CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA
SUL CICLO DEI RIFIUTI E SULLE ATTIVITA'
ILLECITE AD ESSO CONNESSE
28.
SEDUTA DI MERCOLEDI' 4 FEBBRAIO 1998
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO SCALIA
INDI
DEL VICEPRESIDENTE FRANCO GERARDINI
INDICE
Sulla pubblicità dei lavori. *
Audizione del dottor Duccio Bianchi, rappresentante dell'istituto di ricerca Ambiente Italia; del dottor Pietro Capodieci, presidente del CONAI; del professor Walter Ganapini, presidente dell'AMA di Roma e dell'ingegner Angelo Felli, rappresentante dell'ANPA. *
A L L E G A T O: Grafico mostrato dall'ingegner Antonio Felli nel corso dell'audizione. *
La seduta comincia alle 13,30.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, rimane stabilito che la pubblicità della seduta sia assicurata anche attraverso gli impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del dottor Duccio Bianchi, rappresentante dell'istituto di ricerca Ambiente Italia, del dottor Pietro Capodieci, presidente del CONAI, del professor Walter Ganapini, presidente dell'AMA di Roma e dell'ingegner Angelo Felli, rappresentante dell'ANPA.
Le audizioni che stiamo svolgendo hanno una valenza significativa anche con riferimento all'attività del gruppo di lavoro istituito nell'ambito della Commissione d'inchiesta per valutare l'impatto del decreto legislativo n. 22 del 1997 sul sistema delle imprese, delle amministrazioni e delle autonomie locali. Sotto questo profilo è necessario disporre del massimo dell'informazione per comprendere e verificare il concreto funzionamento del decreto sotto l'aspetto attuativo.
Ricordo infine che diverse associazioni qui rappresentate saranno invitate al convegno organizzato dalla Commissione nelle giornate del 9 e 10 marzo per fare il punto sullo stato dell'arte per quanto riguarda sia l'attuazione della disciplina contenuta nel decreto Ronchi sia, più in generale, la politica sui rifiuti in Italia.
Poiché nel corso della seduta sarò costretto ad allontanarmi, cederò la presidenza al collega Franco Gerardini, il quale coordina il gruppo di lavoro a cui ho fatto riferimento.
FRANCO GERARDINI. Vorrei integrare brevemente quanto detto dal presidente.
Poiché il lavoro della Commissione è stato suddiviso per tematiche, vorrei sapere dal dottor Bianchi quali siano gli effetti economici ed occupazionali delle attività di riciclaggio. Si tratta di una richiesta specifica che il gruppo di lavoro rivolge al dottor Bianchi proprio perché egli si è occupato della materia, con studi effettuati anche per conto di istituti molto avanzati nel settore. Vorremmo quindi che fossero meglio approfonditi e definiti gli effetti economici ed occupazionali delle attività di riciclaggio; come il dottor Bianchi sa meglio di me, si tratta di un aspetto del decreto legislativo Ronchi a cui è stata annessa grande importanza per una nuova politica di gestione dei rifiuti.
PRESIDENTE. Do senz'altro la parola al dottor Bianchi.
DUCCIO BIANCHI, Rappresentante dell'istituto di ricerca Ambiente Italia. Signor presidente, su questo tema occorre fare una rapidissima premessa. In Italia non sono disponibili basi statistiche attendibili ed affidabili sui costi attuali dei servizi di gestione dei rifiuti. Non voglio dire che siamo di fronte all'assenza di valori sui costi di raccolta o di smaltimento: questi dati esistono, ma sono oggi difficilmente confrontabili e vengono costruiti con metodiche ed approcci diversi; in parte, poi, sono inficiati da elementi connessi alle modalità di distribuzione della tassazione sui cittadini. In altri termini, alcuni comuni tendono a trasferire alcune voci dai costi specifici dei servizi di raccolta e gestione dei rifiuti per alleggerire il costo evidente del servizio di raccolta e smaltimento.
Un'analisi su scala nazionale dei costi di smaltimento finale dei rifiuti (quelli delle discariche, che sono prevalenti, o di impianti di incenerimento o di selezione) è ugualmente inficiata da due variabili. La prima è legata al fatto che molti degli impianti tecnologici sono stati costruiti con finanziamenti statali e, quindi, i costi espliciti non sono oggi rappresentativi perché non includono in gran parte gli oneri di ammortamento. In secondo luogo, siamo in presenza di una diversificazione dei costi, soprattutto di quelli di discarica, che non ha alcuna attinenza con i costi industriali.
Detto questo, le indagini compiute e le ricostruzioni condotte da noi e da altri soggetti ed istituti sui costi dei servizi di raccolta e di smaltimento sono basate in parte su stime ingegneristiche, cioè su una ricostruzione, a parità di condizioni, dei costi previsti, e sono state da noi validate in studi di settore condotti su casi reali in varie aree del territorio nazionale: in particolare, in Lombardia, in alcune province del Piemonte, in Toscana e nelle Marche. Tutto ciò copre uno spettro abbastanza vasto di situazioni e questo tipo di valutazioni appaiono sostanzialmente fondate e comunque coerenti con altri studi in corso anche a livello europeo.
Vorrei rapidamente concentrarmi soltanto su tre aspetti. Il primo è quello relativo all'impatto sui costi e sugli occupati del passaggio a sistemi di raccolta differenziata più intensa; il secondo è l'effetto della modifica del sistema di riciclaggio, anche considerando il ruolo che in questo contesto dovrebbero assumere i consorzi obbligatori; in terzo luogo, vorrei svolgere qualche rapida osservazione sui costi complessivi del ciclo di gestione e smaltimento dei rifiuti.
Per quanto riguarda i servizi di raccolta differenziata, le nostre simulazioni, assumendo un ricavo pari a zero lire dalla vendita dei prodotti recuperati (e quindi che non vi sia un prezzo positivo per la carta o il vetro che venissero eventualmente recuperati), ci segnalano che il costo bruto del servizio di raccolta della carta, del vetro o di altri materiali è, per la carta ed il vetro, sostanzialmente inferiore a quello relativo alla raccolta del rifiuto solido urbano indifferenziato, effettuato con un compattatore a carico posteriore, ed equivalente a quello effettuato con il compattatore a carico laterale monoperatore, più efficiente.
Per quanto riguarda il costo della frazione organica, esso è abbastanza differenziato in funzione delle modalità operative; tendenzialmente possiamo dire che il costo della sola raccolta è superiore del 50 per cento rispetto a quello relativo al prodotto indifferenziato. Diverso è il discorso della plastica, che ha costi di raccolta stratosferici rispetto a quelli del rifiuto indifferenziato (il rapporto è di circa 5 a 1), ma questo significa molto meno di quello che appare perché si deve pur valutare che il peso specifico è diverso e quindi non si tratta di indicazioni pienamente comparabili.
Ci sono spazi importanti. Tutto ciò significa in realtà che un sistema "spinto" di raccolta differenziata non comporta costi superiori ad un sistema di raccolta di rifiuti indifferenziato quando si tenga presente l'intero ciclo della raccolta stessa. Devono però mettersi in evidenza due elementi. Il primo, registrato nei casi concreti di applicazione, è che nelle fasi iniziali di decollo di un sistema di raccolta differenziata (soprattutto di quello che prevede un recupero della frazione organica e sistemi di raccolta domiciliare, che sono più efficienti in termini di quantità recuperata) si ha un costo superiore, legato ai tempi di ottimizzazione del servizio. In altri termini, i servizi tendono ad essere sovradimensionati per ragioni di sicurezza; pertanto, c'è una fase iniziale di "apprendimento" che comporta costi maggiori, ma che sia appunto iniziale lo dimostrano alcune esperienze già fatte.
