superfluo, ma è servito anche a me per inquadrare i problemi. E chiaro che noi vorremmo sapere, dopo 21 anni, se ci sono pezzi di verità che possono venire dalla famiglia dell'onorevole Moro; e comunque il tempo che è trascorso, la pubblicistica che c'è stata, tutte le nuove acquisizioni che vi sono state, quale giudizio possono determinare nella famiglia dell'onorevole Moro e quali possono essere le indicazioni, anche per il proseguimento delle indagini, che possono venire per questa Commissione? Vorrei dire - ed ho terminato - che la Commissione ha fra i suoi compiti istituzionali definiti per legge quello di dover indagare in questa vicenda, per cui dei tanti inviti, che ogni tanto ci giungono anche da commentatori autorevoli, di lasciar perdere poiché non vale la pena di scavare più su queste cose e così via, indipendentemente dal fatto se siano giusti o no, non possiamo istituzionalmente tenere conto, perché c'è una legge che ci dice che dobbiamo continuare a cercare.
Le cedo la parola, professor Giovanni Moro.
MORO Giovanni. Signor Presidente, spero che questa audizione possa essere utile e possa contribuire al lavoro che la Commissione svolge, che ritengo assolutamente importante, perché sono convinto - mi è capitato di dirlo in diverse circostanze - che se il paese non viene a capo di questa vicenda con una verità che sia accettabile, seppure magari non gradita e non gradevole, che spieghi quello che è avvenuto e nella quale ci si possa riconoscere tutti quanti, il rischio è che continueremo a subire i ritorni di questa vicenda come una specie di fantasma della prima Repubblica che insegue la seconda e che le impedisce di nascere. Da questo punto di vista credo che il lavoro che può svolgere la Commissione e i risultati a cui potrà pervenire siano assolutamente importanti e direi proprio essenziali.
Credo di poter svolgere alcune riflessioni e forse anche aiutare a chiarire qualche dubbio e domanda sollevati dal Presidente, oltre naturalmente a rispondere alle domande o alle richieste di approfondimento che i commissari vorranno fare, svolgendo però una precisazione preliminare. La mia posizione (proprio per il coinvolgimento personale che il presidente Pellegrino ha ricordato) mi consiglia sempre (e mi ha sempre consigliato in questi anni) di insistere più sui fatti che sulle interpretazioni, più sugli eventi e sulle circostanze che sul loro significato, non perché non si debba dare un significato a tutto questo (giustamente è un dovere di una Commissione quello di dare un'interpretazione storico-politica di quegli eventi), ma per evitare che quello che potrei eventualmente dire sia letto, considerato e interpretato come frutto della mia particolare posizione personale. A questo principio mi sono sempre cercato di attenere e credo che sia giusto che ad esso continui ad attenermi. Da questo punto di vista mi pare che vi siano due grandi ambiti problematici su cui il Presidente mi chiede un parere o di svolgere delle considerazioni. Uno riguarda il ruolo della famiglia e l'altro il punto di vista, il che cosa sia maturato sotto il profilo della mia considerazione della vicenda in relazione al periodo di tempo, ai due decenni che sono passati dal suo svolgersi.
Per quanto riguarda la famiglia, vorrei subito sgombrare il campo, rassicurare, precisare o togliere di mezzo degli eccessi di aspettative. Vorrei che si comprendesse che la famiglia Moro si trovava in una situazione - per così dire - di occhio del ciclone, nel senso che tutto succedeva intorno alla casa dove abitavamo, ma poco o pochissimo era determinato dentro quella stessa casa. Le ragioni le capirete perfettamente, se vi immaginate in quale situazione ci siamo potuti trovare. Le informazioni erano quelle che si avevano dai canali ufficiali e più spesso anche dalla televisione o dalla radio; le possibilità di azione, di intervento erano assolutamente risibili; la possibilità di far valere un punto di vista, un parere in una interlocuzione con le autorità era molto ridotta e, quindi, eravamo al centro di un gigantesco dramma nazionale ma nel modo in cui si sta al centro, appunto, di un ciclone: ci trovavamo in una situazione di relativa calma. Ciò non significa naturalmente che non avessimo informazioni e che non cercassimo di fare tutto quello che ritenevamo fosse possibile e doveroso fare.
PRESIDENTE. Lei quanti anni aveva all'epoca?
MORO Giovanni. Avevo vent'anni. Naturalmente molto di quello che potevamo fare era necessitato ed è chiaro che per noi non era in questione il fatto se si dovesse essere del partito della fermezza o di quello della trattativa; anzi, vorrei dire che questa stessa distinzione è un po' risibile dal nostro punto di vista: noi eravamo il partito della vita e non il partito della trattativa. Devo aggiungere che ancora oggi, se dovessi dare un giudizio politico e non una interpretazione, ciò che rimane aperto come una ferita nella coscienza pubblica di questo paese è che in quella circostanza, diversamente che in altre analoghe di rapimenti o di atti di terrorismo, l'ostaggio non fu oggetto di una trattativa, ma nemmeno oggetto di una ricerca. Quindi, quando non si fanno le trattative e non si cerca l'ostaggio, è difficile che la vicenda vada a finire in modo migliore di come in realtà è andata a finire in quella circostanza. Pertanto, devo dire che la nostra posizione
PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo. Questa, per quello che può valere, è la mia posizione: non ho mai ritenuto nostro compito discutere se fosse giusta la fermezza o la trattativa; dopotutto, dopo tanti anni, è anche inutile. Tuttavia, è chiaro che, una volta che si era rifiutata la trattativa, la ricerca era doverosa. La cosa impressionante è che non ci sia stata la ricerca.
MORO Giovanni. O l'una o l'altra cosa andava fatta; magari tutte e due o una delle due: ma almeno una delle due andava fatta.
PRESIDENTE. Questo risulta ed addirittura era stato suggerito dall'esperto americano che bisognava aprire la trattativa non per chiuderla, ma per lasciare maggiore spazio alla ricerca.
MORO Giovanni. Ho presenti quelle dichiarazioni. Questo era il nostro atteggiamento allora ed è - parlo per me il mio giudizio di oggi, che è poi rafforzato - come dirò successivamente - da tutto ciò che è emerso nel corso di questi venti anni. Quindi, non potrei neanche dire che c'era una posizione a favore della trattativa o della ricerca della prigione e della liberazione dell'ostaggio. E perché non doveva essere così? Da questo punto di vista furono fatte tutte le possibili sollecitazioni istituzionali, extra istituzionali, politiche, in pratica di ogni genere ed anche rispondendo a suggerimenti e ad idee che potevano lasciare il tempo che trovavano: tutto ciò che poteva avere un barlume di utilità per raggiungere l'obiettivo di salvare il nostro congiunto veniva naturalmente sostenuto, appoggiato caldamente e raccomandato alle autorità che dovevano prendere queste decisioni. Tuttavia, devo dire francamente che quello che si poteva fare era pochissimo. Credo che ciò debba essere sottolineato: le possibilità, cioè, di azione della famiglia erano assolutamente ridotte. Presidente, credo di poter dire con serenità venti anni dopo che l'enfasi data a questo possibile ruolo della famiglia come protagonista di una trattativa parallela, che cioè essa avrebbe avuto un canale di comunicazione in uscita e non solo in entrata con l'ostaggio e che avrebbe potuto intavolare trattative dirette, è una cosa assolutamente infondata. Lo è nei fatti, perché non si è verificata, né si poteva verificare; lo è poi perché alle Brigate rosse interessava un rapporto politico con lo Stato, con la Democrazia Cristiana, con chi fosse; interessava un riconoscimento politico e non trovare un modo per restituire il prigioniero in cambio - per esempio - di denaro o di altre cose di questo genere. Vorrei sottolineare ciò, perché nel corso di questi anni e - credo - anche con una certa malafede è stato molto enfatizzato il ruolo della famiglia, come se il fatto che si fosse "impicciata" della trattativa e avesse tentato una propria via per la trattativa creasse una situazione di corresponsabilità della famiglia stessa per il modo in cui la vicenda è andata a finire.
PRESIDENTE. Mi scusi se la interrompo, ma spero che capisca che il mio dovere istituzionale mi obbliga qualche volta anche a compiti ingrati. Perché doveva essere scartata fin dall'inizio la possibilità di un riscatto in denaro? Un movimento come le Brigate rosse può essere sensibile - per esempio - al versamento di una grossa somma di denaro che può servire a fini organizzativi. Le Brigate rosse si finanziarono dichiaratamente anche attraverso alcuni sequestri; ricordo che Cirillo fu liberato attraverso il pagamento di un riscatto. Faccio un'ipotesi: se il dottor Freato avesse contattato esponenti - per esempio - del Movimento per la liberazione della Palestina e avesse promesso un grosso riscatto in denaro, perché doveva essere fuori dalla logica possibile e, tutto sommato, legittima di una famiglia che vuole soprattutto salvare la vita dell'ostaggio?
MORO Giovanni. Fu chiaro da subito che non c'era questa possibilità. In questo caso le Brigate rosse non volevano denaro; questo è un ricordo - per così dire - d'epoca e comunque non fu perseguita questa strada, sebbene arrivassero notizie - sono state riportate nella stampa in questi anni - di una disponibilità di ambienti del Vaticano a mettere a disposizione grosse cifre di denaro, delle quali peraltro noi non disponevamo; i segnali che venivano in generale erano che, se si fosse trattato di un problema di soldi, non ci sarebbe stato il minimo problema a trovarli, e questo era ovvio. Tuttavia, non era il caso; né noi avemmo mai francamente la possibilità di intraprendere qualcosa che potesse assomigliare ad un discorso di questo genere. Voglio dirlo con molta nettezza, proprio perché si è molto enfatizzato al riguardo.
Posso raccontare anche - per dire com'era il clima da questo punto di vista in merito al tentativo di attribuire alla famiglia degli intenti di azione autonoma per risolvere in proprio il caso - un episodio che naturalmente è ridicolo, ma è emblematico e mi riguarda direttamente: quindi, ne sono testimone. Durante i 55 giorni una delle molte cose dette - ogni giorno ne veniva fuori una e si diceva: "potrebbe essere così", "si potrebbe risolvere se" - fu quella che si sarebbe potuto risolvere il problema e, quindi, si sarebbe potuto liberare l'ostaggio, nel caso in cui questi avesse accettato di espatriare, di andare in esilio volontariamente in un altro paese. Era una delle cose che si diceva all'epoca ed è comparsa anche sui giornali. Allora, dovendo dare retta a qualunque di questi input, anche a quelli che sembravano ed apparivano, come questo, i meno probabili, devo dire che ero l'unica persona della famiglia a non avere il passaporto; pertanto, lo chiesi di urgenza perché non si poteva certamente, a cuor leggero, scartare nessuna delle ipotesi che venivano fatte. Naturalmente il passaporto non servì e, dopo qualche mese dalla conclusione della vicenda, fui convocato a Roma alla Procura della Repubblica da Gallucci che mi chiese perché volevo andare nello Yemen a trattare con i terroristi. Dissi che non volevo andare assolutamente nello Yemen a trattare con nessun terrorista e gli chiesi come ciò gli risultasse. Egli mi disse che avevo chiesto un passaporto ed io risposi che l'avevo fatto non certo per andare nello Yemen; non c'era un visto per lo Yemen e non c'era nessuna intenzione in tal senso. Egli mi comunicò allora che c'era un'informativa dei Servizi segreti secondo la quale era mia intenzione recarmi nello Yemen per intavolare attraverso gli yemeniti una trattativa con le Brigate rosse. Notizia totalmente inventata che però, naturalmente, essendo un'informativa dei Servizi segreti divenne un verbale di interrogatorio, un atto pubblico che poi ho visto pubblicare a varie riprese nel corso di questi anni (soprattutto da l'Espresso che aveva puntato molto su questo aspetto). Perché Giovanni Moro voleva andare nello Yemen? Quali erano i suoi contatti, i suoi rapporti? Non c'era nessun contatto e nessun rapporto. Mi chiedo quale necessità vi fosse di inventare a tavolino, di sana pianta una storia come questa, se non perché c'era una qualche intenzione o un disegno di attribuire alla famiglia un attivismo che andasse al di là del fatto di chiedere, protestare, reclamare, sostenere e appoggiare chiunque avesse qualche proposta, idea o iniziativa da prendere. Perché? Non ce n'era alcuna ragione. Si era chiusa la vicenda. Ho voluto ricordare questo episodio assolutamente ridicolo perché è ridicolo il fatto in sé; infatti se qualcuno avesse voluto intavolare una trattativa non sarebbe andato in prima persona nello Yemen con il seguito di giornalisti, delle forze dell'ordine, delle telecamere e così via. E una cosa assurda. Questo solo per dire qual era il clima, e come è stato l'atteggiamento al riguardo.
Circa il problema della famiglia, o del "partito della famiglia" come ho letto da qualche parte, non ci fu nessuna attività da parte della famiglia, ma vi fu quella nota, evidente ed ovvia nei limiti delle possibilità che vi erano, di raccogliere informazioni, proposte d'azione e proposte di intervento, di caldeggiarle e sostenerle. Tutte cose abbastanza ovvie ma che, purtroppo, in linea di massima si rivelarono abbastanza inutili perché il problema era da un'altra parte e l'interlocutore non era la famiglia.
PRESIDENTE. Penso che questa sarà una domanda che le verrà rivolta. Vi sono fatti che riescono a spiegarsi solo con il cosiddetto canale di ritorno. C'è, per esempio, una lettera di suo padre in cui parla di una posizione assunta all'interno di una riunione riservata della Democrazia Cristiana che in particolare riguardava Misasi. Diciamo che non siamo stati ben impressionati dal fatto che Don Mennini abbia rifiutato di essere ascoltato dalla Commissione. Aggiungo che lo stesso Corrado Guerzoni, sentito dalla Commissione, ha ritenuto possibile che addirittura Don Mennini abbia potuto vedere suo padre durante i giorni della prigionia.
MORO Giovanni. Questo naturalmente non lo posso escludere, ma non è assolutamente nelle mie conoscenze; del resto, vivendo ventiquattro ore al giorno tutti nello stesso posto, ritengo abbastanza improbabile che ciò potesse avvenire su diretto impulso da parte nostra, senza che io lo sapessi e francamente non vi sarebbe ragione di non dirlo se così fosse stato. Se avessimo potuto, lo avremmo fatto. Se fosse stato utile andare nello Yemen, ci sarei anche andato.
PRESIDENTE. Pensavo anche al fatto che la famiglia potesse non aver fornito tutte le informazioni agli apparati di sicurezza perché non se ne fidava, cioè che ci potesse essere pure da parte della famiglia la preoccupazione che un'azione di forza volta alla liberazione dell'ostaggio potesse concludersi tragicamente.
MORO Giovanni. Diciamo che questa preoccupazione era nell'ordine delle cose possibili, ma non era tra quelle più gravi che avevamo, perché ovviamente era subordinata a molte altre condizioni che non si verificarono mai. Che non ci fosse un rapporto di fiducia mi pare evidente, è nelle cose e chiunque si ricordi di quel periodo e ritorni con la memoria al clima di quel periodo ricorderà la sensazione che era qualcosa di più di una sensazione, come accertò subito la prima Commissione parlamentare che si costituì. Che le attività di indagine fossero assolutamente al di sotto della situazione era evidente. Non c'era una volontà che diventava concreta. Forse c'era una volontà astratta di fare qualcosa di utile. Non c'era certamente da parte nostra una grande fiducia, questo no. Ma non si verificò il fatto di tacere informazioni rilevanti, che del resto non avevamo in più rispetto a quelle che possedevano le autorità.
PRESIDENTE. Nelle vicende di sequestri - e qui abbiamo un commissario che è particolarmente esperto della materia, il senatore Pardini che se ne è occupato in Commissione antimafia - questa dialettica del rapporto famiglia-apparati di sicurezza è spesso ricorrente. Spesso i familiari dell'ostaggio non dicono tutto quello che sanno alla polizia perché temono che ciò possa far precipitare le cose.