In secondo luogo va detto che i sistemi di raccolta differenziata, in modo particolare per quella della frazione organica e verde per i residui alimentari, che dovrebbe essere uno degli elementi fondamentali di uno scenario di raccolta differenziata al 35 per cento, hanno costi fortemente sensibili ai rendimenti di recupero: quanto più partecipa il cittadino, tanto meno costa il servizio. Il servizio di raccolta della frazione organica ha un potente effetto-scala perché la sua strutturazione è rigida per ragioni igieniche, indipendentemente dalle quantità singolarmente conferite: più si alzano queste ultime, più diminuisce il costo del servizio.
In un sistema integrato di gestione, se consideriamo il costo non solo della raccolta ma anche del ciclo complessivo e quindi mettiamo a confronto il costo per la raccolta della frazione organica e per il suo compostaggio con quello della raccolta del rifiuto indifferenziato e dello smaltimento in discarica, possiamo notare che per il vetro e la carta il ciclo è largamente vantaggioso rispetto a quello del rifiuto indifferenziato, anche assumendo un costo di smaltimento in discarica di 100 lire/chilo, che comincia ormai ad essere un privilegio di poche aree del paese.
Il costo della raccolta e del compostaggio della frazione organica si colloca su livelli equivalenti a quelli del ciclo di raccolta e smaltimento in discarica, superiori, grosso modo a 120 lire/chilo. In provincia di Milano - escludendo cioè la città - molti comuni aspettano la raccolta della frazione organica ed il compostaggio; in essi, per ragioni note, i costi di smaltimento in discarica sono abbastanza elevati e comunque si collocano tra le 200 e le 300 lire/chilogrammo, ma in tutti i casi il costo della gestione della raccolta della frazione organica, del compostaggio e dello smaltimento è notevolmente inferiore a quello della raccolta e dello smaltimento del rifiuto indifferenziato. Ciò significa che quel tipo di raccolta è competitivo quanto più sale il costo dello smaltimento finale. Vi informo, per quanto riguarda la provincia di Milano, che è disponibile un'analisi dei costi di dettaglio.
Infine, molto più problematici, per cui dovrebbero essere oggetto di riflessione anche in sede di programma di gestione dei rifiuti da imballaggio, sono la raccolta, il recupero e la valorizzazione della frazione plastica, che comportano costi molto elevati, anche di selezione dei materiali recuperati, ai fini di una loro valorizzazione come materia prima equivalente, come materia seconda o, comunque, alla fine della loro reimmissione in un ciclo industriale.
Complessivamente, un sistema integrato di raccolta differenziata tende ad essere competitivo con un sistema di smaltimento indifferenziato, tradizionale, quando il costo di smaltimento finale è superiore, nel suo insieme, a 120 lire al chilo. Vorrei dire che per l'operatore pubblico, per il cittadino, non per l'economia nazionale, i costi dei servizi della raccolta differenziata tenderanno a diminuire nella misura in cui sarà dato seguito alla revisione del cosiddetto decreto legislativo Ronchi, che impone di caricare anche i costi della raccolta sui consorzi obbligatori. In questo caso, sarà tolta una parte consistente dei costi del ciclo di gestione delle raccolte differenziate.
In termini di addetti, di effetti occupazionali, il vantaggio connesso allo sviluppo delle raccolte differenziate è notevole e rispecchia due elementi. Il primo consiste in un trasferimento più labour intensive di risorse e di costi dal ciclo dello smaltimento al ciclo della gestione e della raccolta; per le raccolte differenziate, in modo particolare, sono meno idonei i sistemi che puntano a minimizzare l'impiego della manodopera, per esempio quelli mono operatore. L'altro elemento, che in termini di addetti avvantaggia in maniera consistente, è che il tipo di impiantistica e di trattamenti relativo ai sistemi di selezione, di valorizzazione e di compostaggio, ha costi di investimento inferiori all'impiantistica più tradizionale e costi di gestione specifica un po' più elevati, anche se non si tratta di costi complessivi, perché richiede più manodopera. Quindi, vi è uno spostamento, anche sul fronte dei trattamenti, verso sistemi che richiedono più lavoro, più occupazione, di qualità tendenzialmente non elevata ma, in parte, anche con competenze tecniche e gestionali. Va detto, sotto questo profilo, che la discarica è il sistema che richiede, strutturalmente, meno manodopera in assoluto.
Vorrei concludere - se vi sono questioni o domande potrete pormele successivamente - con una nota sui costi complessivi di smaltimento dei rifiuti, a proposito dei quali a me sembra che il dibattito che ogni tanto viene portato avanti sia troppo legato ad alcune singole contingenze.
Il primo elemento da cui parto è che, per una discarica di dimensioni medio-grandi - il discorso cambia se si parte da una minidiscarica - costruita a norma e comprendente una gestione post chiusura di trent'anni, il costo è industriale, con un utile gestionale del 15 per cento - prima delle tasse -, non superiore alle 80 lire al chilo di smaltimento. Può essere questo il costo industriale di un'ottima discarica con trent'anni di gestione postchiusura, come risulta anche in altri paesi. I costi aggiuntivi, di compensazione sociale, sono costi di rendita legata al valore che, in un modo o in un altro, acquista il terreno con discariche che ormai, probabilmente, da un certo punto di vista valgono quanto un attico in piazza Navona. Si tratta di costi obiettivamente utili, notevoli per la gestione degli impianti. Il costo di discarica, molto elevato, che si registra in altri paesi, per esempio in Germania, non è infatti industriale, in quanto in realtà incorpora, in maniera esplicita, la scarsità di questo bene.
Per quanto riguarda gli impianti di trattamento termico, conviene ricordare che oggi il costo di gestione per un impianto di buona qualità, ma non necessariamente agli standard operativi di un paese come la Germania, in cui le tante ridondanze negli impianti esasperano i costi, può essere grosso modo valutato, senza vendita di energia, attorno alle 250-300 lire al chilo di rifiuto. E' evidente come per gli impianti di trattamento termico la loro redditività sia largamente - direi unicamente - determinata dal prezzo di cessione consentito all'energia prodotta. Quindi, mentre in una situazione standard, cioè vendendo l'energia elettrica al suo normale prezzo di acquisto, un impianto di incenerimento, un impianto di trattamento termico avrà essenzialmente convenienza a produrre calore da cedere, in un sistema che incentiva la vendita di energia elettrica si avrà la tendenza a deprimere la produzione e la vendita di calore e a massimizzare la produzione di energia elettrica, il che ambientalmente fa un po' specie, perché in questo caso non è proprio il massimo del buon senso.
PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre domande o quesiti al dottor Bianchi.
FRANCO GERARDINI. Dottor Bianchi, lei prima ha parlato di stime più o meno attendibili, per cui, con riferimento a quelle relative ai costi disaggregati in relazione ai rifiuti industriali, vorrei sapere se esistano dati attendibili.
DUCCIO BIANCHI, Rappresentante dell'Istituto di ricerca Ambiente Italia. Si riferisce ai costi di smaltimento?
FRANCO GERARDINI. Sì, ai costi di smaltimento, con stime disaggregate di queste attività.
DUCCIO BIANCHI, Rappresentante dell'Istituto di ricerca Ambiente Italia. Allora, la mia risposta è negativa. Abbiamo avuto una collaborazione con l'Unioncamere e con l'Ecocev per l'analisi dei dati del MUD. Ma è già difficile capire le quantità e il discorso è ancora più difficile per quanto riguarda i costi. Non esistono dati dai quali possa essere, in qualche modo, certificata una affidabilità.
FRANCO GERARDINI. Gradirei che ci fornisse alcune valutazioni in riferimento agli obiettivi sia di recupero sia di riciclaggio del decreto legislativo Ronchi. Considerato che lei conoscerà meglio di me le percentuali, peraltro riferite anche a quelle europee, gradirei, in relazione ai quantitativi dei rifiuti recuperati e di quelli riciclati, fissati per gli anni futuri, una sua valutazione in rapporto a quello che può essere un possibile, futuro scenario delle tecnologie. Per esempio, una percentuale del 35 per cento di materiale riciclato nell'arco dei sei anni comporta una rimanenza del 65 per cento che, in un modo o nell'altro, deve essere poi smaltita o, comunque, trattata in impianti particolari. Nello scenario che viene ipotizzato anche da studi della Federambiente per quanto riguarda le eventuali tecnologie complesse che possono oggettivamente realizzarsi intorno all'attuazione del decreto legislativo Ronchi, si guarda con preoccupazione ai tempi entro i quali si svolge questa attività di recupero e riciclaggio e quindi all'effettiva capacità del sistema a rispettare queste norme. Quali sono le sue valutazioni sulla tempistica e sulle percentuali per il sistema Italia?
DUCCIO BIANCHI, Rappresentante dell'istituto di ricerca Ambiente Italia. Per quanto riguarda i recuperi, ritengo che l'esperienza, in parte nazionale e in parte europea, ci mostri che sono raggiungibili, in aree vaste, recuperi da raccolta differenziata finalizzati effettivamente al riutilizzo del 35-55 per cento. Per la Baviera più il Baden-Wurttemberg il dato a consuntivo del 1995 relativo ai recuperi al netto degli scarti è del 54 per cento, come valore medio su 28 milioni di abitanti. Tecnicamente questo dato può essere raggiunto. Inoltre, per carta e vetro vi è un mercato, anche se forse con valori di vendita bassi se non uguali a zero. La situazione è più complessa per i materiali plastici, però vorrei osservare che in Germania, tra ricicli meccanici e termici, si trattano ormai circa 600 mila tonnellate e, a partire dal 1996, tutte all'interno della Germania e non più con l'esportazione.
PRESIDENTE. Soprattutto non più con abbandoni in territorio italiano...!
DUCCIO BIANCHI, Rappresentante dell'istituto di ricerca Ambiente Italia. Esatto, però resi pubblici nei documenti ufficiali (erano scritti nei bilanci della DESDE in Italia)...
Questo è un punto sul quale vi è una potenziale criticità circa i quantitativi e vi è una necessità di incentivare gli sbocchi di mercato e di creare soluzioni tecnologiche. Sicuramente occorre organizzare un mercato per il compost: vi è un problema non di fabbisogno e di domanda teorico, ma di organizzazione del mercato.
Per quanto riguarda la tempistica di attivazione, quella teorica non è incompatibile con gli obiettivi posti dal decreto legislativo, come dimostrano molti casi. Sicuramente vi sono aree diversificate in Italia e se dovessi fare una scommessa punterei sul fatto che questa diversificazione tenderà a mantenersi.
Sotto il profilo della dotazione impiantistica, ritengo che l'elemento più critico - che considero importante - del sistema di smaltimento sia quello relativo al blocco del conferimento in discarica del rifiuto non trattato, a partire dal 2000. Questo obiettivo, che considero sacrosanto dal punto di vista della tutela ambientale, può essere grosso modo rispettato solo in tre maniere: facendo largo ricorso alle deroghe, che pure sono previste; dando un'interpretazione molto permissiva alla norma, cioè considerando rifiuto trattato tutto ciò che ha avuto una raccolta differenziata all'inizio (ciò non serve a niente dal punto di vista della tutela ambientale e della minimizzazione del rischio); dotandosi di impianti di trattamento preliminare, che non sono solo vagliatori ma sono anche impianti in cui si effettua una stabilizzazione della frazione organica e quindi si riducono - ciò è stato largamente dimostrato da studi e sperimentazioni concrete - i rischi collegati al percolato e alle immissioni di biogas. Questo ovviamente è solo un tassello del sistema di recupero energetico.
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE
FRANCO GERARDINI
PRESIDENTE. Do ora la parola al dottor Pietro Capodieci, presidente del CONAI, al quale chiediamo un contributo di idee soprattutto collegando il suo ruolo di presidente del neonato consorzio con il settore delle politiche e degli strumenti di riduzione della produzione dei rifiuti. Vorremmo, quindi, acquisire notizie sul ruolo del consorzio, su come esso intenda muoversi, sulle strategie ipotizzate, soprattutto in relazione allo scopo specifico della definizione di un programma di prevenzione nel settore dei rifiuti.
PIETRO CAPODIECI, Presidente del CONAI. Sarò necessariamente sintetico perché il CONAI è un organismo istituito da poco tempo. Dirò qualcosa sulla situazione attuale del CONAI e sul sistema dei consorzi di filiera, che dovrebbero dare attuazione pratica a quanto la legge prevede.
Il CONAI è stato istituito il 30 ottobre scorso e ha costituito i suoi organi il 25 novembre. Il consorzio ha cominciato a lavorare cercando di dotarsi dei mezzi minimi dal punto di vista della normativa, cioè un regolamento interno, un rapporto con i consorzi e una serie di commissioni che incomincino a studiare e a produrre materiale rispetto ai compiti specifici ad esso assegnati.
A rallentare il nostro percorso - questa non è una giustificazione, ma è un dato di fatto oggettivo - è il problema del subentro del CONAI nei consorzi obbligatori ex legge 475 del 1988. Ciò perché non vi è un'esatta definizione del modo in cui, dal punto di vista civilistico, avvenga il subentro e circa le forme tecniche che permettano la sostituzione, anche se provvisoria, nello svolgimento dei compiti dei consorzi esistenti. Questo pone un problema, anche se banalissimo, di organizzazione, perché se è vero che subentriamo ad obblighi e diritti, di fatto è come se fossimo subentrati anche nei contratti di lavoro. Si tratta di un problema di scarso rilievo in termini economici, ma di rilievo notevolissimo in termini di funzionamento. Quindi, finché non riusciamo a risolvere questo problema, di fatto è come se fossimo impossibilitati a creare un'autonoma struttura del CONAI che possa funzionare in modo accelerato.
Ciò detto (e su questi temi ci stiamo muovendo per cercare di ridurre al minimo indispensabile il tempo necessario e quindi di avere chiarezza), abbiamo cominciato a lavorare con i consorzi di filiera che si sono già costituiti, i quali, anche se attendono le approvazioni formali degli statuti o quant'altro, sono ormai costituiti per tutte le filiere, di fatto hanno tutti i loro organismi ed hanno iniziato a lavorare sui piani di prevenzione; abbiamo inoltre costituito una serie di gruppi di lavoro su tali temi.
Il tema della prevenzione è il tema fondamentale, insieme a quello della gestione e del funzionamento del sistema. In proposito, vorrei esprimere una considerazione di carattere generale. E' evidente che l'industria che produce imballaggi, quando sente parlare di prevenzione e di riduzione alla fonte di produzione di imballaggi, incomincia ad essere molto reattiva e può avere un approccio di resistenza. Poiché è comunque interesse di tutte le imprese dell'intero sistema industriale ridurre l'impatto degli imballaggi sull'ambiente, è opportuno che il problema della prevenzione sia affrontato da una parte senza resistenze conservatrici e, dall'altra, senza approcci di tipo ideologico.