MORO Giovanni. Capisco la domanda, ma per la percezione che avemmo noi all'epoca non si arrivò mai a questa eventualità. Ci fu soltanto (ed emerse poi nel corso degli anni anche sulla stampa) un momento, una mattina, un giorno in cui si disse che sembrava che fosse stata trovata la prigione e che si erano preparati dei corpi speciali, che c'era un ufficiale di questi corpi pronto a gettarsi sull'ostaggio per fare scudo con il suo corpo proprio in relazione a questi eventuali pericoli che lei, signor Presidente, sottolineava, ma fu una cosa che durò tre ore come possibilità e poi non diventò più una cosa concreta. Questa preoccupazione capisco che in altre circostanze vi possa essere, ma in altre circostanze i rapitori si rivolgono alla famiglia perché sono interessati ad avere un riscatto, non si rivolgono allo Stato o al partito di maggioranza relativa perché vogliono un riconoscimento politico.
PARDINI. Proprio perché mi sono occupato per mesi di sequestri mi colpisce questa cosa: erano gli anni in cui i sequestri (pochi anni dopo) toccarono vertici straordinari, quindi c'era anche un'esperienza tecnica, maturata sul campo dalle forze di polizia, di ricerca che non era da poco. In questo caso, però, la cosa è completamente diversa perché, mentre in un caso di sequestro tradizionale, la famiglia ha dei suoi canali e sviluppa una sua indagine ed una sua trattativa, fa delle ricerche proprie attraverso emissari e canali paralleli, il motivo per cui si ingenera la sfiducia è proprio perché la famiglia ha tutta una sua attività parallela. Il caso vostro invece in teoria era - se si potesse riprodurre in laboratorio un caso di sequestro ideale - opposto, perché voi non avevate un'attività parallela ed il tipo di collaborazione inquirenti-famiglia doveva essere ai massimi livelli. Mi colpisce e mi piacerebbe capire un po' meglio il tipo di collaborazione quotidiana che le forze investigative vi davano, perché in effetti in quegli anni era maturata nella polizia e nei carabinieri e negli apparati che indagavano nei sequestri una grande esperienza di collaborazione anche della famiglia, di assistenza, cosa che, da quello che ho potuto leggere, nel caso Moro non si è assolutamente mai sviluppato, in maniera abbastanza bizzarra perché (al di là delle implicazioni politiche che evidentemente rendevano il caso completamente diverso) era un caso di sequestro da seguire. L'altro aspetto è quello cui accennava prima il Presidente; non vi è mai stata ventilata o voi non avete mai proposto questa strada che, in altri casi di sequestro, sembra essere stata per certi versi anche ammessa, anche se non sotto la forma del pagamento del riscatto ma del pagamento delle informazioni. Sappiamo che in alcuni casi di sequestri clamorosi lo Stato italiano ha pagato non i rapitori, ma degli informatori per giungere ai rapitori; questo è ufficiale e dimostrato. Nel caso di suo padre questo tipo di rapporto non si è sviluppato.
MORO Giovanni. No, non si è sviluppato affatto. Diciamo che nei contatti con le autorità l'ipotesi di un riscatto in denaro fu ventilata tra quelle possibili, nel senso che le autorità dicevano che se fosse stato quello il problema non ci sarebbe stata nessuna difficoltà; e questo era vero, non era quello il problema. Circa i nostri contatti con le autorità, c'erano dei contatti con il Ministero dell'interno, in particolare tramite l'onorevole Lettieri, che periodicamente ci informava sugli sviluppi della situazione. Naturalmente non era per lui un compito molto grato questo, quindi non era una cosa facile perché ciò su cui aveva da riferire erano purtroppo cose molto balzane, ad esempio, che Aldo Moro era stato visto a Malta su una barca oppure il pochissimo che si stringeva. Così noi, man mano che arrivavano lettere e segnalazioni... naturalmente può immaginare cosa si scatenò dal punto di vista dei mitomani e delle segnalazioni bislacche e forse anche alcune più serie. Quelle che ci sembravano più serie le trasmettevamo; in certi casi poi ci si diceva che era stata fatta una verifica e come le cose erano andate a finire, eccetera. Il rapporto si limitava sostanzialmente a questo. Naturalmente avendo poco o nessuno spazio sul fronte delle trattative ciò su cui insistevamo - ed era questo il poco spazio di cui disponevamo - era che ci fosse una trattativa politica, nel senso che si prendesse sul serio il problema di intavolare una trattativa politica.
PRESIDENTE. Poiché il riscatto che veniva chiesto era un tipo di riscatto che la famiglia non poteva pagare...
MORO Giovanni. Alla famiglia non è mai stato chiesto nulla. Ricordiamo che la prima lettera fu indirizzata al Ministro dell'interno ed era chiarissimo che era quella l'interlocuzione. Cioè, la famiglia veniva rassicurata all'inizio sulle condizioni di salute e poi, man mano che la situazione diventava più difficile, perché si chiudevano le...
PARDINI. Voi avete avuto contatti solo con i canali istituzionali? Non avete mai provato a sviluppare un vostro filone d'indagine?
MORO Giovanni. Noi non potevamo fare niente. Stavamo chiusi in quella casa da due mesi perché non c'era nessuna agibilità. Abbiamo cercato di spronare, assecondare e confortare chi magari veniva e diceva, che fosse il PSI o chi voleva parlare con l'OLP, oppure con l'avvocato svizzero della RAF. Chiunque fosse. Chi poneva il problema di coinvolgere la Croce Rossa Internazionale, che aveva la possibilità nel suo statuto di dare questi riconoscimenti extra-territoriali, oppure, negli ultimi giorni, quest'idea della grazia ad un brigatista. Insomma, sostanzialmente tutto ciò che veniva nelle relazioni amicali, politiche e di vario genere che si sviluppavano in quei giorni a casa nostra. Noi naturalmente dicevamo a tutti: "fate"; perché non avremmo dovuto? Ma che ci sia stata un'iniziativa per cercare un informatore, un mediatore o un tramite lo posso escludere. D'altra parte, all'inizio del sequestro, ricordiamolo, ci fu un tentativo fatto dalla Charitas internazionale. Mia madre, accompagnata, se non ricordo male, dal dottor Guerzoni si recò nella sede della Charitas internazionale; doveva arrivare una telefonata e sembrò che arrivasse ma poi questo interlocutore mise giù il telefono e non arrivò più nulla. Quindi anche questo tentativo, fatto di concerto con le autorità, di identificare una sede di mediazione, di discussione e di comunicazione nei primi giorni fallì, perché loro non la volevano, questo era evidente.
Ho detto della famiglia, poi naturalmente sono qui a disposizione per ulteriori approfondimenti su quello che voi riterrete più utile. Per quanto riguarda il mio punto di vista e le mie considerazioni, oggi, dopo vent'anni, io credo di capire il senso con il quale il presidente Pellegrino dice che gran parte della verità è stata conseguita. Io devo dire, sicuramente da un altro punto di vista - questa non è una polemica ma un confronto di idee, di percezioni della realtà e anche di ruoli - che la mia impressione è che dopo vent'anni noi forse abbiamo una percezione più profonda di quanto siamo lontani dalla verità. Devo dire che questi vent'anni e il materiale che molto faticosamente è venuto fuori in questo arco di tempo, anche le analisi, le ricostruzioni, fatte non solo in Italia, dei processi che ci sono stati, del materiale istruttorio, dei dibattimenti eccetera, danno l'idea che davvero noi abbiamo su questa vicenda ancora un rilevante problema di conseguire la verità. Le ricostruzioni che sono state fatte in sede giudiziaria e che sono state alla base dei giudizi delle corti sono emerse come largamente inattendibili, così come lo sono state le informazioni date a rate dai terroristi, che fossero pentiti, dissociati o di altro genere. Così come sono emerse inerzie e resistenze da parte degli apparati pubblici a contribuire a chiarire punti e situazioni che li riguardavano. Mio zio Carlo ha scritto un libro lo scorso anno, mettendo in fila alla fine 21 domande, cioè 21 punti e contraddizioni; non so se l'abbiate sentito ma comunque la sua è una analisi del materiale giudiziario molto lucida, anche distaccata, molto giudiziaria e molto legata alla verità giudiziaria. Insomma, noi non sappiamo perché quel giorno erano sicuri che arrivassero in via Fani. Non sappiamo perché ha sparato più della metà... potrei fare un elenco ma ve lo risparmio.
PRESIDENTE. Sua madre, quando venne ascoltata dalla Commissione Moro, ritornò più volte sul fatto che tutta la scorta fu sterminata, addirittura con la logica di alcuni colpi di grazia. Quindi, nel momento in cui non c'era più la necessità militare di rendere inefficace la scorta furono però uccisi tutti gli uomini della scorta. La mia spiegazione, sicuramente sbagliata, è che ciò avvenne perché avevano timore di essere riconosciuti; tenendo però presente che agirono tutti a viso scoperto e in presenza di moltissimi spettatori, questa preoccupazione non regge. Quindi, sembrerebbe che sua madre, che non dà la risposta, voglia dire forse che c'era la preoccupazione che, sopravvivendo alcuni uomini della scorta, da lì potesse nascere anche sulla chiave del ricordo la certezza dell'itinerario. Cioè che gli uomini della scorta sono stati uccisi perché, se fossero sopravvissuti, avrebbero potuto dar risposta a questo primo interrogativo: per quale motivo i brigatisti sembrano sicuri che in quel giorno si passa da via Fani.
MORO Giovanni. Che lo fossero mi sembra ovvio... Cioè non hanno tagliato le gomme del pulmino del fioraio dieci giorni prima; lo hanno fatto la sera prima. Una cosa come quella non si fa tutti i giorni fino a che la persona non passa di lì.
PRESIDENTE. Soprattutto non vestiti da ufficiali...
MORO Giovanni. Sì, è un apparato. Non si monta un apparato comunque estremamente complesso; questa può essere la spiegazione della eliminazione degli uomini della scorta in questione.
PRESIDENTE. Era la spiegazione implicita nelle cose dette da sua madre, la quale spesso si domanda il motivo per cui hanno uccisi tutti gli uomini della scorta. Se li avessero lasciati a terra gravemente feriti non sarebbe infatti cambiato niente.
MORO Giovanni. Potrebbe esserci una spiegazione politica, militare oppure quella indicata. Forse è questo il dubbio di mia madre nel porsi questa domanda. Resta il fatto che come facevano a sapere che sarebbe passato lì quella mattina, chi sparò con una unica arma - non trovata - più della metà dei colpi che furono poi quelli risultati fatali? Le macchine, il trasporto, il trasbordo da un'auto all'altra; le spiegazioni, le informazioni peraltro contraddittorie date a varie riprese dai terroristi non stanno in piedi; quali o quante siano state le prigioni; quale sia stata la logica che ha mosso certe strategie di gestione da parte di terroristi dell'evento; la decisione clamorosa - credo da tutti i punti di vista - a cui non si riesce davvero a trovare una spiegazione, del perché le parti più calde, più dure con effetti potenzialmente più devastanti del memoriale e degli scritti dal carcere non furono rese pubbliche; dato che l'intento era quello di destabilizzare, per quale ragione ciò non sia stato fatto, fino ad arrivare al perché fu presa la decisione di ucciderlo in quel momento, visto che - come tutti sappiamo - quella mattina ci sarebbe dovuta essere e ci sarebbe stata - questa cosa era ampiamente nota - questa inversione di tendenza nella politica della Democrazia cristiana, che era esattamente ciò che veniva richiesto. Quindi, questi dubbi restano così come sono consistenti i dubbi sulla prigione o le prigioni e sull'itinerario.
PRESIDENTE. Se è, ad esempio, credibile che l'abbiano ucciso in via Montalcini e abbiano assunto tutti i rischi nel riportarlo fino a via Caetani.
MORO Giovanni. Quale consistenza ha l'altra ipotesi, dell'altro appartamento nel centro di Roma, peraltro collegato a quanto sembra tramite le società proprietarie, con un gruppo di appartamenti di via Gradoli; sono cose che sapete meglio di me. Certamente, vi sono dubbi sul modo, sulle strategie di conduzione delle indagini durante il sequestro. Lei, signor Presidente, ha fatto riferimento a quante occasioni furono sprecate durante i 55 giorni; furono unira di Dio, se è vero che alcuni terroristi venivano pedinati già durante il sequestro.
PRESIDENTE. Il momento in cui viene individuata la stessa Braghetti è ad esempio molto dubbio: anche nella inchiesta recente del giudice istruttore di Venezia Mastelloni vi sono alcuni spunti che riguardano la vicenda di cui ci stiamo occupando, che tendono a retrodatare il momento della identificazione della Braghetti come una delle abitanti di via Montalcini in un'epoca precedente all'uccisione di suo padre; quindi, all'interno dei 55 giorni del sequestro o addirittura prima.
MORO Giovanni. Credo che questo sia un bel problema da chiarire; ma anche semplicemente le carte che esistevano a via Gradoli avrebbero, se lette, portato alla tipografia di via Pio Foà; la conduzione, infine, delle indagini durante e dopo il sequestro.
PRESIDENTE. Le indagini diventano poi efficacissime a trovare le carte di via Monte Nevoso. La rapidità con cui si arriva al covo di via Monte Nevoso a Milano è inversamente proporzionale alla inefficienza dimostrata prima. Ma qual è la spiegazione che dobbiamo darci? Quando ho detto che buona parte della verità si conosce non escludo il fatto che le tessere mancanti siano quelle che possono dare un senso più completo al quadro.
MORO Giovanni. Come tutti, mi sono interrogato molto, in seguito, sulla gestione fatta dei terroristi, fossero essi pentiti, dissociati o irriducibili; la gestione in cui si sono intrecciati; sono cose queste che si sono venute a sapere nel corso degli anni successivi; gli interventi di personaggi, di partiti, di pezzi di partiti, di servizi oltre alla magistratura che propriamente aveva questo compito. Bisogna pure interrogarsi sul perché, pur con così poca intensità, si siano perseguite cose sacrosante; per esempio l'estradizione di Lojacono e di Casimirri, in particolare anche in relazione a quanto è stato detto qui, e di cui qualche intuizione si aveva, già prima che il dottor Marini si recasse qui per rilasciare dichiarazioni: questo personaggio va in Nicaragua e, fingendosi un altro, acquista la cittadinanza; fa un giro complicato per arrivarci; ad un certo punto sembra debba tornare e poi non lo fa più. Il nostro paese ha azzerato il debito del Nicaragua nei suoi confronti - ed è giusto - ma forse qualcosa dovremmo chiedere. Capisco che possa non esserci un grande trasporto del Governo nicaraguense o delle autorità del Nicaragua per fare una cosa di questo genere, ma alla fine credo debba farci riflettere la sensazione che si sia voluto in questi venti anni chiudere la vicenda non con una verità di fatto, alla luce di ciò che è emerso dopo, ma con una verità di comodo - utilizzo questa espressione non in modo polemico ma prendendo atto dei fatti - perché non era vera; era di comodo sia sul versante dei terroristi sia sul versante degli apparati dello Stato. Un altro aspetto che mi fa molto pensare è come l'emergere di così tante falle, nelle spiegazioni ufficiali, non suscitino un allarme spontaneo. Questi appartamenti di via Gradoli erano o non erano di proprietà di una società collegata al servizi di sicurezza?
PRESIDENTE. E vero, ma vi è stato un grosso equivoco nel modo in cui la cosa è stata presentata; non è al SISDE che bisognerebbe guardare ma al Viminale, in quanto il SISDE nasce in quel periodo; quindi, è chiaro che se vi erano legami precedenti questi portano molto di più a D'Amato, alla struttura degli Affari Riservati del Viminale; più al padre del SISDE che al figlio.
MORO Giovanni. Non discuto questo aspetto, ma sul fatto che non si senta l'urgenza di chiudere una questione aperta di questo genere, accertandola; così come nel corso dell'anno passato - 1998 - in relazione al ventennale sono emerse una massa di fatti, di ipotesi, di notizie più o meno controllate, credibili, verosimili ma tutte, oltre una certa soglia, meritevoli di un accertamento definitivo. Me ne è passata una davanti proprio in questi giorni: Panorama lo scorso maggio dà la notizia che nel 1990, venendo il Presidente della Cecoslovacchia Havel in visita in Italia, come manifestazione di volontà di dare una svolta ai rapporti, porta un voluminoso dossier sulle Brigate rosse, concernente il ruolo avuto dalla Cecoslovacchia nella gestione delle Brigate rosse e sulla vicenda Moro. Questo dossier c'è o non c'è? A chi è stato consegnato? Non è possibile che oltretutto riguardando un capo di Stato straniero questa cosa possa rimanere senza risposta. E solo un esempio, o c'era questo dossier o no; se esisteva, da qualche parte e a qualcuno deve essere stato dato per cui gradiremmo, se esiste, conoscerne il contenuto. L'impressione è che vi sia un atteggiamento di resistenza di fronte alla enorme quantità di fatti che smentiscono la verità, costruita nel corso degli anni, ufficiale, di comodo; è anche una verità dei terroristi, non solo pubblica; è quanto poco ci si sia impegnati per venire a capo di questi fatti.