Cosa intendo dire e come ci stiamo muovendo? Personalmente ritengo che sia estremamente difficile definire delle riduzioni in quantità tout court, perché la dinamica degli imballaggi è molto legata agli stili di vita demografici. Faccio un esempio molto banale: se aumentano le famiglie di single, aumentano parallelamente le porzioni piccole di beni da consumare, quindi aumenta la necessità di imballaggio a parità di chilogrammo prodotto, per esempio, di pesce surgelato.
Se vogliamo dunque affrontare il problema nei termini reali in cui si pone, dobbiamo riuscire a stabilire dei modelli per successive approssimazioni degli elementi - dal PIL agli stili di consumo, ai comportamenti - che abbiano una dinamica ed un impatto diretto sulla produzione e sulla necessità di imballaggi. Solo a partire da questo tipo di modello si può parlare di prevenzione reale, cioè di cosa siamo riusciti a fare rispetto a quella che sarebbe stata l'evoluzione in assenza di gestione o in assenza della previsione di obblighi di legge.
Ciò non significa che faremo il modello fra venticinque anni, quando finalmente inizieremo ad affrontare i problemi di prevenzione, perché esiste una serie di aree in cui si può lavorare aumentando le performance dei materiali e, quindi, riducendo il peso degli stessi. Abbiamo degli esempi all'interno delle filiere per quanto riguarda il cartone ondulato, cioè gli scatoloni, che comunque sono 2 milioni di tonnellate (quindi non una piccola cosa): sulla base di studi compiuti, si stima addirittura una possibile riduzione di peso, quindi una possibile riduzione di impatto sull'ambiente, di quasi il 20 per cento in cinque anni. Sono cifre che secondo me non si riusciranno a raggiungere, ma che danno un'idea delle possibilità di lavoro che, operando sulla nozione di performance del prodotto, permettono di ridurre l'impatto. Anche per il vetro si può ridurre il peso aumentando le caratteristiche tecnologiche del prodotto. Per altri materiali, quali la plastica, è uno degli obiettivi della ricerca dell'industria di questo tipo, per arrivare ad un minore peso, ad un minore spessore, lasciando inalterate le funzioni (effetti barriera eccetera).
Ci stiamo pertanto muovendo su due piani. Da una parte, cerchiamo di individuare modelli credibili, cioè che presentino l'industria in maniera chiara sia alla pubblica amministrazione sia al cittadino come una parte del sistema che ha introiettato una logica di sviluppo sostenibile, quindi che non vede più come una minaccia o come una costrizione provvedimenti quali il decreto legislativo Ronchi o altre disposizioni normative che attribuiscono la responsabilità di ciò che succede alla fine del ciclo al produttore del bene (evidentemente, insieme ad altri attori). Essere credibili vuol dire realizzare modelli condivisi, comunque con obiettivi, e non solamente modelli di parte. Inoltre, occorre stimolare le filiere, ragionare sugli aspetti di prevenzione quantitativa e qualitativa, in modo tale da innestare non solo all'interno dei consorzi ma anche all'interno delle aziende, soprattutto delle aziende leader dei vari settori, meccanismi di ricerca sul miglioramento delle performance a parità di peso, che dovrebbero portare sostanzialmente ad una riduzione dell'impatto.
Tutto questo è molto generico; credo tuttavia che sia meno generico o meno vuoto di quanto sembri, perché a ciò corrispondono poi azioni precise. Ho citato prima l'esempio dell'ondulato: 2 milioni di tonnellate sono circa il 20 per cento degli imballaggi generali in Italia, quindi un fatto estremamente importante. Esistono già, quindi, alcuni dati sui quali si può lavorare.
Un problema che abbiamo già affrontato e che dovremo implementare, più che affrontare, all'interno delle varie filiere è relativo alla disponibilità dei dati. Fino ad oggi le varie imprese dei diversi settori hanno avuto i dati disponibili in base a quelli necessari per la gestione della loro impresa o per la gestione della parte commerciale. Se vogliamo ragionare su un'idea di prevenzione di impatto - cito il caso di un settore che conosco molto bene, quello degli imballaggi in cartoncino - è chiaro che abbiamo bisogno di dati che tengano conto non solamente del numero dei pezzi o dei chili ma anche, per esempio, dei metri quadrati prodotti, perché solo se a parità di metri quadrati prodotti si registra nel tempo una riduzione di peso, effettivamente il lavoro di prevenzione comincia a sostanziarsi in qualcosa di concreto.
Pertanto l'altro asse di lavoro è rappresentato dal favorire e indicare alle varie imprese dei vari settori un sistema di organizzazione dei dati che consenta poi non solo un controllo ma anche una gestione di questi ambiti.
PRESIDENTE. Desidero rivolgerle una sola domanda, visto che, come lei giustamente diceva, il CONAI ha avviato la sua attività da pochi giorni. Le chiedo se il CONAI valuterà l'ipotesi di una proposta complessiva di ecofiscalità al Governo, in ragione della possibilità che attraverso lo strumento fiscale si raggiungano obiettivi migliori di minimizzazione della produzione dei rifiuti. E' un aspetto che avete già affrontato in sede di costituzione del CONAI, oppure è ancora presto per pronunciarvi?
PIETRO CAPODIECI, Presidente del CONAI. No, non l'abbiamo affrontato.
PRESIDENTE. Considera comunque importante questo aspetto?
PIETRO CAPODIECI, Presidente del CONAI. Sì, ma in linea di principio credo che oggi tutti i meccanismi che generano incentivazione e che vengono percepiti non come punitivi ma come meccanismi di opportunità trovino le imprese disponibili. Personalmente ho operato una verifica parlando con i vari amministratori delegati e presidenti di aziende, sia produttori di beni di consumo sia produttori di imballaggi di grandi aziende, ed ho riscontrato con una certa sorpresa una maturazione con riferimento ai temi ambientali, alla responsabilità ambientale, una maturazione personale, ideologica per intenderci, anche se meno ideologica di quanto sembri, nel senso che le persone che attualmente gestiscono le imprese hanno effettivamente introiettato la nozione di sviluppo sostenibile, il fatto di avere il mondo in prestito dai figli e non dai genitori.
Questo, che può sembrare un fatto di poco conto, rappresenta in realtà una delle leve principali che porterà al rispetto e alla rapida messa in opera degli obiettivi della legge. I meccanismi di tipo punitivo oppure sanzionatorio, per quanto possano essere efficaci (bisognerebbe scendere nel dettaglio per vedere se funzionino o meno), potrebbero avere effetti negativi, in quanto ripropongono schemi che in realtà stanno per essere superati dalle abitudini culturali delle persone.
Secondo me è opportuno prevedere meccanismi di incentivazione all'utilizzo del materiale riciclato e a studi che permettano di creare un mercato e di aumentare le performance di prodotto, premiando in qualche modo le imprese e i settori che riescono a fare meglio. Da questo punto di vista, ci sarebbe coerenza. Credo quindi che il problema vada affrontato in termini nuovi, perché c'è effettivamente una nuova disponibilità, con questo livello di coerenza tra coscienza attuale e ruolo della pubblica amministrazione.
PRESIDENTE. La ringrazio, dottor Capodieci.
Nel dare la parola al professor Walter Ganapini, presidente dell'AMA di Roma, gli preannuncio che la Commissione gradirebbe un intervento finalizzato a conoscere meglio lo sviluppo delle tecnologie nel settore dei rifiuti. Riassumo questa esigenza con una battuta: quali sono, a parte le discariche, gli impianti per il futuro? Inoltre, visto il ruolo istituzionale del professor Ganapini, lo pregherei di riferirci anche su alcuni aspetti relativi alla tariffazione; in particolare, vorremmo sapere se un'azienda grande come quella di Roma abbia avviato uno studio in proposito, considerato che tale aspetto è direttamente collegato anche ai temi della minimizzazione del rifiuto, che hanno un impatto eccezionale nei confronti delle famiglie italiane.
WALTER GANAPINI, Presidente dell'AMA di Roma. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'invito. Per quanto concerne le modalità di gestione attraverso impianti tecnologici dei flussi di rifiuto che residuano una volta raggiunti gli obiettivi posti dalla normativa vigente in tema di raccolta differenziata, a livello di Unione europea e dell'area trainante della stessa, in sintonia con quanto accade negli Stati Uniti, il percorso è abbastanza obbligato.
Sul versante tecnologico, una volta operato quanto è possibile sulla priorità della gerarchia del trattamento dei rifiuti (vale a dire la riduzione all'origine e dunque il ridisegno delle merci, dei prodotti e delle tecnologie nel senso di renderli più puliti, denunciando il fatto che il nostro paese ha un ritardo molto grave in ordine al tema delle tecnologie e dei prodotti puliti rispetto agli altri membri dell'Unione ma anche competitori sui mercati), la seconda priorità segnalata dall'Unione europea è il recupero di materia, mentre la terza è il recupero di energia, intesa come combustione della frazione combustibile ad elevato potere calorifico estratto dal flusso rimanente dai rifiuti.
Le strategie tecnologiche, che purtroppo vedono il nostro paese in posizione non dominante (si è assistito ad un impoverimento tendenziale della capacità di offerta tecnologica del nostro paese dagli anni settanta agli anni novanta), sono basate su impianti che possiamo definire di preselezione e di selezione con il recupero della frazione organica umida e con l'utilizzo in situ, dove possibile, del combustibile medesimo attraverso due filiere; si tratta di impianti che rappresentano la versione aggiornata dei combustori a griglia, con il progressivo diffondersi della tecnologia di combustione a letto fluidizzato. E' una tecnologia che purtroppo - nonostante le indicazioni forti fornite all'inizio degli anni ottanta dal professor Colombo, allora presidente dell'ENEA, anche nel senso della collaborazione con la grande industria italiana del settore (Italimpianti, Ansaldo e così via) - non vede il nostro paese tra i leader a livello internazionale.
I temi principali sono i seguenti: raccolta differenziata; separazione per via meccanica, in vista della proibizione di ingresso a discarica di rifiuti tal quali, di una frazione secca prevalente di un residuato di frazione umida, dopo la raccolta in via differenziata dei rifiuti organici domestici, dei mercati e della ristorazione; un residuale tendenziale del 10 per cento (ma attualmente l'Olanda lavora sullo zero per cento residuo del rifiuto a discarica); produzione di combustibile; produzione di ulteriore ammendante anche per ripristini ambientali; utilizzo del combustibile in utenze dedicate (impianti di combustione con recupero energetico e, dunque, griglie o letti fluidi) e schemi cogenerativi a seguire (quindi, recupero di calore, oltre che di elettricità, nonché produzione di freddo).
E' noto da molto tempo che la localizzazione ottimale di un impianto di recupero energetico è una grande area annonaria, un grande mercato generale o un'utenza ospedaliera, laddove vi sia una certa costanza di assorbimento di energia elettrica, di calore e di freddo. Il combustibile può altrimenti andare ad utenze preesistenti. Qui si apre un tema importante per il nostro paese: ebbi l'onore di partecipare, nella metà degli anni settanta, alle ricerche che il Consiglio nazionale delle ricerche sviluppò in tema di co-combustione e di combustibile derivato da rifiuti ed alle esperienze che si svolsero in Toscana, a San Giovanni Valdarno, sulla centrale a lignite di Santa Barbara; tali esperienze provarono che si poteva arrivare fino al 10 per cento in peso di alimentazione di quella centrale con combustibile derivato da rifiuti. Esso può essere utilizzato nelle centrali che usano combustibile solido (carbone, lignite), nei grandi forni industriali e nei rotativi per cemento; non dimentichiamo che l'Holderbank, il più grande gruppo cementiero del mondo (svizzero-tedesco), ha come missione di gruppo quella di soddisfare almeno per il 30 per cento il fabbisogno energetico di ogni forno con combustibile derivato da rifiuti. In alcuni forni a umido lunghi (quelli da 80 metri) che il gruppo Holderbank ha in Belgio ed in Germania si arriva ad oltre il 60-70 per cento di alimentazione con combustibile derivato da rifiuti.
E' stata condotta poi un'esperienza, a livello nazionale, dal Ministero dell'ambiente insieme con l'ENEA, nella seconda metà degli anni ottanta, che ha mostrato come anche la siderurgia sia uno sbocco possibile per il combustibile derivato da rifiuti; prove compiute a Taranto diedero risultati eccellenti al riguardo. Da ultimo, rimangono utenze come la produzione di argilla espansa, i forni a tunnel per laterizi e così via, tutte utenze già validate tecnicamente, ma che necessitano di una riflessione di carattere organizzativo e, naturalmente, normativo e commerciale.
E' questo il contesto delle filiere tecnologiche sulle quali si lavora nel mondo, per quanto mi è dato di conoscere. A latere di tutto ciò, tra la raccolta differenziata e specifici flussi di rifiuto (mi riferisco a quelli che l'Unione europea definiva e definisce i flussi prioritari di rifiuto: pneumatici usati e altre tipologie di materiali), ci sono delle specificità nelle quali il nostro paese ha invece qualche posizione di punta. Se consideriamo il tema del recupero dei detriti e delle macerie di demolizione, ad esempio, in questo paese esistono operatori ed imprese che hanno sviluppato tecnologie particolarmente adeguate. Lo stesso si può dire nel campo del recupero energetico di pneumatici nell'ambito del più generale recupero energetico da frazione secca di rifiuti, plastiche da riciclo di materia e pneumatici medesimi.
PRESIDENTE. Lei sa che si sta lavorando su una ipotesi relativa all'uso di combustibile da rifiuti (CDR) nell'ambito del decreto di attuazione del decreto legislativo Ronchi. Siamo nella fase di concertazione tra i vari ministeri e circolano già delle bozze ufficiali. Del CDR così com'è stato ipotizzato nelle schede tecniche del decreto attuativo lei dà una valutazione problematica , oppure ritiene che, così come ipotizzato, tale combustibile possa avere un effettivo futuro in Italia? Può riassumerci, con una sua valutazione, le problematiche attuative di questa specifica scheda?
WALTER GANAPINI, Presidente dell'AMA di Roma. Conoscendo la sua esperienza personale, presidente, e quella dei suoi colleghi, che da molto tempo lavorano su questo tema, cercherò di essere estremamente sintetico, consapevole che avete perfettamente presenti i corni del dilemma.