Senz'altro la Commissione ha dato un contributo in tale direzione, per quanto ho potuto seguire il suo lavoro. In generale, però, devo dire che non si è avvertito il senso dell'urgenza di togliere le macchie, le ombre, accertando se questi fatti che man mano emergevano fossero veri, falsi, meritevoli di essere presi sul serio o meno. Questo non suscita in me pensieri positivi, signor Presidente, anche se capisco che la tendenza è quella di dire: abbiamo tanti problemi oggi, figuriamoci se dobbiamo occuparci di quelli di ieri. Ciò è comprensibile, però torno a quanto dichiarato all'inizio: o ci liberiamo con la verità di tale vicenda, oppure questa ci inseguirà per sempre. Non usciremo da questa transizione finché resta il peso di una vicenda come questa, o di altre analoghe, naturalmente.
PRESIDENTE. Questa è la domanda che stavo per farle: lei ritiene che la parte di verità che manca, che potrebbe dare risposta a buona parte di quegli interrogativi, sia una verità che si chiude nella vicenda di suo padre o la sua indicibilità, la difficoltà di ammetterla e di riconoscerla sta nel fatto che la vicenda di suo padre si collega ad una serie di fatti non chiariti? Cioè, essa può essere il punto di arrivo in cui una serie di vicende sotterranee della vita precedente del Paese poi trovano un loro momento di emersione? La verità non può stare - è il mio convincimento che non impegna certo la Commissione - nelle parti del memoriale di suo padre che egli dedica alla strategia della tensione? In altre parole, tra la strage di Brescia e la vicenda Moro passano solo quattro anni. Suo padre parla anzitutto di una strategia della tensione che aveva un obiettivo politico; parla di responsabilità istituzionali italiane ed estere e parla di connivenze ed indulgenze da parte di settori del partito. Non può essere che la parte di verità che manca al caso Moro in realtà si colleghi talmente strettamente a queste che, qualora facessimo chiarezza su di esse, faremmo chiarezza su tutto?
MORO Giovanni. Anzitutto, bisogna far rilevare che la stessa vicenda politica di Aldo Moro è intrecciata a queste vicende, quindi non dobbiamo necessariamente cercare una spiegazione al di fuori.
PRESIDENTE. Dalle carte di suo padre non è emerso niente che possa riguardare il periodo precedente e che potrebbe poi servire a dare un filo da seguire?
MORO Giovanni. No, che a me risulti non vi è nulla, almeno in quelle in suo possesso. Poi vi è naturalmente la documentazione che ha lasciato a Palazzo Chigi, alla Farnesina, eccetera, cioè nelle varie sedi in cui ha operato nel corso degli anni. Ma certamente, se vogliamo dare un'interpretazione più da lontano a tutte queste vicende, non possiamo che riconoscere in Aldo Moro una personalità politica o forse il catalizzatore di un tentativo di "far cadere il muro", come ha scritto qualcuno, con anticipo, cioè di superare quella condizione di democrazia difficile o bloccata per l'impossibilità di avere alternative nella guida di governo che l'Italia viveva in relazione alla sua collocazione internazionale. Questo certamente è stato il senso della sua opera politica all'interno e anche del suo lavoro come Ministro degli esteri. Ricordiamo che Moro è colui che firma nell'agosto 1975 il trattato di Helsinki, che in fondo rappresenta la prima "mina" messa sotto il muro, cioè è l'inizio del processo per cui il muro poi crollerà anni dopo. Quindi, stiamo parlando di un personaggio che indubbiamente era a rischio: lo era personalmente, lo era per ragioni politiche.
PRESIDENTE. Questa posizione politica chiaramente si intreccia con quelle vicende. Per esempio, a mio avviso, le pagine del memoriale sembrano suggerire abbastanza chiaramente che lui torna da Parigi con qualche cautela dopo la strage di piazza Fontana - è quanto ci è stato confermato recentemente in questa sede da Ancora e da Barca - e che probabilmente impedisce che venga dichiarato lo stato di emergenza.
MORO Giovanni. Sì, anch'io ne ho sentito parlare: è verosimile, cioè rientra in una strategia, quella di evitare che il paese risolvesse i suoi problemi con una svolta autoritaria.
PRESIDENTE. Ma lui, nei suoi ricordi, aveva mai preoccupazione che questa posizione politica lo mettesse addirittura a rischio personale?
MORO Giovanni. Certamente, questa era una cosa normale, faceva parte della vita quotidiana il fatto che vi fosse tale possibilità. Noi stessi, come figli, a partire dalla fine del 1976, eravamo tutti scortati.
PRESIDENTE. Ancora invece ci ha descritto una situazione più idilliaca, di maggiore tranquillità.
MORO Giovanni. Sull'altra cosa non ricordo, dovrei effettuare una verifica, ma su questo si sbaglia proprio. Ritengo che faccia molta più fede la testimonianza che Guerzoni ha dato in questa sede. Non c'è paragone.
PRESIDENTE. Tutto sommato, la lettura che Guerzoni ha dato dell'intera vicenda, lei la trova verosimile o probabile? E stata definita una "mascalzonata politica" in questa stessa Commissione.
MORO Giovanni. Come ho già detto all'inizio, sono la persona meno indicata per dare delle interpretazioni. Senza dubbio quelle proposte come ricostruzioni finali di questa vicenda non spiegano una tale messe di fatti, di eventi, di circostanze, di ragioni, mascalzonata o non mascalzonata.
PRESIDENTE. Politica.
MORO Giovanni. Sì, politica. L'interpretazione di Guerzoni ha comunque il pregio di rispondere a questi fatti non spiegati altrimenti. Poi, che sia la spiegazione giusta o meno...
PRESIDENTE. E comunque una valutazione che abbiamo dato noi; personalmente l'ho data io come spiegazione possibile, logica, alla luce della quale torna una serie di cose, però rispetto alla quale non abbiamo ancora elementi concreti per poter dire che la spiegazione sia quella.
MORO Giovanni. Le altre, però, non danno una spiegazione. Quindi un vantaggio relativo lo possiamo attribuire a questa interpretazione.
PRESIDENTE. I commissari che intendono porre dei quesiti hanno facoltà di parlare.
MANCA. Professor Moro, vorrei brevemente toccare due capitoli: servizi segreti e seduta spiritica di via Gradoli. I primi, perché più volte tornano alla ribalta in questi giorni, nella ricostruzione sia in sede giudiziaria sia in Commissione, almeno relativamente ad alcuni di noi. Ugualmente la seduta spiritica, perché anch'essa è tornata alla ribalta. E vero quindi che lei in premessa ha detto che si vuole attenere ai fatti, però la prego di capire il nostro ruolo, e glielo chiedo come aiuto per interpretare questi due capitoli. In particolare, qual è il suo parere sul ruolo svolto dai Servizi segreti nella vicenda Moro e se si sapeva qualcosa in famiglia circa le preoccupazioni o comunque la valutazione che nutriva suo padre sulla scarsa collaborazione dei Servizi statunitensi a proposito del terrorismo italiano. Riguardo alla seduta spiritica, lei concorda sulla casualità della vicenda oppure lei ritiene che sia stata una messinscena per coprire la fonte del nome Gradoli? Ho letto da qualche parte che sarebbe stata proprio sua madre a dire che Gradoli corrispondeva al nome di una strada. Peraltro lei stesso abita da quelle parti, quindi vicino a via Gradoli.
MORO Giovanni. Sui Servizi segreti, al di là del divertente episodio raccontato all'inizio, non sapevamo di questi rapporti con i Servizi stranieri, cioè non avevamo tanti interlocutori, avevamo un unico interlocutore: l'apparato dello Stato con le sue forze, eccetera. Quindi non era facile distinguere l'azione di uno o dell'altro, anche perché - almeno questo era quello che appariva - si era stabilita una sorta di unità nella gestione di tutte le forze di sicurezza e quindi anche dei servizi. Questo è quello che noi percepivamo. Onestamente non potrei dire altro.
Per quanto riguarda via Gradoli, la mia opinione dell'epoca - che è anche la mia opinione di oggi - è che vi fosse stata una soffiata che era stata coperta in questo modo. Che poi fosse una cosa su cui tutti erano d'accordo, o che uno dei presenti soltanto lo sapesse o che veramente la seduta spiritica avesse funzionato, non lo so. Certo è comunque - lo sapete meglio di me - che ci sono altre fonti che prima indicavano via Gradoli, non c'era bisogno della seduta spiritica. Una l'ha ricordata il presidente Pellegrino (quella di Cazora), l'altra è quella di Labruna, se non ricordo male.
PRESIDENTE. Non l'ho ricordata perché Labruna non fornisce alcun riscontro oggettivo, dato che le attribuisce ad un morto e a un funzionario di polizia che dice di non ricordarsi l'episodio.
MORO Giovanni. Questo almeno risulta dai giornali e dalle dichiarazioni. Questa Gradoli comunque era già un luogo "caldo". Per quanto riguarda la carta, è vero. Ai primi di aprile, quando ci fu la notizia che la seduta spiritica aveva indicato Gradoli e si erano svolte ricerche infruttuose in quel paese, dicemmo all'interlocutore del Ministero dell'interno che forse era il caso di verificare se tante volte non esistesse una via Gradoli a Roma.
PRESIDENTE. Dunque lei ci conferma un episodio che il Ministro dell'interno dell'epoca ha appassionatamente smentito.
MORO Giovanni. Lo ripeto. Non c'è nessun problema.
PRESIDENTE. Dunque la famiglia segnalò che era necessario accertare anzitutto se Gradoli fosse il nome di una strada.
MORO Giovanni. Ci fu risposto che non si trovava nello stradario. Invece c'era. Questa strada esisteva da anni.
PRESIDENTE. Il Ministro invece lo ha negato in questa sede sostenendo che era doloroso dire che la signora Moro non avesse detto la verità, però che l'episodio non era assolutamente vero.
MORO Giovanni. L'ho saputo. Onestamente via Gradoli è una piccola traversa della via Cassia a vari chilometri dal centro, si tratta - se non ricordo male - di una via cieca non proprio dietro l'angolo, però non c'è dubbio che sullo stradario c'è. Comunque non ci sono mai stato.
MANCA. Io abito proprio lì. Per Roma è dietro l'angolo, anche se tutto è relativo.
PRESIDENTE. Il fatto strano e che mi fa pensare a una deliberata copertura della fonte è che i professori che hanno partecipato alla seduta non sono venuti uno per uno a dirci di non aver spinto il piattino e di non sapere se l'avesse spinto qualcun altro, invece ognuno giura su tutti gli altri.
MORO Giovanni. Mi è già capitato di dire in un'altra circostanza che il vero problema di quella seduta spiritica non è se fosse vera o meno, ma perché, una volta emerso il nome, non siano stati compiuti accertamenti, perché le forze dell'ordine non siano andate a via Gradoli o se l'hanno fatto...
FRAGALA. Perché la soffiata fu un depistaggio.
PRESIDENTE. La tesi dell'onorevole Fragalà è la più grave di tutte, cioè che la soffiata riguardasse Gradoli, nella zona di Bolsena, perché l'operazione di polizia in quel paese servisse a dare l'allarme agli occupanti di via Gradoli che, infatti, dopo poco abbandonarono il covo.
MORO Giovanni. Per carità, questo può essere vero. Tuttavia penso che dovrebbe essere normale per le forze di polizia, dopo una segnalazione come questa, quando Roma ha una via Gradoli, procedere ad una verifica. Mi riesce difficile ancora oggi a distanza di vent'anni pensare che quando arriva una segnalazione su un paese Gradoli una forza di polizia, qualunque essa sia, vada a Gradoli a verificare e poi non si preoccupi di riscontrare se esiste una via Gradoli in città. Questo credo si possa dire. Poi, per quanto riguarda via Gradoli ci sono tante interpretazioni: chi parla di una spaccatura all'interno delle Brigate rosse, chi parla di interferenza.
PRESIDENTE. Una delle interpretazioni possibili è che fosse un modo per l'ala trattativista di "bruciare" Moretti, cioè si dà l'informazione per far catturare Moretti.
MORO Giovanni. Questa è una delle interpretazioni. C'è invece chi dice che si trattava di un avviso ai brigatisti di non essere liberi, che abbinato al comunicato del lago della Duchessa avrebbe dato anche un'indicazione su come doveva andare a finire la vicenda. Onestamente non lo so.
MANCA. Vorrei tornare brevemente sul problema dei Servizi segreti. Vorrei sapere se alla famiglia era nota questa valutazione negativa dell'onorevole Moro sul ruolo svolto dai Servizi segreti americani per quanto riguarda la collaborazione in materia di terrorismo. C'è un episodio rimasto alla storia, un colloquio tra suo padre e l'ambasciatore Gaja, al quale aveva confidato questa preoccupazione. Tanto è vero che quando l'ambasciatore andò negli Stati Uniti ne parlò con la CIA. Le risulta questa preoccupazione o questa valutazione negativa di suo padre nei riguardi del ruolo svolto dalla CIA, per parlare in forma diretta?
MORO Giovanni. No, ma onestamente non c'era un trasferimento dei fatti pubblici nella vita privata così ampio da arrivare a toccare un argomento come questo. Che lui in generale per la sua politica avesse difficili rapporti con gli Stati Uniti e che questi avessero un atteggiamento a dir poco molto critico nei confronti di quanto stava succedendo in Italia a causa sua, questo è un fatto noto e risaputo, che certamente travalica la questione del ruolo dei servizi segreti, che peraltro mi pare verosimile. Gaja è persona della massima credibilità.
PRESIDENTE. Come famiglia avete avuto più rapporti con l'onorevole Piccoli?
MORO Giovanni. Non eravamo una famiglia molto legata alle relazioni politiche. Non ne avemmo prima né le abbiamo avute dopo, anche se mia sorella è stata parlamentare e immagino ne avrà avute. Io stesso sono vent'anni che a mio modo sto nella vita pubblica e ho conosciuto tante persone, ma...
PRESIDENTE. Ho formulato questa domanda perché l'onorevole Piccoli fu sentito in altre legislature da un comitato di questa Commissione. Lui descrive un identikit estremamente preciso del quarto uomo di via Montalcini che somiglia a Germano Maccari come io posso assomigliare al senatore Manca. L'identikit dell'onorevole Piccoli non si attaglia affatto a Germano Maccari, perché lui descrive un vip culturale della sinistra, quello che Scelba avrebbe definito "culturame", come un uomo vicino alle Brigate rosse. L'identikit è così preciso che sembra quasi solo mancare il nome. E difficile descrivere così bene una persona senza sapere chi è. Voi non avete mai avuto...
MORO Giovanni. No.
PRESIDENTE. Quindi lei non ci può dire chi fosse l'uomo a cui pensava l'onorevole Piccoli?
MORO Giovanni. Assolutamente no. Non ne ho proprio la minima idea.
PRESIDENTE. Ripeto: se lei lo legge, fa impressione; io l'ho riletto proprio in questi giorni. Viene descritto: è un uomo così, viene da quest'ambiente, ha questo tipo di formazione. Lui gli attribuisce quello che è il grande problema che ha posto poi Biscione: cioè le domande a cui il memoriale risponde non sembrano appartenere alla cultura brigatista. Addirittura la risposta che danno i brigatisti, che sostengono di non aver pubblicato il materiale perché non gli interessavano tutte quelle storie, lascia irrisolta poi una domanda banale: "Ma se non vi interessavano, perché gliele chiedevate?" Perché è evidente che le domande gli vengono poste. Addirittura l'incipit della risposta, in alcune, è: "Capisco che cosa volete dire, però...".