Quando si parla di produzione di combustibile da rifiuto, innanzitutto si dà per superata la combustione del rifiuto tal quale; questa è la filosofia principale dell'Unione europea che, come sapete meglio di me, intende penalizzare i trattamenti indifferenziati di rifiuti. Quindi, bisogna innanzitutto stabilire che la frazione secca di rifiuto abbia un contenuto energetico particolarmente interessante. Al riguardo, bisogna ricordare che vi è stata una notevole evoluzione della composizione dei rifiuti nell'arco degli ultimi due decenni, con l'ingresso forte della plastica, che oggi ha raggiunto una presenza variabile tra il 10 e il 12 per cento sul totale della massa di rifiuti, nonché con l'ingresso forte dello schema degli imballaggi, che sono tutti composti da materiale ad elevato potere calorifico. Le valutazioni, purtroppo, non sono mai sufficienti ed io mi auguro che attraverso l'Osservatorio nazionale sui rifiuti si ponga finalmente mano alla costituzione di una base informativa sui rifiuti, poiché ancora oggi non sappiamo quanti siano effettivamente quelli che produciamo, dove vadano realmente a finire e come siano realmente fatti: ci fermiamo, con indagini merceologiche sistematiche su almeno 90-100 comuni significativi, al 1978-1979. Comunque, in base alle analisi merceologiche più recenti, sappiamo che un rifiuto solido urbano tal quale oggi ha un potere calorifico variabile tra le 2.200 e le 2.400 chilocalorie al chilogrammo; tolta la frazione umida e tolta la parte inerte più consistente (piatti rotti, lattine e così via) con grande facilità si approssimano le 3.200-3.300 chilocalorie al chilo. Dunque, in modo semplice e a basso costo - da questo punto di vista ci sono molte esperienze operative anche di grande scala - con un costo di trattamento di 50, 60 o 70 lire al chilo si arriva ad avere un materiale che ha 3.300-3.500 chilocalorie al chilo. Già a 3.300-3.500 chilocalorie il combustibile è ampiamente utilizzabile in impianti prevalentemente dedicati, pertanto il tema che il legislatore e il Governo nelle sue varie componenti, nello schema di concertazione che lei richiamava, devono valutare è se serva...
PRESIDENTE. Questo significa che può avere mercato?
WALTER GANAPINI, Presidente dell'AMA di Roma. Ci sono i nuovi inceneritori. Se in una città di 150-200 mila abitanti si vuole realizzare un nuovo impianto, si estrae dai suoi rifiuti questo combustibile, si costruisce un nuovo inceneritore moderno - anzi un impianto di recupero energetico, come si definisce nell'Unione europea -, si dà una quota di energia elettrica e si produce calore per un quartiere, o freddo per un mercato annonario.
Laddove non sussistono queste condizioni, si può cercare la valorizzazione di tutto ciò che già esiste - quindi i cementifici, le centrali termoelettriche, le fabbriche che producono argilla espansa, gli impianti siderurgici - e che possa assorbire questo materiale. Ma, probabilmente, si preferirebbe assorbirne uno più ricco sul piano della qualità energetica. Esistono importanti gruppi industriali di questo paese - che esprimono, forse, il secondo o il terzo fatturato su scala nazionale - che si stanno ponendo il tema e lo hanno già rappresentato al Ministero dell'ambiente. Ho appreso come collaboratore del presidente Di Staso nella gestione dell'emergenza rifiuti nella regione Puglia che si sono già fatti avanti presso le regioni in emergenza sostenendo di essere in grado, brevetti alla mano, di produrre un combustibile a 5.200 chilocalorie al chilogrammo.
Quando si arriva a questo risultato unendo la parte secca dei rifiuti con un po' di plastica, un po' di pneumatici, un po' di sfridi di imballaggi e così via, si arriva al livello del carbone. Ricordo che oggi l'ENEL importa, ogni anno, tra i 9 e i 10 milioni di tonnellate di carbone. Una volta, quando si studiava, si diceva che il polverino di carbone ha un potere calorifico di 7.500 chilocalorie al chilogrammo; oggi l'ENEL importa, dal Venezuela e da altre zone del mondo, carbone a 5 mila, massimo 5.500 chilocalorie al chilo. A questo punto, probabilmente, il tema è di politica energetica in senso lato ma anche di politica industriale: se consideriamo che l'ENEL importa 10 milioni di tonnellate di carbone a 120 lire al chilo, arriviamo orientativamente a 1.000-1.200 miliardi nella voce import di questo paese. Non apparirebbe fuori di luogo, perciò, cominciare a sostenere - e lo sostengono importantissimi gruppi industriali italiani - che a 80 lire al chilo l'Italia è in grado di produrre un materiale assolutamente concorrente di quello importato e tutto di produzione endogena, in più risolvendo un problema ambientale.
E' una riflessione che riporto in questa sede perché ormai è formalizzata a livello di dibattito pubblico; ma naturalmente, come sempre, la soluzione del problema del combustibile verrà dalla sommatoria di più possibilità: impianti dedicati, rifacimento di impianti esistenti, utenze di tipo industriale già esistenti, utenze termoelettriche. Credo che in questo mix vada trovata la soluzione ad una scelta che è, in qualche modo, obbligata e che personalmente condivido: quella di arrivare ad utilizzare come combustibile ciò che realmente di combustibile è presente nei rifiuti, quindi non pezzi di vetro come il bicchiere rotto e così via.
Le chiedo scusa, presidente, per non aver trattato ancora il tema della tariffa.
PRESIDENTE. Stavo proprio per chiederle se l'AMA abbia predisposto uno studio specifico e, in caso di risposta affermativa, se sia possibile per la Commissione acquisirlo.
WALTER GANAPINI, Presidente dell'AMA di Roma. Non sotto la mia presidenza - quindi non sto parlando pro domo mea - si dice che l'AMA abbia dato un contributo fondamentale all'elaborazione della proposta Federambiente-CISPEL; diciamo, quindi, che la proposta AMA è confluita nella proposta Federambiente-CISPEL. Sarà comunque mia cura far pervenire alla Commissione il testo della riflessione che è stata operata.
Contestualmente, l'AMA sta collaborando con la commissione di lavoro che l'Osservatorio sui rifiuti ha istituito d'intesa con l'ENEA e con altri organismi, tra i quali l'ANPA, su questo tema delicatissimo.
L'aspetto al quale, in questi giorni, l'AMA sta dedicando la massima attenzione è quello dell'evasione, essendoci chiaro che lo sforzo che il paese sta compiendo e che il Governo gli chiede per entrare nell'Unione europea implica dei vincoli che si riflettono, a cascata, sui comuni. Essendo il tema della finanza derivata traumatico per le aziende municipalizzate, anche l'AMA risente traumaticamente di questi limiti: basti pensare che oggi l'AMA ha costi più elevati di quanto il comune non sia in grado di trasferire come tassa rifiuti. Stiamo quindi lavorando per ridurre drasticamente quei costi e per riportare efficienza, ma il tema più delicato rispetto a tutti gli altri per quanto riguarda Roma è quello dell'evasione totale o parziale della tassa. Nello specifico, abbiamo un progetto interno, che si sostanzierà anche in nuova occupazione, sul recupero di quest'evasione. Finora abbiamo lavorato su 50 mila utenze rispetto alle 980 mila che rappresentano l'universo attualmente noto a Roma; un universo che poi bisognerà aggiornare, perché la situazione del catasto è molto delicata ed anche perché vi sono forme di abusivismo. Ad ogni buon conto, su 50 mila utenze esaminate, è emersa un'evasione totale o parziale di oltre 6 miliardi di lire che, moltiplicato per venti (in rapporto cioè al totale delle utenze), fa circa 140 miliardi di lire su base annua solo per la città di Roma. Dobbiamo recuperare per intero quest'evasione, se non vogliamo trovarci di fronte a problemi traumatici quando, nel 1999, passeremo al sistema a tariffa: l'AMA dovrà autofinanziarsi per quella via e stiamo dedicando il massimo delle risorse a quest'aspetto.
PRESIDENTE. Non essendovi altre domande, la ringraziamo.
Ascoltiamo ora l'ingegner Angelo Felli, che abbiamo invitato a titolo personale perché portatore di un'esperienza molto vasta in tema di interventi di bonifica in siti contaminati. Prima di dargli la parola, informo i colleghi che nel corso della sua esposizione l'ingegner Felli proietterà una diapositiva che sarà allegata al resoconto stenografico.
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. La ringrazio, presidente, anche a nome del gruppo che ho coordinato fino ad oggi, e mi pregio di consegnare alla Commissione l'ultimo documento da noi redatto.
Specifico che in questa audizione parlo a titolo personale ed esprimo il mio pensiero maturato nell'ambito del gruppo di studio da me coordinato.