MORO Giovanni. E chiaro. Del resto, al di là di Piccoli, molti hanno ipotizzato attraverso un maggiore o minore collegamento con i fatti o con l'analisi - magari - dei testi che ci fosse una persona, per l'appunto, di livello culturale più alto e di visioni più ampie...
PRESIDENTE. Ai brigatisti perché doveva interessare la vicenda della Montedison, di Medici e così via? Era completamente al di fuori del loro interesse!
MORO Giovanni. Non ho mai avuto occasione di parlare con Piccoli di una cosa del genere.
FRAGALA. Professor Moro, innanzi tutto la ringrazio per la disponibilità che lei sta mostrando nei confronti della Commissione ed anche per le cose che ha detto. Personalmente domani mi farò carico di presentare un'interrogazione urgente al Presidente del Consiglio dei Ministri per far luce su questo episodio che lei ha raccontato, quello di Havel: cioè se l'anno scorso...
MORO Giovanni. Nel 1990!
PRESIDENTE. Credo che siamo tutti d'accordo. Anch'io scriverò una lettera al Presidente del Consiglio per chiedere l'acquisizione agli atti.
FRAGALA. Perché a questa Commissione i rapporti fra i brigatisti e la Cecoslovacchia sono risultati da una serie di fonti sia documentali che testimoniali. La ringrazio anche per aver chiarito quella voce sullo Yemen che è andata in giro sui giornali per un po' di tempo. Le pongo innanzi tutto alcune domande su altre voci.
C'è stata una voce che ha sostenuto che l'onorevole Moro, durante la prigionia, chiese che gli venissero portati dei documenti che si trovavano nello studio di via Savoia. Questa voce è vera? Questi documenti che si trovavano nel suo studio, furono effettivamente trasmessi a suo padre, oppure è una voce infondata?
MORO Giovanni. Che io sappia, è del tutto infondata e conoscendo com'era il momento e il grado di controllo cui tutti eravamo sottoposti (anche gli appartamenti, e dunque anche lo studio di via Savoia), mi sembra difficile; ove ci fosse stata questa richiesta, sarebbe stato impossibile porla in atto.
FRAGALA. Una seconda cosa. E vero che cercaste un contatto a Bologna per fornire a vostro padre un'assistenza difensiva nel cosiddetto "processo" che subiva da parte delle Brigate rosse?
MORO Giovanni. Questa è la prima volta che lo sento. L'altra questione l'avevo sentita, ma questa mi è nuova del tutto. E chi doveva rappresentare questa assistenza?
FRAGALA. Doveva essere un avvocato di Bologna, che sarebbe stato incaricato, perché ci fu un certo momento in cui le Brigate rosse posero la possibilità che il prigioniero fosse assistito e difeso da un difensore.
MORO Giovanni. Non l'ho mai sentito!
PRESIDENTE. Dobbiamo pensare che il processo delle Brigate rosse attingesse a questo livello di civiltà?
FRAGALA. Come il processo al dittatore rumeno, dove l'avvocato difensore si alza per dire: "Signori giudici, condannate a morte il mio cliente, perché colpevole"! Passiamo ad altro. Professor Moro, cosa pensa oggi di don Mennini, alla luce di tutto quello che...
PRESIDENTE. Lei sembra non escludere che Don Mennini abbia avuto un contatto, professor Moro.
MORO Giovanni. Naturalmente non posso escluderlo, così come non potrei escluderlo per un'altra ventina o trentina di persone che avrebbero potuto essere coinvolte, perché magari allievi dell'università con i quali aveva rapporti, e di cui certamente aveva durante il sequestro l'elenco con i numeri di telefono (perché da lì furono chiaramente individuate alcune delle persone a cui furono recapitate le lettere). Non ho alcun elemento al riguardo né per dire di sì, né per di no: semplicemente non lo so.
FRAGALA. Ma lei, professor Moro, che valutazione fa di don Mennini?
MORO Giovanni. Non faccio alcuna valutazione: che valutazione dovrei fare? Mio padre aveva tanti allievi all'università. Lui era uno di quelli. Curava molto, ci teneva molto a questo rapporto con gli allievi: è una cosa acclarata, la si sa.
FRAGALA. Quindi lei non gli attribuisce un ruolo diverso rispetto a quello che comunemente si conosce?
MORO Giovanni. No, per quanto a mia conoscenza.
FRAGALA. Non so se lei ha letto un passaggio del libro di memorie, pubblicato di recente, del generale dei carabinieri Francesco Delfino. In una pagina che riguarda il sequestro di suo padre egli sostiene, attraverso una disamina di tipo sintattico e terminologico, che i primi comunicati delle Brigate Rosse sul sequestro di suo padre furono scritti da un agente russo del KGB, da un agente sovietico. Lei ha letto tale parte di questo libro? Vorrei conoscere la sua opinione al riguardo.
MORO Giovanni. Ci sono esperti di linguistica migliori nelle università di Roma. Come esperto di servizi e di intelligence, invece, il generale Delfino dà delle indicazioni molto precise.
PRESIDENTE. Fa tre nomi: la CIA, il KGB e il Mossad.
MORO Giovanni. Su questa seconda parte, viste le competenze del soggetto, credo che ci sia - magari - da guardare con più attenzione. Le competenze linguistiche direi proprio di lasciarle perdere.
PRESIDENTE. Nel libro c'è quest'idea dell'intreccio dell'intelligence: questo mi ha colpito! L'idea, cioè, che ci potesse essere un intreccio tra intelligence orientali, occidentali ed anche il riferimento al Mossad, che non è quello a cui si pensa normalmente. Se ci si getta ad indovinare, si può immaginare un intreccio tra CIA e KGB, ma qui, invece, l'intreccio è tra CIA, KGB e Mossad!
MORO Giovanni. Si può arrivare a queste conclusioni anche per via di un ragionamento politico, sugli avversari della politica domestica ed internazionale di Aldo Moro.
PRESIDENTE. Quello che veniva messo in discussione era soprattutto l'equilibrio di Yalta: non soltanto la fedeltà occidentale, quindi, ma l'equilibrio di Yalta nel suo complesso.
MORO Giovanni. Era l'equilibrio di Yalta. Infatti, l'atteggiamento nei confronti dell'eurocomunismo da parte dei dirigenti dell'Unione Sovietica era fortemente critico. Del resto Moro, come Ministro degli esteri, in tutti quei cinque anni in cui lo è stato, si è impegnato in modo molto forte per dare una soluzione alla questione palestinese.
PRESIDENTE. Questo spiegherebbe il riferimento al Mossad!
MORO Giovanni. Ho premesso che sto facendo delle considerazioni di carattere politico, che riguardano gli avversari della politica di Aldo Moro.
PRESIDENTE. Quindi è chiaro che lei non ha fatti su questo, ma sta facendo dei ragionamenti su quel che è noto.
FRAGALA. Professor Moro, come lei avrà saputo, la Commissione - nelle scorse settimane -, ha audito il dottor Ancora e il senatore Barca. La Commissione si è posta un quesito che adesso le rivolgo nella speranza che ci possa aiutare. Come è stato possibile che sia il dottor Ancora, che era uno stretto collaboratore di suo padre ed il tramite, forse l'unico canale con cui suo padre aveva contatti in pratica diretti con l'onorevole Berlinguer, sia il senatore Barca, che era da parte comunista il canale con cui Berlinguer teneva contatti con suo padre attraverso il dottor Ancora, per disposizione nettissima di sua madre furono subito, nei primissimi giorni del sequestro, estromessi da qualunque iniziativa riguardante il sequestro di suo padre, quando erano i due personaggi che potevano influire sull'onorevole Berlinguer affinché il Partito Comunista Italiano mutasse o mitigasse la sua posizione di intransigenza in merito alla conduzione del sequestro? Com'è potuto accadere che sua madre non ha aspettato qualche giorno che la situazione si potesse evolvere ed ha immediatamente e completamente tagliato i canali che legavano suo padre all'onorevole Berlinguer, i quali potevano influire sulla posizione del Partito Comunista Italiano?
MORO Giovanni. Innanzitutto penso che mia madre non sapesse nemmeno chi fosse l'onorevole Barca; penso che non conoscesse questo link che c'era e né io francamente ricordo una cosa così ultimativa e drammatica come vi è stata raccontata.
PRESIDENTE. Mi scusi, professore, ma sembra che Barca abbia subìto questo fatto come un trauma, come un'ingiustizia. Allora, bisognerebbe pensare che sia Pecchioli ad attribuire a sua madre una cosa che non aveva detto?
MORO Giovanni. Onestamente non credo che mia madre sapesse che i rapporti con il PCI venivano tenuti attraverso l'onorevole Barca; mi sembra assolutamente oltre i limiti del possibile. Quindi, se è un problema, ha riguardato Ancora e non Barca. Per quanto riguarda Ancora, ripeto che non ricordo una cosa - per così dire - da taglio della testa, come mi sembra vi sia stato detto. C'erano moltissime persone - collaboratori, amici, parlamentari e non, personaggi del Governo, magari Sottosegretari ed altre personalità - che erano amiche o collegate di più o di meno, le quali andavano e venivano, offrivano la loro disponibilità, prendevano delle iniziative e via dicendo. Che io ricordi, Ancora ha avuto delle iniziative nei confronti del PCI, ma non era assolutamente l'unico tramite - per quello che io posso sapere - di mio padre nei rapporti con il PCI. Poteva avere una particolare funzione in questo senso, ma non era l'unica persona del suo entourage che parlava con il PCI.
FRAGALA. Quindi, lei non ha mai saputo da sua madre il motivo in base al quale Ancora fu immediatamente diffidato a non occuparsi della vicenda?
MORO Giovanni. Le sto dicendo che non mi risulta questa diffida: può essere avvenuta, ma non l'ho presente. Lei mi chiede il motivo di una vicenda che non sono sicuro sia avvenuta nei modi in cui viene descritta. Che poi la persona si sia sentita completamente scavalcata e che c'erano molte persone che prendevano iniziative ed avevano rapporti, contatti e via dicendo, questo è nell'ordine delle cose.
PRESIDENTE. Le leggo quello che ci ha detto Barca: "Ecco perché, da una parte io e dall'altra il dottor Ancora, diventammo i tramiti di questo rapporto fino a pochi giorni dopo il rapimento dell'onorevole Moro, quando fui chiamato dall'onorevole Pecchioli, al secondo piano di Botteghe Oscure, e mi fu detto che, su richiesta della signora Eleonora Moro, richiesta comunicata (se non erro) dal dottor Guerzoni, non dovevo assolutamente occuparmi della questione e del rapimento Moro e dovevo rimanere fuori da ogni contatto. La cosa mi addolorò, mi colpì, anche se, ovviamente, ubbidii, visto anche che era la signora Moro a chiedere questo. Quello che mi colpì è che la sera telefonai al dottor Ancora per dirgli: "Guarda" - non ricordo se ci davamo ancora del lei o se eravamo passati al tu - "ormai sono fuori da ogni cosa per quanto riguarda Moro" e lui mi disse che gli aveva telefonato la signora Moro e gli aveva detto la stessa cosa, cioè che anche lui non doveva interferire e lasciare gestire tutto a Freato, Rana e Guerzoni".
MORO Giovanni. Può essere, ma non la ricordo come una cosa, nel modo in cui viene riferita, così dura ed ultimativa, come se ci fosse chissà quale ragione. Ripeto che c'erano molte persone che andavano e venivano e che prendevano iniziative; ce ne erano alcune, come Guerzoni, Rana ed altri, che avevano una presenza più costante, ma non ho un ricordo della cosa così come viene raccontata. Naturalmente può darsi che la mia memoria non arrivi a questo e che non lo abbia considerato, ma sinceramente non ricordo una cosa così radicale. Magari si sarebbero aggiunti altri contatti e rapporti, dal momento che era, semmai, il momento di moltiplicarli. La preoccupazione poteva essere quella di aggiungere rapporti e non di toglierli.
PRESIDENTE. Una spiegazione può essere quella che ho dato all'inizio; l'impressione che abbiamo avuto è che, se fosse venuta fuori l'ipotesi di un riscatto monetario, forse la persona di Freato era la più indicata. Una risposta riduttiva potrebbe essere che, conoscendo il dottor Ancora come lo abbiamo noi conosciuto, probabilmente non era la persona più adatta a trattare una vicenda così delicata come questa. Quindi, ci poteva essere la preoccupazione di fare confusione.
MORO Giovanni. Potrebbe essere, ma onestamente non ho un ricordo così nitido di questa vicenda.
FRAGALA. Addirittura - almeno questa è l'impressione che ho avuto - Barca è rimasto così colpito dalla vicenda che immediatamente l'ha annotata in un suo diario che ha depositato in questa Commissione. In esso, a chiare lettere attribuisce quest'iniziativa di sua madre a Freato e riferisce su costui delle considerazioni poco commendevoli, che adesso non ripeto ma che sono contenute nel diario.Quindi, dà una spiegazione sicuramente negativa al motivo in base al quale sia lui che Ancora, il primo giorno del sequestro, sono stati estromessi da qualunque iniziativa; attribuisce l'opera a Freato.
MORO Giovanni. Mi sembra che questo sia improbabile perché - a mia memoria - la presenza, che non fu comunque costante e continua, di Freato si ha quando nacque il problema, vari giorni dopo, di mettersi in contatto con l'avvocato Payot a Ginevra, che è colui che aveva rappresentato nei processi i terroristi della RAF e che, quindi, si sperava potesse essere un tramite. Fino a quel momento - se siete appassionati di questo problema, si possono controllare le date - la presenza di Freato non c'è e di questo ne sono sicuro. Quindi, questa interpretazione di Barca mi sembra non sia rispondente ai fatti, o almeno a quelli che io ricordo. Ci saranno stati altri fattori e considerazioni.
FRAGALA. Quello che le ho detto succede i primi giorni dopo il 16 marzo. Arriviamo al 28 aprile del 1978 e il dottor Ancora ci riferisce che sua madre lo convoca a casa per consegnargli una lettera a lui direttamente indirizzata dall'onorevole Moro, la quale può essere considerata l'ultimo disperato tentativo di rompere il fronte della fermezza. Adesso le leggo il testo: "Caro Tullio ricevo come premio dai comunisti dopo la lunga marcia la condanna a morte.... Quel che dico, e che tu dovresti sviluppare di urgenza e con il garbo che non ti manca... è di andare da Berlinguer e dirgli che posso capire (male) il loro atteggiamento duro e intransigente, ma che non ne facciano una questione di quadro politico che tanto faticosamente è stato elaborato e che ora dovrebbe essere ridisegnato". Le chiedo se ci può fornire qualche indicazione su come questa lettera arrivò alla famiglia.
MORO Giovanni. Non me lo ricordo più, ne arrivarono tantissime e questa, se non ricordo male, arrivò nello stesso giorno in cui ne giunsero moltissime altre. I canali erano Rana, Guerzoni in qualche circostanza, una volta fu Mennini e non so se anche Tritto fu chiamato per ritirare queste lettere.
FRAGALA. Cioè, dopo un mese e mezzo dal sequestro suo padre scrive a Tullio Ancora e gli dice di andare da Berlinguer.
MORO Giovanni. Si vede che era veramente disperato perché se lei leggesse tutte le altre lettere che sono arrivate quel giorno a personaggi analoghi per operazioni analoghe capirebbe quanto era disperato.
FRAGALA. E si vede in questa lettera.
PRESIDENTE. Secondo lei quando nella lettera si parla di un quadro politico che ora dovrebbe essere ridisegnato che cosa voleva intendere, perché per la verità Tullio Ancora ci ha dato una spiegazione che non mi è sembrata molto convincente.
MORO Giovanni. Non ho un'opinione in merito. Certamente egli vedeva - mi pare evidente - la fragilità dell'operazione che si stava compiendo e, comunque, la considerava un'operazione temporanea che aveva come prospettiva quella di creare un assetto più normale della vita politica e quindi non so se in quella lettera si riferisse a questa meta finale oppure ad una presa d'atto che questa vicenda determinava fatalmente una rottura del quadro politico cosa che penso apparisse anche a lui così come a noi che stavamo al di fuori.
PRESIDENTE. Non potrebbe essere un impegno che egli assume?