Prima di soffermarmi su alcuni punti salienti, vorrei esporre l'attività svolta nell'ambito del gruppo. La prima esperienza da noi posta in essere risale al 1992. Al nostro gruppo si sono uniti spontaneamente molti soggetti in rappresentanza dell'industria, delle regioni e degli enti pubblici. Oltre al problema dello studio specifico delle normative, abbiamo lavorato sul campo ed abbiamo scelto tre casi specifici da esaminare. Ci siamo avventurati - uso questo termine perché, scaturendo il nostro gruppo da una libera iniziativa, non avevamo fondi su cui contare - ad effettuare un'attività di studio a Latina - ho con me il rapporto finale - che ha riguardato un caso tipico di discarica con cui si ha a che fare in particolare per ciò che riguarda il problema dei siti contaminati. Un'altra esperienza, che è ancora in corso, riguarda un'industria dismessa situata nel comune di Fidenza, in provincia di Parma.
PRESIDENTE. La discarica di Latina era destinata a rifiuti solidi urbani?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Si tratta di una delle discariche precedenti al decreto n. 915 e quindi risalenti a prima del 1982, che in effetti erano "dette" discariche per rifiuti solidi urbani.
La seconda esperienza, che è ancora in fase di completamento, come ho detto, riguarda un'industria dismessa che inizialmente produceva tetraetile di piombo. L'ultima esperienza verrà condotta a Milano su un sito del comune di Bollate, in cui vi è una discarica di circa tre ettari di rifiuti tossico-nocivi. Com'è evidente, si tratta delle tre tipologie che di norma ci si trova ad affrontare.
Il dibattito sviluppatosi nell'ambito del gruppo è scaturito sia dalla normativa e dal raffronto con gli altri paesi sia dalla necessità di trovare effettivamente una fattibilità di campo, come dicevo, non solo da parte di enti pubblici o di amministratori ma anche dell'industria: del nostro gruppo fanno parte l'Enichem, l'Aquater, tutti operatori che o hanno problemi, come la ESSO ed altri, o che si attrezzano per poter affrontare in futuro questi problemi. Con gli amministratori locali abbiamo anche parlato dei piani di bonifica, di cosa siano oggi e di come si potrebbero migliorare. Attualmente lavoro all'ANPA e sono impegnato in un'attività di studio per la preparazione della normativa tecnica, in ordine alla quale successivamente potrò manifestarvi il mio pensiero.
Tutto ciò premesso, vorrei ora entrare nel vivo del problema. Prima di iniziare a parlare sia di censimento o di piani di bonifica sia di obiettivi di risanamento, vorrei che venissero tenuti in considerazione alcuni punti. Un sito contaminato è già in essere una fonte di danno: non di rischio, di danno, un danno che c'è e che, se non si fa niente, continuerà ad inquinare. Quindi, si pone il problema di fare qualcosa e di farlo quanto prima possibile.
In secondo luogo, vi è il fatto che in Italia, così come peraltro negli altri paesi, i siti noti da bonificare sono circa 10 mila ma, se a questa cifra aggiungiamo uno zero ed arriviamo a 100 mila, certamente non ci sbagliamo, come d'altronde ci dimostra la realtà di altri paesi. Quindi, il problema ha una dimensione enorme ed i costi da affrontare per risolverlo sono quanto mai ingenti; i piani di bonifica serviranno proprio a determinare delle priorità d'intervento in funzione della pericolosità dei siti. E' un'attività che durerà quindici o vent'anni, non pensiamo che la si possa esaurire in qualche giorno o qualche mese. Certo che alcuni aspetti di cautela vanno tenuti in considerazione e di questo ci occuperemo anche all'atto della definizione degli obiettivi dell'intervento.
Un'ultima considerazione riguarda il tema della prevenzione. E' importante pulire, ma è ancora più importante non sporcare, per cui bisogna in qualche modo cercare di focalizzare l'attività normativa per far sì che la volta che si pulisce un sito, se ne abbia uno in meno da pulire, altrimenti il problema non si risolverà mai.
Quanto al problema principale del censimento, ho visto alcune osservazioni fatte in proposito dalla Commissione, osservazioni riguardanti in particolare alcuni piani di bonifica non completi né esaustivi, perché non hanno considerato alcuni aspetti o perché magari non hanno tenuto nel debito conto le industrie dismesse. I piani di bonifica così come sono stati concepiti nel 1989, con il decreto del Ministero dell'ambiente datato 16 maggio 1989, avevano un vizio di base: erano concepiti in risposta a denunce, prendevano cioè a riferimento le denunce pervenute alle regioni, ai carabinieri ed a qualunque altro ente amministrativo, per cui tutti i casi occulti non potevano essere chiaramente evidenziati e messi in luce. Il decreto Ronchi estende la visione del piano di bonifica alle industrie previste dalla legge n. 175, ma questo ancora non basta. Quella legge individua industrie ad alto rischio caratterizzate da certe pericolosità, ma probabilmente ne esistono altre di gran lunga più piccole che hanno prodotto danni più elevati. Quindi, la cosa va estesa non tanto alle industrie classificate per pericolosità quanto alle tipologie di processo attuato.
Il problema non è avere un censimento completo, perché si tratta di un impegno continuo da realizzare giorno per giorno. Il piano di bonifica è un qualcosa di dinamico: oggi offre una fotografia, domani alla luce di nuove scoperte ne offrirà un'altra più aggiornata, ed alla fine in poco tempo si avrà una visione completa.
Di censimenti ne sono stati fatti tanti. Già prima del decreto del 16 maggio 1989 vi era stato un censimento su iniziativa della protezione civile, in cui veniva indicato un certo tipo di discariche; quel lavoro poi è stato abbandonato e ne è stato fatto un altro. Probabilmente, se tutti questi lavori convergessero verso una qualche struttura che ne facesse un quadro complessivo, alla fine si riuscirebbe ad avere una sintesi abbastanza completa.
In merito ai suggerimenti da dare per arrivare ad una visione più completa di questo sistema, occorre dire che ci sono ancora regioni inadempienti, le quali non hanno preparato i piani di bonifica. Probabilmente lo Stato potrebbe intervenire in proposito; il ministro Ronchi alla conferenza delle agenzie di Torino aveva espresso la sua ferma intenzione, dicendo che ci sarebbe stato anche un intervento sostitutivo dello Stato.
PRESIDENTE. Mi scusi, sa dirmi quali regioni sono inadempienti? Può farci un elenco?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Certamente la Campania e la Calabria; comunque, posso farvi avere un elenco completo.
PRESIDENTE. Grazie, ne abbiamo bisogno.
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Occorre aggiornare le basi di riferimento con cui fare il censimento. Questo non significa che i piani di bonifica attuali sono da buttare, assolutamente no; costituiscono un primo elemento che va aggiornato. E' stato fatto semplicemente un censimento sulla base delle denunce, mentre dovranno essere prese in considerazione tutte le industrie dismesse che probabilmente non saranno mai denunciate Sono all'interno di quattro mura, nessuno le vede: a chi danno fastidio?
PRESIDENTE. In questo senso, proprio per arrivare ad un censimento serio, vi è una task force in azione presso l'ANPA o presso qualche ministero?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Il censimento è un obbligo attribuito alle regioni, che dovrebbero effettuarlo. Penso che il ministero dovrebbe in qualche modo dare indicazioni diverse da quelle date sino ad oggi.
VITTORIO MUNDI. Alla data cui faceva riferimento l'ingegnere, cioè nel 1989, i censimenti vennero attuati su iniziativa delle prefetture.