MORO Giovanni. Non saprei. E un problema di datazione delle lettere, bisognerebbe vedere quando sono state scritte, quando sono arrivate. Ad un certo punto egli decide di passare al gruppo misto. Alla fine, in una delle lettere prende questa determinazione.
PRESIDENTE. Questa domanda che le ho fatto si collega infatti ad un'interpretazione. Quando dice: "esco dalla scena politica" è quasi come fosse un prezzo che egli era disposto a pagare visto che una posizione politica ed un quadro politico potevano rappresentare il motivo per il quale era stato colpito.
MORO Giovanni. Sì, potrebbe essere così, tra l'altro penso che vi sia in modo più esplicito questa determinazione di interrompere l'attività politica, determinazione che peraltro aveva già prima. Nell'ultimo anno e mezzo questo era il suo orientamento, ma le vicende della politica gli fecero poi decidere diversamente. Senz'altro però questa era una sua decisione.
PRESIDENTE. Era una decisione che prendeva per il peso dell'ostilità che incontrava?
MORO Giovanni. Sarà stata anche una decisione legata all'idea di pagare in questo modo e di assicurare che la sua liberazione avrebbe comportato una specie di esilio in patria oppure fuori della patria.
PRESIDENTE. Questo farebbe pensare che effettivamente il pensiero di suo padre fosse che vi erano altre intelligenze dietro le Brigate Rosse come se avesse percepito questo, anche se non lo disse mai con chiarezza. Nelle lettere egli sembra dire: nell'atteggiamento della fermezza ci può essere un'influenza esterna.
MORO Giovanni. Questo lo dice proprio, per esempio nella lettera a Taviani.
PRESIDENTE. Lo dice anche con riferimento agli americani. Non dice però mai con chiarezza che pensa che dietro alle Brigate rosse ci sia qualcosa d'altro.
MORO Giovanni. No non lo dice con chiarezza, non vedo come avrebbe potuto dirlo da lì.
PRESIDENTE. Non glielo avrebbero fatto dire.
MORO Giovanni. Anche per uno spirito liberale sarebbe stato troppo sentire una cosa del genere.
FRAGALA. Mi ha incuriosito un'altra dichiarazione resa dal dottor Ancora. Egli ha raccontato che il corpo di Aldo Moro dopo il ritrovamento fu sottratto per volontà della famiglia alla vista anche dei suoi collaboratori più stretti. Per quale motivo?
MORO Giovanni. Uno vede il sole e l'altro la luna. A memoria mia noi combattemmo una dura lotta per poter vedere il corpo prima dell'autopsia e fu una cosa complicata riuscire ad ottenerlo. Fu una visita che durò un minuto all'obitorio del Policlinico; dopo vi fu l'autopsia e successivamente avemmo noi stessi difficoltà ad accedere al corpo. Dopo l'autopsia ci fu il problema di fare un funerale così come era stato richiesto.
PRESIDENTE. Lei è sicuro che il dottor Ancora ci abbia detto questo o è piuttosto una sovrapposizione del ricordo di quando il dottor Ancora ci dice che il Ministero dell'interno gli aveva detto: guarda che forse lo abbiamo trovato morto vieni a riconoscerlo tu.
FRAGALA. No, lui ad un certo punto dice che non riuscì a vedere il corpo perché per volontà della famiglia si impedì anche questo.
MORO Giovanni. Diciamo che fu quasi proibito anche a noi, questo era quello che cercavo di dire. Avemmo, ripeto, difficoltà a vederlo anche noi. Poi certo, subito dopo l'autopsia fu fatto molto rapidamente questo trasporto a Torrita Tiberina ed il funerale sempre a Torrita Tiberina nella forma più privata possibile come era nelle richieste del nostro congiunto.
FRAGALA. Torniamo per un momento al problema di via Gradoli. Ricapitolo un attimo per comodità di discussione: tra il cinque e il sei aprile del 1978 lei e sua madre, venuti a conoscenza dell'operazione di polizia nel comune di Gradoli in provincia di Viterbo, avete contattato - come lei ha oggi anche ripetuto - il sottosegretario all'interno Nicola Lettieri e in quella occasione sua madre ha chiesto che si verificasse se vi era una via con il nome Gradoli a Roma. Le fu risposto che una via con il nome Gradoli a Roma non esisteva. Successivamente sua madre telefonò personalmente al Viminale per segnalare l'esistenza della via ma in quella occasione non si sa con chi parlò e se ebbe mai notizie in merito a questa segnalazione. Lei ce lo può dire?
MORO Giovanni. Mi piacerebbe rivedere le testimonianze più fresche perché mi sembra che nel 1981-82 trattammo diffusamente di questo problema in sede processuale. Comunque, sostanzialmente, ai primi di aprile ci fu comunicato da personale del Ministero dell'interno che stavano facendo queste ricerche e fu fatta - che io ricordi - questa osservazione. Che sia stata fatta a voce, o subito o per telefono dopo o entrambi non lo so dire. La risposta che arrivò e che fu confermata e che io ricordo (ripeto però che voglio richiamare, perché capisco che è un punto caldo, a questo proposito la testimonianza resa in Corte di assise negli anni '81 o '82 non ricordo bene), ripetuta il 18 aprile quando venne fuori tutta la questione del lago della Duchessa e del covo di via Gradoli fu che non si andò a via Gradoli ma a Gradoli paese, perché la via non c'era nello stradario.
FRAGALA. Dopo queste considerazioni, la mia domanda è questa: quando il 18 aprile del 1978 evidentemente le Brigate rosse allagano l'appartamento e lo fanno scoprire, voi non siete saltati in aria, non siete andati - come si suol dire - con le dita negli occhi al Viminale a chiedere conto e ragione di questa gravissima noncuranza investigativa rispetto a segnalazioni che si erano succedute nel tempo e tutte con una precisione assoluta? Ecco, come avete reagito?
MORO Giovanni. Chiaramente in quel momento stavamo cercando di capire se era morto o meno; se permette, onorevole, avevamo un altro problema in quel momento. Poi, dopo ci siamo molto irritati, ma in quel momento era stata annunciata la sua morte, era il 18 aprile, con il comunicato del lago della Duchessa. Quindi eravamo impegnati in altri problemi al momento.
FRAGALA. Quindi non avete reagito.
MORO Giovanni. Sinceramente...
PRESIDENTE. Però abbastanza presto si capì che quello della Duchessa era un depistaggio, perché il lago era gelato.
MORO Giovanni. Infatti, noi non lo prendemmo per buono, sulla base di pure e semplici analisi del testo e anche di senso pratico; però, tra non prenderlo troppo sul serio ed essere sicuri che era falso naturalmente ce ne correva.
PRESIDENTE. Poteva essere l'annuncio dell'epilogo tragico, sia pure se il corpo si trovava da un'altra parte. Però, effettivamente la domanda che fa Fragalà è clamorosa. Sarà che quando poi si vedono le cose ex post le si considera in una prospettiva diversa da chi le ha vissute, però effettivamente una serie di segnalazioni su Gradoli...
FRAGALA. Io al posto di sua madre sarei andato da Cossiga e l'avrei buttato giù dalla finestra.
MORO Giovanni. C'è stato un incontro piuttosto...
PRESIDENTE. Quindi c'è stata una contestazione di sua madre a Cossiga?
MORO Giovanni. Lo stesso 18 aprile - adesso potrei sbagliare - venne il ministro Cossiga, che mi pare era già venuto un'altra volta nei primi giorni del sequestro. Si trattò di queste spiegazioni e ci fu naturalmente una discussione che, io ricordo, non fu precisamente amichevole.
FRAGALA. Quindi ci fu uno scontro con Cossiga; questa contestazione fu fatta.
MORO Giovanni. Che io ricordi, sì.
FRAGALA. E Cossiga come si giustificò?
MORO Giovanni. C'era questo problema dello stradario: questa è la giustificazione che abbiamo avuto. Non abbiamo mai avuto altra giustificazione che lo stradario.
FRAGALA. Quindi noi dobbiamo prendere atto che il senatore a vita Francesco Cossiga è venuto in Commissione alcuni mesi fa a mentire su questa circostanza.
MORO Giovanni. Questo è un vostro problema e comunque invito a vedere le testimonianze date in Corte d'assise pochi anni dopo. Può anche essere che su dei particolari, dei "prima" o dei "dopo", io mi sbagli, ma il ricordo che ho è netto ed è questo.
FRAGALA. Sul problema di via Gradoli e della seduta spiritica vorrei fare una valutazione precisa che sottopongo al suo giudizio, che è la seguente. Se il professor Prodi e i professori di Bologna che erano tutti qualificatissimi scienziati di economia e certamente non erano i primi venuti o i primi sprovveduti, avessero immediatamente comunicato alle forze di polizia e al Ministero dell'interno la fonte della segnalazione invece di mistificarla dietro la seduta spiritica, dietro il piattino eccetera probabilmente, attraverso la fonte dell'indicazione esatta, si sarebbe arrivati subito in via Gradoli e non si sarebbe caduti nel depistaggio di Gradoli paese in provincia di Viterbo. Ora, le chiedo, perché secondo lei il professor Prodi, il professor Clò e gli altri amici di quella giornata domenicale, come la raccontano, a Zappolino di Bologna coprirono e mistificarono la fonte invece di denunziarla immediatamente e quindi aiutare le ricerche di suo padre? Perché lo fecero? Era una fonte così impronunciabile, così impresentabile?
MORO Giovanni. Non ho la più pallida idea, ma resto convinto che la cosa veramente grave di via Gradoli è di non esserci andati. Non è la questione della fonte, perché le indagini si fanno sempre avendo delle fonti che poi vengono coperte. Questa è una cosa normale. Non saprei nemmeno dire, questo non si capisce dai racconti, se era Gradoli o via Gradoli.
PRESIDENTE. Da quello che ci è stato detto qui, si trattava del paese di Gradoli.
MORO Giovanni. Potrebbe essere che era un'informazione a metà. Non lo so, comunque a me pare che sia giusto oggi, dopo vent'anni, prendere atto che se c'è una cosa davvero grave in questa vicenda è il fatto che non si pensò, non si volle pensare, comunque non si andò, oltre che al paese di Gradoli, a via Gradoli, come era, ripeto, assolutamente ovvio per qualunque investigatore il quale avesse avuto un'indicazione anche generica o anche legata ad un paese come questa. Mi sembra una cosa molto grave sulla quale vedo che peraltro la Commissione è giustamente impegnata.
FRAGALA. Peraltro, professor Moro, risulta alla Commissione e comunque a me personalmente che a via Gradoli vi era appunto tutta una serie di proprietà immobiliari di società di copertura del Viminale, che poi passarono in blocco al SISDE, perché questo fu costituito nell'ottobre del 1978. Risulta anche che personale dell'UCIGOS avesse prima del 16 marzo 1978, prima del giorno del sequestro, svolto dei servizi di osservazione e di appostamento per lunghi mesi proprio davanti al civico 96 di via Gradoli, che, prima di Moretti, Morucci e quindi Potere Operaio avevano avuto in affitto fin dal 1975. Perché questo non era un covo fresco, era un covo che Morucci e Potere Operaio avevano affittato nel 1975 e c'era stato sempre un via vai di extraparlamentari di Sinistra e via dicendo. L'UCIGOS, risulta nel processo per la strage di via Fani, faceva servizi di osservazione davanti a quel civico già mesi prima del sequestro. Ebbene, quando tutto questo è risultato evidente, addirittura è diventata risultanza processuale, voi come familiari come vi siete posti di fronte a tutta una serie di inadeguatezze e di inefficienze dell'apparato investigativo, che addirittura arrivavano ad avere rispetto al covo di via Gradoli una contiguità di vario tipo, sia di tipo investigativo sia addirittura riguardo alla proprietà degli immobili. Perché poi via Gradoli è stata per anni abitata da poliziotti, ufficiali di polizia giudiziaria eccetera, perché il Ministero dell'interno ha posseduto la gran parte di quelle palazzine. Anche il prefetto Vincenzo Parisi possedeva - adesso li possiedono i suoi eredi - quattro appartamenti in via Gradoli. Cioè era una strada che per il Ministero dell'interno era come via Nazionale o via XX Settembre. Ecco, rispetto a tutti questi fatti, quando voi ne avete finalmente avuto conoscenza, come vi siete posti?
MORO Giovanni. Questa è una vicenda che, se acclarata ed accertata, anche con le precisazioni che ha fatto prima il presidente Pellegrino, è molto grave e molto inquietante e che certamente aggrava ancora di più un episodio delle indagini fatte durante il sequestro che era già di per sé abbastanza inquietante. Se tutto quello che è successo a Gradoli fosse accaduto da un'altra parte già sarebbe bastato, in presenza di questo elemento, per domandarsi seriamente cosa era successo.
PRESIDENTE. Io, anche per il verbale, vorrei dire che a mio avviso non risulta che lì c'erano delle proprietà che appartenessero al SISDE o al Viminale. Quello che risulta è che indubbiamente alcuni nomi degli organigrammi delle società a cui appartenevano questi immobili poi ritornano in quelle che sicuramente sono state società di copertura. Però potrebbero essere pure professionisti che svolgevano... Certo, è un ulteriore indizio che fa ritenere estremamente improbabile che il nome di via Gradoli fosse sconosciuto agli apparati di sicurezza.
FRAGALA. Un'altra cosa, professore. Sua madre ha sostenuto in diverse sedi che la scorta assegnata al marito non si aspettava di dover fronteggiare un attentato. Gli agenti tenevano le pistole nei borselli, i mitra nel baule della macchina eccetera. Mentre secondo la moglie del maresciallo Leonardi, capo scorta di suo padre, il marito era particolarmente agitato nei giorni che precedettero l'eccidio di via Fani. Anche il 16 marzo 1978 la signora Leonardi vide il maresciallo Leonardi cercare nell'armadio le pallottole della sua pistola ed ebbe l'impressione che il marito fosse molto preoccupato per qualcosa. E possibile che i timori di Leonardi fossero dovuti ad informazioni di carattere riservato, di cui era in possesso? Ritiene, come sua madre, che la scorta di suo padre non fosse preparata come avrebbe dovuto?
PRESIDENTE. Da altre fonti risulterebbe che Leonardi avrebbe saputo da uomini della polizia che uomini delle Brigate Rosse, non della colonna romana, erano stati in quei giorni avvistati a Roma.
MORO Giovanni. Si; è quanto riferito da Santillo. Leonardi era molto preoccupato in generale; era un momento del resto in cui non lo si poteva non essere. Lo era anche in relazione a fatti specifici avvenuti nei giorni, nelle settimane e nei mesi precedenti (vedi la motocicletta davanti a via Savoia); vari episodi che avevano suscitato una giusta preoccupazione. Che fosse particolarmente preoccupato quel giorno ovviamente non lo so proprio dire, ma che - lo ricordo bene - la sua preoccupazione fosse diventata molto alta nell'ultimo periodo ne posso dare diretta testimonianza.
FRAGALA. Quindi non era una scorta impreparata all'evento, sprovveduta; era una scorta preparata, allarmata.
MORO Giovanni. Era un capo scorta allertato ed allarmato. Ricordo anche le preoccupazioni di Leonardi nel non riuscire a mandare il personale della scorta al Poligono di tiro a sparare. Una sua preoccupazione vi era senz'altro. Sul fatto che questa riuscisse a tradursi, per ragioni burocratiche e finanziarie, in una preparazione ottimale della scorta avrei dei dubbi.
PRESIDENTE. Questo è in contraddizione con i mitra contenuti nel portabagagli e con l'estrema vicinanza delle due macchine. Chiunque abbia esperienza di scorta sa che normalmente deve esserci una certa distanza delle due auto; altrimenti l'efficacia della protezione è molto minore.
MORO Giovanni. Non so se a quel tempo in Italia si sapeva questo, oggi assolutamente ovvio. Non giurerei che le tecnologie delle scorte fossero così sofisticate come lo sono oggi.
FRAGALA. E mia valutazione che il sequestro poté avvenire e soprattutto poté essere portato alle tragiche ed estreme conseguenze dell'assassinio di suo padre perché un incerto indirizzo politico nei due, tre anni precedenti al 1978 aveva fatto smantellare tutte le strutture dello Stato, create contro il terrorismo di sinistra, contro le Brigate Rosse in particolare; la struttura antiterrorismo del generale Dalla Chiesa e quella di Santillo. Dopo i grandi risultati ottenuti da Dalla Chiesa e Santillo, improvvisamente si decide di smantellare le strutture di antiterrorismo alla vigilia del 1978; suo padre ebbe parte a questa scelta politica, la contrastò, la assecondò, si rese conto che si ubbidiva alla moda culturale del tempo, secondo cui l'eversione era solo a destra e che a sinistra non c'era nulla; che le Brigate Rosse erano sedicenti, anzi fascisti travestiti? Quindi le strutture investigative che avevano arrestato Curcio, smantellato le colonne torinesi, davano fastidio ad un certo clima politico per cui bisognava smantellarle? Di questi fatti, di queste scelte politiche che sventuratamente fecero trovare lo Stato in mutande rispetto alla aggressione di Moretti e soci, lei ha saputo, è stato testimone o comunque può fornirci oggi la valutazione che ne dette suo padre che era uno dei massimi esponenti politici non soltanto del partito di maggioranza relativa ma anche dell'organizzazione statale?
MORO Giovanni. Credo che la ragione per cui furono demoliti i servizi precedenti e fatta quella riforma sia leggermente diversa da quello che lei dice; ragioni meno nobili ancora di quello che lei dice. Almeno questa è la mia impressione. D'altronde non ho notizie precise perché certamente non parlavamo della riforma dei servizi segreti a casa.
PRESIDENTE. La spiegazione data in questa sede dal Ministro dell'interno è che quella di Santillo doveva essere smantellata per legge, data l'istituzione del SISDE; quella di Dalla Chiesa fu smantellata per gelosia interna all'arma dei Carabinieri.
MORO Giovanni. E possibile. Resta il fatto che i tempi di implementazione di quella riforma furono anomali rispetto a quanto previsto dalla legge. Questo pure incise sullo stato in cui si trovarono i servizi in quel momento. Comunque, non sono un esperto della materia; posso soltanto dire che l'avere apparati di sicurezza, in grado di fronteggiare quello che lui chiamava partito armato, al quale attribuiva una serissima capacità di incidere nella vita politica italiana, era una sua grande preoccupazione. Posso dire di aver trovato sul tavolo del suo studio, tra gli altri, moltissimo materiale preparatorio della riforma dei servizi ed in generale sui problemi di intelligence, di interventi di ordine pubblico per contrastare il terrorismo. Che avesse questa preoccupazione come fatto politico e per gli aspetti di ordine pubblico posso testimoniarlo direttamente.
PRESIDENTE. E vero che vi era una forma di rimozione non tanto del PCI quanto di un certo tipo di intellettualità di sinistra sul colore politico delle BR ma che vi fosse una volontà di abbassare la guardia non mi sembra corrisponda al vero; i ragazzi scrivevano Pecchioli con il Kappa in Italia e Barca ci ha detto che semmai lui rimprovera alla struttura del PCI di non aver svolto quelle attività di investigazione interna che portarono alla morte di Guido Rossa.
DE LUCA Athos. Mi associo ai colleghi per ringraziare il professor Moro per avere accettato di partecipare alla nostra audizione e per la semplicità e per la puntualità delle sue risposte. Quanto a me il contributo che lei sta dando alla Commissione è di grande rilevanza.
Alla luce di questi infiniti, gravissimi interrogativi e nodi sciolti, stasera nuovamente elencati con grande semplicità e chiarezza, vi è una ragione in più per cui ritengo una fuga dalla realtà fare fantasie relative a responsabilità rispetto al caso Moro, attribuite a soggetti o ad altri paesi in quella circostanza. Con tutti questi interrogativi aperti di tale gravità, così clamorosi, alcuni dei quali persino grotteschi, dovremmo innanzitutto chiarire le cose in casa nostra rispetto a quella classe dirigente piuttosto che non fantasticare su cose molto lontane; non credo altrimenti potremo essere considerati credibili rispetto alla ricerca della verità. Credo che il Presidente si sia già espresso rispetto al fascicolo di Havel che sarebbe stato consegnato a qualcuno; quindi, se vi è la volontà di tutti, ciò potrebbe costituire oggetto di una lettera a nome di tutta la Commissione per avere delle notizie nel merito.
Come qualche collega ha ricordato, Ancora ha confermato che vi fu questa chiusura da parte della famiglia, tagliando ad esempio fuori gli altri. Interrogato sulle ragioni di tale comportamento mi sembra lui accennasse alla diffidenza esistente nei confronti dello Stato, degli altri ed al fatto che la famiglia in quel momento non si fidava e diffidava. Vorrei sapere quale era lo stato d'animo e se vi era effettivamente questa diffidenza, questa sfiducia, peraltro anche giustificata.
Ad adiuvandum, aggiungo che mi ha colpito che lei abbia detto - mi corregga se sbaglio - che non vi era uno spirito collaborativo in qualche modo tra le forze che investigavano e la famiglia, cioè mancavano sintonia, collaborazione, contatto nella ricerca della verità. Questa è una prima riflessione. Quindi, c'era questa diffidenza e perché non c'era collaborazione con le forze di polizia? Ciò era dovuto ad una chiusura della famiglia o perché proprio non c'è mai stata collaborazione, intesa per raggiungere dei risultati?
MORO Giovanni. Anzitutto, credo di cogliere lo spirito delle sue considerazioni iniziali circa l'opportunità o meno di andare a cercare soggetti stranieri. Ritengo che sia il caso di farlo se ci sono naturalmente, però mi sembra da condividere l'idea che qui si debba cercare dopo vent'anni di eliminare le dietrologie, cioè di fare una guerra alle dietrologie, attenendosi ai fatti, alle circostanze, che possono anche portare lontano. Però, ritengo che questo sia molto importante da sottolineare, almeno questo è l'intento con cui io sono qui: il modo migliore per eliminare le dietrologie è arrivare alla verità: se non c'è la verità, se ci sono fatti sui quali non c'è chiarezza, non c'è certezza su come le cose sono andate, ci sono spiegazioni contraddittorie, eccetera, lì si apre la strada alla dietrologia, che a quel punto può crescere e svilupparsi. Questo lo volevo precisare in generale e la ringrazio per avermi dato la possibilità di farlo.
Quanto allo spirito collaborativo, che io ricordi - naturalmente sono ricordi - fin dall'inizio si è sviluppata una certa sfiducia perché fin dall'inizio si ebbe la sensazione che si brancolava nel buio e che le attività che venivano svolte non rispondevano ad una strategia, ad un preciso indirizzo ad una volontà di ottenere informazioni, e così via. Del resto, nelle Commissioni precedenti a questa, i responsabili dell'ordine pubblico raccontarono come vi fu proprio un intento di parata, diceva uno di questi; che fosse un intento di parata si vedeva da subito, non c'era certo bisogno di aspettare. Diffidenza? Sì, forse. Sfiducia? Sì, forse. Devo evidenziare che noi sapevamo anche che il nostro congiunto non raccoglieva poi nel mondo politico, nella pubblica amministrazione, nelle istituzioni dello Stato soltanto consensi ed amicizie. I nostri ricordi di famiglia risalgono ai fatti del 1960, poi a quelli del 1963, poi a quelli del 1969, e via dicendo. Sapevamo che non era ovvio che vi fosse una buona disposizione nei suoi confronti ma, al di là di questo, devo evidenziare che constatavamo la inanità del lavoro che si stava facendo o degli effetti che raggiungeva.
PRESIDENTE. Qui non si tratta di dare corso a fantasticherie né di inserire la vicenda nazionale nella vicenda del mondo: significa escludere le responsabilità interne. Il problema è che io penso che la vicenda nazionale, se non la inseriamo nella storia del mondo, non la capiamo, ma non per dare luogo a fantasticherie. Ritengo che in questo modo noi facciamo anche torto in qualche modo alla morte dell'onorevole Moro. Dalle sue carte infatti, la necessità di ritenere inserita la vicenda italiana nella storia del mondo risalta con chiarezza. Quando Moro parla della strategia della tensione fa riferimento a responsabilità istituzionali interne ed estere e i riferimenti alla politica americana e a quella tedesca, come lei ricordava, nella lettera a Taviani sono chiarissimi. Comunque, ormai abbiamo una messe di atti giudiziari, discutibili, non passati al vaglio di provvedimenti ma che ci dimostrano come non vi sia tale separazione. Non è che si dice: sai, forse c'entravano anche i Servizi stranieri, il che significa che i Servizi italiani non avevano responsabilità.
MORO Giovanni. Io personalmente mi riferivo alle molte polemiche - anche a sproposito - che ci sono state nel corso del ventennale, quindi lo scorso anno.
PRESIDENTE. Questo è il mio punto di vista, naturalmente.
MORO Giovanni. Ogni considerazione critica veniva fatta sulle verità acquisite sulla vicenda come esercizio di dietrologia, di esagerazione. Se dietrologia c'è, si vince soltanto con la verità, non c'è un altro modo. Che poi tutta la vicenda politica di Aldo Moro abbia intrinsecamente una dimensione internazionale sono d'accordissimo, non intendevo certo negare questo.
DE LUCA Athos. In questa chiave di lettura, mi sembra di notare una certa schizofrenia o comunque contraddizione nel nostro mondo politico. Vorrei conoscere anche la sua impressione al riguardo: secondo lei perché da fonti così autorevoli, dal Presidente della Repubblica, di recente anche dal Presidente del Senato, si lanciano dei segnali nel senso che bisogna scavare, bisogna indagare, eccetera, di fronte ad una messe così clamorosa e chiara di elementi che non concordano ma anche concreti, che qui abbiamo esaminato e che lei ci ha raccontato, ormai documentati, di testimonianze che abbiamo raccolto qui? Su questo scarto, cioè tra volontà, da una parte, di indagare a tutto campo e, dall'altra, il fatto che, di fronte a questa messe, noi non riusciamo a compiere passi in avanti, chiedo la sua impressione: secondo lei, per quale ragione di recente abbiamo avuto da alte cariche dello Stato, questo input ad indagare? Secondo lei, questo nasce da un'esigenza di chiarezza, è un fatto - come dire? - un po' rituale alla scadenza di anniversari? Come se lo spiega questo fatto? Cioè, ricorrono gli appelli a trovare la verità e poi invece troviamo che anche di fronte a fatti molto concreti e riscontrabili tale verità non viene approfondita.
MORO Giovanni. Anzitutto la ragione degli appelli è - secondo me, per quello che ho potuto capire - che mentre in generale in tutti questi anni nel mondo politico vi è stata una specie di conventio ad tacendum - mi è capitato di chiamarla così una volta - per tante ragioni, non necessariamente malevole perché è comunque un fatto doloroso che pesa sulla coscienza, si preferisce non trattare, se possibile anche dimenticare al più presto. Vi è stata questa conventio ad tacendum nel mondo politico ma la mia impressione è che dopo vent'anni - lo dicevo all'inizio - sono emersi tante e tali contraddizioni, nodi non sciolti, ombre oppure fatti nuovi di cui non si aveva cognizione, nuovi protagonisti, eccetera, che questa convenzione a tacere non si regge più e quindi si sente la necessità di prendere posizione da questo punto di vista. Questo mi sembra un fatto positivo. Ciò che mi stupisce - al di là del lavoro che viene compiuto da questa Commissione e di quello che fa, ha fatto o sta facendo la Procura della Repubblica di Roma, con quello che comunque entra in altri processi di questa vicenda, di fronte a questa messe di fatti e di conti che non tornano - è che non ci sia una sollevazione generale per cui si decida che questo Paese deve chiudere questa vicenda e quindi ci si fermi un momento e si dica: adesso ce ne occupiamo davvero, ma non nel senso di affidare a quaranta parlamentari in seduta notturna un compito improbo, ma mettiamoci d'accordo su quello che è successo e quali sono state le responsabilità, i problemi, eccetera, e chiudiamo con la verità perché il problema oggi è la verità, non la giustizia. Credo che l'interesse del paese sia la verità e non la giustizia, che è "passata", è andata in prescrizione, metaforicamente o effettivamente. Questo mi stupisce e significa che tra cinque anni ci troveremo più o meno nella stessa situazione con un cumulo di anomalie ancora più paradossale di oggi.
PRESIDENTE. A questo punto vorrei dire che sono pienamente d'accordo con lei. Ritengo che l'operazione verità oggi converrebbe a tutti. Forse non c'è ancora una maturazione politica in ordine a questa operazione e c'è una sottovalutazione di come sia difficile iniziare sul serio una fase nuova se non sulla base di una operazione di verità che riguardi il passato. A questo aggiungerei una componente del carattere italiano: l'opportunità di dimenticare il passato. Due giorni fa una delle penne migliori del nostro giornalismo, Montanelli, diceva di lasciar stare i cadaveri, di lasciar perdere Calabresi e Moro.
MORO Giovanni. Montanelli è un habitué di queste affermazioni.
PRESIDENTE. Non voglio fare un commento negativo, perché tutto questo mi sembra molto italiano, quasi la preoccupazione che una Commissione come questa sia inutile, al di là della scelta che il Parlamento ha operato nel prorogarla, perché non farebbe più parte della convenienza politica di nessuno andare a scavare, quasi a dire che non è passato ancora abbastanza tempo perché la verità sia opportuno che venga conosciuta per intero. In questa fase non scavare nel passato può essere opportuno per tutti, sarà poi la storia fra altri venti o trenta anni a determinare le condizioni migliori. Secondo me - lo dico con franchezza - è un atteggiamento miope, perché non si tratta solo del lavoro della Procura di Roma. Abbiamo notato recentemente che, per esempio, l'indagine sull'Argo 16 riporta in qualche modo alla questione di suo padre. Mi sembra un nodo così centrale della vicenda italiana che ineludibilmente si attivano meccanismi per cui questa operazione di rimozione finisce per non raggiungere nemmeno i suoi scopi. Alla fine in qualche modo la verità si imporrà e dovrà venir fuori con tale chiarezza che non sarà più possibile negarla.
Mi scuso con il collega De Luca se ho interrotto le sue domande. Lei prima ha fatto riferimento a due date: al 1960 e al 1963. Può chiarire? Per la verità io penso che si tratti del 1960 e del 1964, cioè del governo Tambroni e della crisi del primo governo di centrosinistra, delle tensioni nella Presidenza della Repubblica con la nascita del secondo governo Moro.
MORO Giovanni. E così. Facevo riferimento a situazioni in cui la persona di cui ci stiamo occupando era coinvolta in tensioni legate alla sua politica.
PRESIDENTE. Se mi è consentito, questa è una valutazione che ho fatto nella proposta di relazione del 1995, dove sostenevo che in qualche modo intorno alla figura di suo padre, dopo quasi quindici anni dal 1964, le tensioni sotterranee si riattivano e questa volta portano ad un tragico epilogo.
MORO Giovanni. Va senz'altro detto che si trattava di un soggetto a rischio da molti anni.
PRESIDENTE. Lei ha letto il libro di Bernabei?
MORO Giovanni. No. Ho letto solo alcune anticipazioni.
PRESIDENTE. Quel libro sembra adombrare tutta una vicenda intorno alla riunione del 1964 in casa Morlino. Dovremmo acquisire questo libro e forse ascoltare Bernabei.
DE LUCA Athos. Sono perfettamente d'accordo con i giudizi del professor Moro e anche con gli ultimi espressi dal Presidente, tant'è che sono convinto che il caso Moro ancora condizioni pesantemente la vita politica del nostro paese. Quindi liberarsene con una operazione di verità sarebbe utile per tutti.
Un'altra domanda molto breve. Si è parlato molto delle iniziative di allora del PSI, di Craxi e altri. Rispetto a quel che tutti sappiamo, lei ha qualcosa da dirci, qualche esperienza diretta o notizia particolare? Inoltre, in casa Moro durante quei giorni terribili fu tenuto un appunto di quel che succedeva, delle scadenze, delle telefonate, insomma un elenco cronologico dei fatti che - qualora esistesse - potrebbe essere anche utile per registrare ulteriori contraddizioni in questa ricerca della verità?
PRESIDENTE. Il contatto con i socialisti consiste solo nelle visite di Craxi a sua madre o ci furono altri contatti?
MORO Giovanni. Ci fu una sola visita di Craxi nei primi giorni in cui peraltro tutti i leader politici vennero in visita, poi il rapporto fu tenuto - credo esclusivamente - con il professor Vassalli che fu il tramite dei contatti.
PRESIDENTE. Se non sbaglio, era un po un avvocato di famiglia.
MORO Giovanni. Era un collega di università e tra i due c'erano rapporti di amicizia più e prima che politici. Mi pare che fu sempre attraverso Vassalli che furono operati vari tentativi, in particolare quello di Guiso, quello del contatto con Curcio al processo di Torino e successivamente il tentativo della grazia alla Besuschio. A mia memoria, questi tentativi avvennero attraverso Vassalli. Sicuramente questo vale per il secondo caso, perché c'era il problema di istruire dal punto di vista giuridico la faccenda che poi - come sapete - si bloccò a via Arenula.
I lavori proseguono in seduta segreta alle ore 23,02.
...omissis...
I lavori riprendono in seduta pubblica dalle ore 23,03.
PRESIDENTE. Avete avuto l'impressione ex post che gli uomini del PSI avessero una serie di informazioni in ordine a momenti di cattiva tenuta sul "cubo d'acciaio" di cui parlava Gallinari e che non furono forniti agli apparati di sicurezza? Quasi che i socialisti volessero giocarsi fino in fondo la partita politica della trattativa e che non fornissero agli apparati di sicurezza le opportune informazioni.
MORO Giovanni. Che ci siano state delle reticenze al momento, nel trasmettere l'informazione all'autorità giudiziaria? Questo può darsi, se non ricordo male, nei contatti con Pace. Che in generale questa fosse una strategia, non saprei dire. Non ricordo di aver percepito una cosa di questo genere, cioè che veniva giocata una "partita in proprio" nel senso più stretto dell'espressione. Che poi, più in generale, lì ognuno avesse una partita politica da giocare (o anche più d'una), questo vale per il partito socialista e più in generale per tutti.
PRESIDENTE. Come ci ha insegnato Andreotti: "A pensar male si fa peccato, ma si indovina". La mia idea è la seguente: se ci fossero state informazioni che avessero consentito l'individuazione della prigione e la liberazione dell'ostaggio, alla fine il partito della fermezza avrebbe avuto una vittoria politica e il partito della trattativa sarebbe stato sconfitto!
MORO Giovanni. Beh, bisogna pensare molto male!
PRESIDENTE. E suo zio ad aver intitolato il libro "Storia di un delitto annunciato". Nel libro di Gabriel Garcia Marquez "Cronaca di una morte annunciata", alla fine, tutti collaborano nella morte del protagonista, alla fine è la madre stessa che gli chiude il portone. Io sto ragionando a voce alta sulle ipotesi possibili.
MORO Giovanni. Sono convinto di una cosa che è del tutto ovvia e che a voi risulterà ancor più ovvia di quanto risulti a me. Di questa vicenda, durante il suo svolgimento e successivamente al suo svolgimento se ne sa, se ne sapeva e se ne seppe molto, ma molto più di quanto non emerse pubblicamente al momento e dopo lo svolgimento. Non parlo, naturalmente, del versante dei terroristi, ma dell'altra parte, e questo in generale. L'impressione, per esempio (che tale rimane), che poi non fosse così difficile arrivare alla prigione è forte; così come è forte l'impressione che in questo paese, in questo Parlamento, in questa capitale ci sia un sacco di gente che potrebbe contribuire positivamente all'accertamento della verità e che secondo me lo dovrebbe fare nel proprio interesse, sapendo che - per l'appunto - qui nessuno vuole fare "rese dei conti", ma si vuole semplicemente chiudere una vicenda.
PRESIDENTE. A voler enfatizzare questo suo rilievo sembrerebbe quasi che questo emerga pure dalle carte di suo padre. E come se il messaggio che suo padre dava nelle carte era di dire che in fondo il problema del riconoscimento politico era uno pseudo-problema, perché quelli erano soggetti attivi della vita politica italiana: sono inseriti, parlano, interloquiscono, inviano lettere e così via. Quindi, enfatizzare questo problema del riconoscimento sembrava far parte di una realtà ufficiale non del tutto corrispondente alla realtà attuale del potere. Il partito armato era una componente della scena politica italiana.
MORO Giovanni. Esatto: non a caso lo definiva "partito armato". Anche prima di essere rapito aveva questa idea. All'epoca era più comodo trasferire il conflitto su un piano quasi religioso, sacrale: chi si contamina se avviene questa presa d'atto, che è già nelle cose? C'è un pericolo di contaminazione dello Stato e chissà quali mali avrebbe potuto portare sul piano politico (come avrebbe dovuto essere e come sarebbe stato certamente più facilmente risolto), ma su quello morale.
DE LUCA Athos. Porrò due o tre domande tutte insieme, così concluderò il mio intervento e potrò attendere la risposta, della quale già la ringrazio.
Suo padre già nel periodo del rapimento nominò Misasi come presidente del Consiglio nazionale. Lei ha un'idea del perché fu scelta questa persona e se ciò può avere una certa rilevanza per noi?
Seconda questione, che le pongo solo a scopo di eventuale chiarimento e solo se ne ha notizia. Dieci anni prima delle vicende di cui stiamo trattando vi furono due episodi marginali: un articolo sul Bagaglino in cui si parlava di un rapimento (o di un possibile rapimento) di suo padre, descrivendo anche nei particolari qualcosa che tragicamente si è compiuto rispetto ai percorsi che suo padre faceva (la chiesa, via Fani e così via) e ci fu anche - sempre a quell'epoca - un noto caso di un parà che fu accusato di star preparando un rapimento. Avete mai riflettuto su questo? Gli avete mai dato qualche importanza e rilevanza? C'è qualche notizia che può esserci utile? Vorrei poi comprendere il ruolo di Freato, rispetto alla comunicazione che molti hanno attribuito (c'erano delle notizie che venivano portate fuori e che poi pervenivano alla famiglia); Freato fu un uomo-chiave di questa situazione, e se sì in che misura e con quali risultati?
Concludo - e non riprenderò più la parola - ringraziandola per questa importante audizione. Signor Presidente, credo che dopo questa audizione dovremo fare una riflessione sullo stato dell'arte dei lavori della Commissione ed anche su come andare avanti, perché ci sono degli elementi (almeno per quanto mi riguarda, poi mi riserverò - magari in altra sede - di riferire) sui quali dobbiamo riflettere per decidere come procedere in tale questione. Sicuramente ormai dopo 20 anni (21 per la precisione) mi pare che sia chiaro - su questo concordo con il professor Moro - che vi siano state allora delle responsabilità da parte dello Stato, dei suoi rappresentanti, delle gravissime omissioni di cui questa Commissione deve venire a capo in qualche modo per dare al paese un po' di verità. In attesa di queste risposte, la ringrazio in anticipo.
MORO Giovanni. Le do una risposta ad una domanda che mi ha posto in precedenza, sull'esistenza di una specie di diario o di supporto per l'annotazione dei fatti: no, se ci fosse stato sarebbe stato messo a disposizione dell'autorità giudiziaria (il che non vuol dire che magari i singoli componenti della famiglia non abbiano fatto loro considerazioni: questo non lo so): ma un diario nel senso in cui lo intendeva lei non c'è.
Perché Misasi? La spiegazione che è stata sempre data - e che non ho elementi per ritenere non convincente (ma è inquietante, pur essendo l'unica spiegazione che abbia sentito oltre a quella generica della stima, che sicuramente c'era, nei confronti della persona) - è che Misasi, in riunioni interne a piazza del Gesù, nella Democrazia cristiana sarebbe stato l'unico a manifestare il suo dissenso circa la linea che si stava seguendo, e che quindi mio padre fosse venuto a sapere questo. Questa è l'unica spiegazione che ho sentito dare di questo fatto (forse, poi, ne avrete raccolte altre...).
PRESIDENTE. Che è una delle cose su cui noi ci interroghiamo di più!
MORO Giovanni. Anch'io mi sono interrogato molto sulla cosa, ed è giusto farlo, perché è una cosa su cui davvero bisogna...
FRAGALA. C'era un canale di ritorno!
MORO Giovanni. Se c'era un canale di ritorno, non era certamente quello della famiglia, che non lo aveva, purtroppo, anche perché la famiglia non sapeva di questo dissenso, peraltro: lo si venne a sapere nel momento in cui, letta questa lettera, ci si cominciò ad interrogare e a chiedere (ad amici e così via) come mai poteva essere, e venne fuori questa spiegazione. Sui fatti del Bagaglino ed altre cose di questo genere, dicevo prima che se esaminate i giornali dell'epoca della destra italiana, del ventennio 1959-1978, troverete tonnellate (mi riferisco proprio a "tonnellate") di fango e odio nei confronti di Aldo Moro. Dall'inizio della sua segreteria politica della Democrazia cristiana (quindi i prodromi dei centro-sinistra eccetera) il nemico principale della destra italiana in quel ventennio è stato Aldo Moro. Leggete cosa scriveva Montanelli, grande esponente del giornalismo italiano...
PRESIDENTE. Come lei sa, io ho avuto una polemica forte con Montanelli!
MORO Giovanni. Cose che uno legge e dice "Se questo è il grande giornalismo italiano, figuriamoci come deve essere quello piccolo!", peraltro non molto diverse nello spirito da quelle del Bagaglino. Quindi, queste cose erano note: si sapeva che c'era questo odio nei confronti di Aldo Moro da parte della Destra. Non c'è da stupirsi che all'interno di questo odio nascessero anche iniziative di tal genere. Per quanto riguarda il ruolo di Freato, devo dire che nella dimensione quotidiana di quei 55 giorni c'erano soprattutto Guerzoni, Rana e qualche altro con minore assiduità; c'erano l'avvocato Manzari ed altri con una presenza non costante. Non dal primo giorno, ma da un certo punto in poi ci fu anche Freato tra le varie persone che frequentavano la casa e che si davano da fare. Voi conoscete l'iniziativa presa da Freato nei confronti di Cazora (si tratta di una delle tante iniziative che si sostenne).
PRESIDENTE. Erano tutti e due calabresi? Mi sembra che Misasi non sia calabrese.
MORO Giovanni. E calabrese, come Cazora. Freato ebbe un ruolo, ma non continuo. Il tramite della famiglia era di più Guerzoni e precisamente nei rapporti con la stampa; Rana lo era di più nei rapporti con il mondo politico; tuttavia, in certi momenti ci fu, si diede da fare e promosse delle iniziative, come quella dell'avvocato Payot della RAF. Lui stesso fu coinvolto nei rapporti con l'avvocato Guiso - credo che ve lo dirà Guiso stesso se ricordo bene - nel tentativo di entrare in contatto con Curcio: tuttavia ebbe un ruolo analogo a quello di altri collaboratori, amici, conoscenti e via dicendo, che erano presenti durante quei giorni.
TASSONE. Arrivati a questo punto, devo fare una premessa e rivolgerle qualche domanda. Professor Moro, sulla vicenda del sequestro e dell'assassinio di suo padre vi sono state varie inchieste giudiziarie e questa Commissione al riguardo si è interessata e lo sta facendo tuttora. Vi è stato un periodo nel quale si riteneva di aver raggiunto la verità e di esserne in suo possesso. Attualmente, però, c'è un clima diverso rispetto a quello di qualche anno e mese fa. Credo che si sia diffusa la consapevolezza - lei l'ha detto ed anche i colleghi lo hanno ribadito attraverso le loro domande - che la verità è ancora lontana. Sono d'accordo con lei sul fatto che, se non si raggiunge la verità, questo fantasma - credo che lei abbia parlato di fantasma - inseguirà le future generazioni della Prima e della Seconda Repubblica; ritengo che sia un fatto condizionante. Vorrei riprendere anche un'osservazione fatta dal collega De Luca. Questa consapevolezza è presente in vari strati dell'opinione pubblica ed anche nelle autorità del paese, come il Capo dello Stato e il Presidente del Senato. Non le chiedo una sua valutazione, ma ritengo che questo possa anche dare una dimensione dell'aspetto che non è ininfluente e marginale, perché è un fatto - a mio avviso - molto importante. Abbiamo parlato di inefficienza ed anche le domande sulle varie questioni dimostrano tale inefficienza ed una inadeguatezza rispetto ai compiti. Le rivolgo, pertanto, la seguente domanda. Lei e la sua famiglia avete avuto contezza che questa insufficienza sia stata determinata proprio dalla scarsa professionalità o avete ritenuto che ci fosse qualche condizionamento anche all'interno degli apparati investigativi, delle ipoteche o delle influenze, un qualcosa che ha determinato delle paralisi rispetto agli accertamenti della verità?
MORO Giovanni. Questa è la domanda?
TASSONE. E una delle domande che le voglio rivolgere.
MORO Giovanni. Ripeto quello che ho detto all'inizio dell'audizione. Eravamo consapevoli che, se non si fosse aperta una trattativa nei termini nei quali si poteva porre e contestualmente se non si fosse trovato l'ostaggio, di conseguenza si era scelto di lasciarlo morire. Era ciò che noi pensavamo e che io ancora continuo a pensare. Che il fatto poi di non trovare l'ostaggio potesse apparire frutto di volontà o di incapacità, non credo sia importante quello che appariva allora. Ciò che appare oggi è che questa inefficienza o questa inerzia nelle ricerche e nelle investigazioni, alla luce del fatti emersi in questi venti anni, che sono la ragione delle prese di posizione da lei richiamate, dicono - secondo me - che stiamo probabilmente parlando di qualcosa di più di una semplice e pura inefficienza, dal momento che subito dopo - come ha ricordato il presidente Pellegrino - e subito prima tante cose si sono riuscite a fare. Quindi, quale debba essere l'interpretazione di tutto ciò naturalmente è in primo luogo un vostro compito, ma devo dire che questa domanda ha più senso rispetto ai dati di oggi. Questa era allora la nostra opinione. Micidiale era la congiunzione del rifiuto di trattare con la mancanza di efficacia nel trovarlo.
TASSONE. Dopo il sequestro e l'uccisione della scorta scaturì una certa opinione - non so se prevalente o meno in quei giorni - in merito al fatto che il destino dell'onorevole Moro era segnato, visto e considerato che erano stati uccisi cinque uomini della scorta; pertanto, ci sarebbe stata già una sentenza preventiva, tanto è vero che ci fu un momento di grande scoramento. Tuttavia, nei giorni successivi - come è naturale ed umano - si aprì anche uno spiraglio di speranza, rispetto a qualche notizia, nell'inseguire l'obiettivo della liberazione. Vorrei sapere se anche in lei ci fu questa consapevolezza, nel senso che i cinque morti potevano essere indicativi già di un giudizio e, quindi, di una sentenza preventiva dei sequestratori.
MORO Giovanni. Credo che si possa dire che, fino a che non è arrivato l'ultimo minuto di questa vicenda, abbiamo pensato che ci fosse spazio per agire, qualunque fosse l'intenzione dei rapitori. Peraltro, anche dai risultati del vostro lavoro, mi sembra che queste intenzioni risultino non univoche. Quindi, certamente non davamo la vicenda per conclusa prima ancora che iniziasse. Tutto quello che abbiamo cercato di fare, il poco che siamo riusciti a fare, andava in questa direzione, nel senso cioè di non darlo per morto.
Mi permetto anche di osservare che, seppure rispondesse a verità - e non lo credo - che quella di uccidere l'ostaggio fosse l'unica determinazione assunta nel momento del sequestro da tutti gli attori del sequestro stesso e mantenuta ferma per tutto il periodo, direi che comunque il compito della politica è sempre quello - come diceva Machiavelli - di evitare che le cose seguano il loro corso naturale e - secondo me - in questo c'è stato, anche in quei 55 giorni, un grande deficit di politica e, direi, una grave responsabilità politica.
PRESIDENTE. Per quello che riguarda il problema delle Brigate rosse è chiaro che l'uccisione di suo padre determina una frattura così netta all'interno di esse che subito dopo Morucci e Faranda le abbandonano e le abbandonano con le armi, legittimando il pensiero che probabilmente per l'ala di Moretti non si erano limitati soltanto a dissentire ma avevano fatto qualcosa di più di cui potevano temere di dover essere puniti.
TASSONE. L'ultima domanda, professor Moro.Si è parlato di Tullio Ancora, si è parlato di Luciano Barca: lei ricorda che c'è stato un periodo in cui l'onorevole Tina Anselmi faceva delle visite che poi furono interrotte. Ci può dire qualcosa a proposito del ruolo dell'Anselmi, per quale motivo furono interrotte le visite, quali messaggi ed indicazioni portava?
MORO Giovanni. Non ricordo che furono così nettamente interrotte.
PRESIDENTE. Non ho capito, quali visite?
MORO Giovanni. L'onorevole Anselmi grosso modo era il tramite delle comunicazioni tra la famiglia e la Democrazia Cristiana, analogamente a quello che il sottosegretario Lettieri era per quanto riguardava il Governo. Funzionava come tramite di comunicazione su ciò che si stava facendo e si riteneva di fare più sul fronte politico che su quello delle indagini e delle investigazioni anche se poi le due cose, secondo quanto ricordo, avevano delle aree di sovrapposizione. Ora non so dire se queste visite si interruppero oppure divennero più rarefatte, ma effettivamente si svolgevano in una situazione che rendeva sempre più difficile il compito di realizzare delle funzioni di comunicazione. Mi sembra che ad un certo punto fu chiesto ed ottenuto un incontro a seguito di queste infornate di lettere a cui partecipò mia madre accompagnata, se non ricordo male, da Guerzoni con tutto lo stato maggiore della Democrazia Cristiana in cui si cercò di sbloccare la situazione. Quindi, questa funzione di tramite in qualche modo era saltata. Questa è la ragione: l'aggravarsi del conflitto rendeva abbastanza difficile svolgere la funzione.
TASSONE. Che ci fosse il tentativo di ragionare sulla posizione allora della Democrazia Cristiana, o quantomeno di giustificare da parte di qualcuno, non dico dell'Anselmi, la posizione assunta dalla Democrazia Cristiana e dagli altri partiti per la non trattativa.
MORO Giovanni. Non ho capito la domanda.
TASSONE. Voglio dire se non ci fosse per caso in questi incontri dell'Anselmi o di qualcun altro il tentativo di illustrare e quindi di giustificare in un certo qual modo la posizione rigida e dura della non trattativa della Democrazia Cristiana; in tal modo si riuscirebbe a capire anche l'interruzione delle visite.
MORO Giovanni. Senz'altro avrà avuto anche questo oggetto; forse, se così è stato, questa potrebbe essere la ragione per la quale le visite si sarebbero interrotte.
PRESIDENTE. Qualche anno dopo la tragica fine di suo padre, l'onorevole Anselmi presiede la Commissione P2. Uno dei punti che tutta la pubblicistica che si occupava di questa vicenda ha sottolineato riguarda il fatto che durante il sequestro i vertici degli apparati di sicurezza fossero quasi tutti ricoperti da iscritti alla P2. Nella relazione della Commissione Anselmi - sbaglierò - non c'è nessun riferimento alla vicenda di suo padre.
MORO Giovanni. Non me lo ricordo.
PRESIDENTE. Lei si è mai posto questo problema, cioè era già cominciata allora la rimozione?
MORO Giovanni. Che io ricordi - ma sono appunto soltanto i miei ricordi - la Commissione P2 diede un contributo rilevante ad aumentare le conoscenze sul momento, sul periodo, sul contesto ed anche su ciò che avveniva all'interno degli apparati dello Stato, cosa che prima era meno chiara. Questo è il mio ricordo; non ho in mente il fatto che non facesse minimamente menzione di questa vicenda.
PRESIDENTE. Le ragioni per le quali il prefetto Napoletano si dimette dal CESIS sono note alla famiglia?
MORO Giovanni. Sono note dai libri.
PRESIDENTE. E cioè? Perché io non sono riuscito ad ottenere la lettera di dimissioni del prefetto Napoletano; sembra che sia uno dei tanti documenti che tendono a sparire in questo paese.
MORO Giovanni. Ho capito; non lo sapevo che fosse così.
PRESIDENTE. E una delle cose che stiamo cercando affannosamente e che non abbiamo mai avuto.
MORO Giovanni. No, allora non sapemmo nulla.
PRESIDENTE. Da quello che ho potuto capire dalla sua mezza risposta, lei darebbe credito alle versioni che collegano le dimissioni del prefetto Napoletano anche al problema della gestione degli apparati durante il sequestro.
MORO Giovanni. Io conosco solamente questa versione.
PRESIDENTE. Sì, però è una di quelle cose che si dicono, su cui non ci sono basi documentali. Al limite avrebbe potuto essersi dimesso perché non era contento della stanza, della segretaria.
MORO Giovanni. Anche se fosse stata questa la ragione, magari potreste trovare una lettera piena di ragioni di salute, chi lo sa.
PRESIDENTE. Oggi l'ultima acquisizione che abbiamo avuto dal Governo è che non si tratta tanto di un'accettazione di dimissioni quanto piuttosto di un provvedimento di revoca, ma anche la revoca dovrebbe essere motivata. Ho chiesto che mi venga trasmesso il provvedimento di revoca e lo sto aspettando.
MANTICA. Chiedo scusa al professor Moro ma le devo confermare che l'abitudine della Commissione ad arrivare a mezzanotte è tradizionale. Farò una sola domanda però forse ho bisogno di qualche momento di introduzione. Lei questa sera ha fatto una serie di affermazioni che mi hanno molto colpito. Mi ha colpito soprattutto il bisogno che ci accomuna di ricerca della verità. Addirittura lei ha parlato non di giustizia ma di verità. Purtroppo questa Commissione è costretta a cercare una serie di cose vere, perché in realtà il suo compito è quello di capire le cause per le quali non si è mai arrivati alla soluzione di alcuni misteri italiani, tra cui questo del rapimento Moro. La questione della verità però mi interessa e la domanda è in parte legata a questo. La verità qui diventa politica. Magari si stupirà della considerazione che faccio perché vengo dalla destra e magari le dico anche che lo scontro Fanfani-Moro che percorreva l'anima della DC si era esteso anche ad altri partiti e che da noi prevalevano i fanfaniani, in seguito con calma le spiegherò perché.
PRESIDENTE. Anche se il "Bagaglino" non era tenero nemmeno con Fanfani.
MANTICA. Ma nella nostra parte politica c'erano molti fanfaniani perché forse pochi sanno che quando Fanfani cominciò a parlare del centro-sinistra una larga fascia del Movimento Sociale Italiano salutò questa idea con grande simpatia perché ricordava Fanfani professore di diritto, di economia corporativa all'Università cattolica, le partecipazioni statali e cosi via, ma questo è un altro discorso.
Voglio dire che la ricerca della verità politica passa attraverso una riconsiderazione della figura dell'onorevole Moro. Penso che Moro sia stato prima di tutto un grande statista, prima che un uomo di partito ed un tessitore di rapporti con il Partito Comunista. Quando dico un grande statista intendo un uomo di grande realismo politico, capace forse d capire più di altri che la situazione italiana come si andava delineando dalla fine degli anni '60 in poi richiedeva per la difesa dello Stato - e aggiungerei anche per un'appartenenza corretta dell'Italia allo schieramento occidentale del quale credo l'onorevole Moro fosse profondamente convinto - che con grande realismo si affrontasse la realtà di quella che era la maggiore rivoluzione possibile che si può fare se si accetta la democrazia. E quello che si ottiene con il massimo del consenso, che non è il massimo, ma è quello che si riesce a fare mobilitando il consenso. In questo senso, credo che l'onorevole Moro abbia sostenuto dal 1970 al 1977 un ruolo anche di grande fatica politica perché l'Italia sembra più ricca di fazioni e di principi rinascimentali - mi si passi questa espressione - che di grandi statisti. Infatti, questo ritorno e queste valutazioni che si fanno sulla ricerca della verità del caso Moro io le ho vissute molto anche come una continuazione di vecchie liti tra i princìpi rinascimentali della Democrazia cristiana. Non a caso, gli attori principali fanno riferimento a questo periodo e sono uomini della Democrazia cristiana. Se Moro allora è un grande statista, e io ne sono convinto, se compie un'operazione, nella quale io non so se crede o no, come tale fa quello che il suo realismo politico gli impone come necessità. Quindi certamente cerca l'accordo con il Partito comunista non perché sia diventato comunista ma perché si rende conto forse che solo coinvolgendo, in parte o direttamente, i comunisti nell'apparato dello Stato si può difendere questo Stato nella sua interezza e nella sua unità. Un personaggio di questo tipo evidentemente conosce molto bene le persone che gli sono attorno, gli uomini, le situazioni e i partiti. Quando voi leggeste il memoriale con le critiche che l'onorevole Moro rivolgeva al suo partito, non certamente leggere nella sua analisi, furono per voi una sorpresa? Cioè, furono una scoperta, un'illuminazione, o in quelle analisi ed in quelle critiche ritrovaste l'onorevole Aldo Moro che conoscevate? Cioè, erano commenti o giudizi che voi avevate già captato nell'uomo Moro, che credo avesse giustamente all'interno della famiglia qualche momento di relax, di debolezza? Questo ha una sua rilevanza per me, perché lei sa che si fecero passare per molto tempo queste dichiarazioni come eterodirette o dovute a paura; l'uomo in una situazione di grande difficoltà psicologica, che quindi dice delle cose che forse non avrebbe mai detto. Invece, nella mia convinzione, pur nell'occasione nella quale le esplicita, sono considerazioni che appartengono al personaggio. Quindi, la domanda è: per voi sono un'illuminazione o ritrovate in parte le cose che sapevate dell'onorevole Moro?
Lei ha detto stasera una cosa che non sapevo e che mi ha un po' spinto a fare questa domanda. Cioè il fatto che l'uscita dalla politica dell'onorevole Moro non nasce per voi durante il processo delle Brigate rosse ma era un sentimento, un progetto - non so come chiamarlo - comunque in essere già da qualche tempo; lei mi pare ha citato addirittura un anno, un anno e mezzo, che per un uomo politico non era un brevissimo periodo. Quindi, una maturazione che evidentemente era legata anche a delle considerazioni di uno sforzo immane che lo statista Moro stava compiendo. Se allora lego le due cose la domanda, come lei può capire, assume una rilevanza di fondo, perché se poi queste osservazioni, valutazioni e critiche il personaggio le avesse in qualche modo esternate in qualche seduta della Democrazia cristiana potrei anche capire le preoccupazioni di questi princìpi rinascimentali delle correnti democristiane che potevano temere di vedere poi ufficializzate cose che evidentemente normalmente i princìpi tenevano riservate nelle loro valigie.
MORO Giovanni. Innanzi tutto, i primi propositi di abbandono della politica avvengono dopo le minacce subite in viaggio negli Stati Uniti, forse nel 1975 o nel 1976 (adesso non ricordo, ma penso che Guerzoni ed altri ve lo abbiano detto). Comunque, nel viaggio in cui egli stette male con la pressione e ritornò anzitempo e cominciò ad avere questi pensieri, che poi aveva anche per altre ragioni, insomma per fare una vita che non lo facesse tornare a casa a mezzanotte e altre cose del genere. Però, onestamente, cose dette da un uomo che sta per essere eletto Presidente della Repubblica diciamo che possono essere anche considerate come dei semplici desideri. Quindi, direi che è seria la connessione tra questa volontà e il momento vissuto negli Stati Uniti in relazione al giudizio sulla politica dell'Italia; per il resto direi che potevano essere desideri personali più o meno radicati, ma, certo, vedendo quello che aveva di fronte non c'è da pensare che lui si illudesse di poterlo fare.
Per quanto riguarda i giudizi, intanto la invito a rileggere qualche discorso politico fatto ai congressi della Democrazia cristiana, che non hanno quel livello di durezza però sono notevolmente più vivaci di come si descriva di solito l'uomo. Io distinguerei una considerazione più di lungo periodo da una considerazione, invece, proprio sui rapporti e sui giudizi. Certamente, una delle ragioni che muoveva la sua politica, almeno a partire dalla fine degli anni '60 è l'idea che fossero superate e in profonda crisi le forme tradizionali con cui i partiti avevano strutturato la loro presenza in Italia, che ci fosse una crisi, un deperimento, una difficoltà dei partiti a rappresentare, cogliere, sostenere e interpretare una società civile che era dalla fine degli anni '60 in poi sempre più adulta e autonoma. Anche in connessione a questo io penso che l'operazione di trovare il modo di superare la condizione di democrazia difficile o di democrazia bloccata dell'Italia avesse particolare significato.
Tutto questo per dire che, per quello che ho potuto capire personalmente e poi dopo studiando i testi eccetera, non c'era in generale una grande fiducia nel futuro che le forme che la politica aveva preso in quel momento in Italia potevano avere; non della politica in assoluto ma delle forme che la politica aveva preso. Oltretutto, credo che lui fosse consapevole che il passaggio ad una democrazia dell'alternanza avrebbe comportato l'impossibilità di avere una Democrazia cristiana, un Partito comunista e, in generale, un'articolazione del sistema politico così come era in quel momento, in relazione a come funzionava il sistema democratico allora, per la ragione che era impossibile, per dire, che ci fosse un partito di centro con il 30 per cento dei voti.
Fatte queste considerazioni, che sono forse più di scenario e che però hanno qualcosa a che fare con la non enorme fiducia che lui nutriva nei confronti delle forze politiche, per quanto riguarda i suoi giudizi, espressi nelle lettere e nel memoriale, questi in alcuni casi sono citazioni di discorsi fatti, al partito perlopiù; in altri casi sono giudizi molto più forti, molto più radicali ma difficilmente non ascrivibili a lui per chi lo conosceva.
MANTICA. Cioè non vi hanno stupiti, in sostanza.
MORO Giovanni. No.
PRESIDENTE. Volevo dire a Mantica che il ritratto che il professor Giovanni Moro ha fatto di suo padre corrisponde moltissimo al ritratto che ne fece qui Guerzoni, con estrema precisione. Cioè, l'idea di un conservatore illuminato che capisce che la necessità dell'accordo stava poi nelle cose che diceva lei. Questa è una Commissione d'inchiesta e io le vorrei fare una domanda più precisa passando in seduta segreta.
I lavori proseguono in seduta segreta alle ore 23,45.
...omissis...
I lavori riprendono in seduta pubblica dalle ore 23,50.
PRESIDENTE. Dall'anticipazione dei giornali risulterebbe che Bernabei aveva scritto che nella riunione in casa Morlino una parte dei convenuti chiedono a De Lorenzo di attivarsi per determinare situazioni di tensione che giustificassero l'attivazione del piano Solo e che De Lorenzo si sarebbe rifiutato e che avrebbe detto che da quel momento è iniziata la sua disgrazia politica come se De Lorenzo fosse stato alla fine punito per non aver anticipato di cinque anni la strategia della tensione. La nostra Commissione deve indagare ad ampio spettro, per questo faccio questo tipo di domande.
MORO Giovanni. Innanzitutto, chiederei a Bernabei di questa riunione perché i sopravvissuti di quella riunione sono pochissimi. Le versioni di che cosa si decise in quella riunione sono molte.
TASSONE. Morlino mi sembra avesse una coscienza democratica molto spiccata.
MORO Giovanni. Certo.
PRESIDENTE. Non mi riferisco a Morlino; in premessa ho detto che si tratta di anticipazioni lette sui giornali.
MORO Giovanni. Si tratta di una famosa riunione.
PRESIDENTE. Non avevo mai sottolineato eccessivamente quella riunione in casa Morlino. So però che vi sono versioni diverse che lo ritengono un momento importante.
MORO Giovanni. Ho sentito anch'io dire la stessa cosa. Ma questa ultima versione non la conoscevo.
PRESIDENTE. Ringrazio il Professor Moro per la sua collaborazione ai lavori della Commissione e spero che abbia avuto l'impressione che la Commissione capisca l'importanza del compito affidatogli anche con riferimento alla tragica fine di suo padre.
MORO Giovanni. Nel modo più assoluto, signor Presidente. Colgo l'occasione per ringraziare il Presidente ed i commissari non solo per il tempo che mi è stato dedicato ma anche per il lavoro svolto nell'adempimento di un compito che dovrebbe stare a cuore a tutti: quello cioè di arrivare ad una verità onorevole e credibile, considerato che la Commissione è uno dei pochi punti certi di riferimento.
PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione.
La seduta termina alle ore 23,55.