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. L'iniziativa precedente è stata quella della protezione civile che l'ha assunta su base nazionale. Il decreto del 16 maggio 1989 è del Ministero dell'ambiente; traccia delle linee guida, appena dopo la legge n. 441, demandando alle regioni il compito di redigere i piani di bonifica. Molte di queste si sono attrezzate, facendo un lodevole lavoro, sia pure dotandosi di metodi diversi; in ogni caso, i lavori sono stati prodotti, per cui questi risultati esistono, ma vanno migliorati. E' una base di riferimento iniziale, che va ampliata e migliorata fino ad avere un quadro completo.
Il concetto iniziale per cui il piano di bonifica fotografa realmente la situazione del paese non è vero. A livello culturale questo problema sembra essere stato abbastanza dibattuto ed essere anche acquisito: il piano di bonifica è un processo dinamico che si aggiorna via via con le nuove scoperte. La stessa Commissione, avendo alcune informazioni, potrà in qualche modo aiutare le regioni a migliorare le loro conoscenze. Il concetto è semplicemente quello di spronare affinché i piani vengano migliorati e completati.
Vi è stato, quindi, uno specifico decreto del Ministero dell'ambiente che per la prima volta ha posto in essere un buon riferimento da cui partire per quanto concerne la bonifica; su questo si è lavorato, ma bisognerà migliorare. Si dovrebbe cercare di preparare una lista nazionale, che attualmente non esiste. I piani di bonifica sono stati dati al ministero, che avrebbe dovuto - in alcuni casi l'ha fatto - approvarli per poi procedere ai finanziamenti in relazione alle priorità di intervento stabilite; manca il quadro complessivo di tutti i siti contaminati presenti in Italia. Questa base di riferimento è abbastanza importante e potrebbe dare origine a studi interessanti, predisponendo progetti standardizzati per varie tipologie, il che comporterebbe un enorme abbattimento dei costi.
Per dare una maggiore spinta ai piani di bonifica sarebbe opportuno che i cosiddetti progetti speciali fossero limitati al massimo. Se c'è un piano di bonifica che indica le priorità, il progetto speciale dovrebbe rappresentare il caso veramente eccezionale. E' come andare alla posta, fare la fila e poi arriva uno che passa davanti. Questo per quanto riguarda il problema del censimento, relativamente al quale eventualmente posso rispondere a domande specifiche.
L'altro tema, molto più spinoso, riguarda gli obiettivi di bonifica: fino a quanto bonificare e dove pervenire. Abbiamo detto che un sito contaminato è un suolo che, assoggettato a certe attività antropiche, presenta concentrazioni di sostanze tossico-nocive, o comunque pericolose, diverse dal suolo circostante. E ciò provoca danni all'uomo e all'ambiente. In una situazione di questo genere è possibile pulire il terreno al massimo: ambientalmente parlando è possibile arrivare al valore zero. Si spende molto di più, naturalmente.
Prima ho premesso che di siti da bonificare ce ne sono centinaia di migliaia. Se si volesse bonificare per portare tutto a zero, forse nella vita si riuscirebbe a bonificare un solo sito. Anche perché i costi di bonifica corrono su un'iperbole: arrivato ad un certo valore, il decremento che si ottiene al livello di concentrazione al suolo comporta costi molto più elevati.
Se ci si vuole portare ad un valore diverso da zero, si deve cercare di capire come muoversi. I riferimenti scientifici per potersi muovere su questa scala sono due: il fondo naturale e le valutazioni di rischio. Ci sono poi le esperienze, c'è il pragmatismo: individuare su quali basi si muovono questi ultimi riferimenti non è scientificamente corretto. Bisognerebbe verificare i numeri per vedere a quali risultati si perviene. Purtroppo però oggi non posso fornire i numeri, perché sono in discussione con il sistema delle agenzie, e quindi non sarebbe corretto tirare fuori dei valori.
I criteri con cui potersi muovere su questa scala sono - lo ripeto - il fondo naturale e le valutazioni di rischio. Parlando del fondo naturale, occorre tener presente che in natura le sostanze organiche inquinanti non esistevano: sono state prodotte dall'uomo. Il fondo naturale può essere utile per "intavolare" numeri in riferimento ai metalli pesanti; per quanto riguarda invece la parte organica gli unici riferimenti sono le valutazioni di rischio.
Per dare un'idea di quanto le valutazioni di rischio possano essere efficaci, chiarisco che applicando le stesse metodologie ai metalli pesanti, si ricavano valori più bassi di quelli che indicano il fondo naturale. Dico questo per far comprendere di quali metodologie parliamo, di quali conservativismi incontriamo nelle sperimentazioni.
A livello internazionale ci si sposta un po' più a valle di questo valore zero e si assumono degli iniziali valori di screening. Ciò significa che quando si va sul campo per giudicare se il suolo è da considerare potenzialmente contaminato o meno, si devono avere dei riferimenti. Questi riferimenti, detti appunto valori di screening, costituiscono la prima base su cui l'operatore giudica se un certo sito è o non è da considerare potenzialmente contaminato, con la conseguenza che nel primo caso si continuano ad effettuare studi e nel secondo lo si mette in archivio.
Il nodo cruciale che si deve sciogliere nel dibattito che si sta svolgendo anche in Italia è se i valori di screening devono essere considerati unici sull'intero territorio nazionale oppure se possono esserci valori diversi per le varie zone, considerando che il territorio italiano è configurato in modo che vi sono zone che presentano una "capacità intrinseca" di protezione ed altre che invece sono più vulnerabili. Potrebbe pertanto essere utilizzato un valore da una parte e un diverso valore dall'altra.
PRESIDENTE. E' una forma di federalismo, insomma!
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Un federalismo dei terreni...
Questo è nell'ottica di cercare di bonificare il massimo dei siti possibile. Avendo centinaia di rubinetti che stanno perdendo, si può decidere di installarne uno d'oro tralasciando per il momento di sostituire gli altri; oppure si può decidere di utilizzare rubinetti di acciaio inossidabile cercando di sostituirne o di ripararne quanti più possibile.
Ho chiarito all'inizio che un sito contaminato non è un rischio ma un danno sul quale occorre intervenire. Ho peraltro segnalato che in materia è in corso un ampio dibattito e ho indicato gli elementi che vengono portati a favore e contro nell'ambito di tale dibattito.
Vediamo anzitutto che cosa significa andare oltre il valore iniziale di riferimento, considerando la capacità dei suoli italiani ad una protezione intrinseca. Significa potersi spostare di un fattore che va da 10 fino a 50: in pratica si sposta il valore iniziale di 50 volte. Ciò va verificato, però, caso per caso. La difficoltà dell'applicazione sta nel fatto che effettivamente esistono professionisti che presentano studi un po' artefatti; d'altra parte vi è anche la possibilità (mi riferisco alla documentazione dell'EPA) di verificare il valore indicato dal professionista sulla base di una normativa specifica, cioè di prove di laboratorio fattibili anche nell'ambito delle nostre USL. Le formulette con cui si può deviare da questo riferimento non sono complicatissime: bisogna ancora studiare, ma si può comunque arrivare ad individuarle.
Si può poi andare ancora oltre la protezione intrinseca del suolo. Il decreto Ronchi ha introdotto il concetto di messa in sicurezza. Si tratta di sistemi in grado di assicurare effettivamente che al di là di certi confini fisici le matrici ambientali siano adeguatamente protette. Una gestione di questo tipo comporta alcuni problemi. Innanzitutto vi è una difficoltà che riguarda le industrie in esercizio. Infatti non si può pensare di bonificare il suolo prima smantellando e poi rimontando l'impianto; sarebbe sicuramente complicato. E' invece fattibile una serie di attività di messa in sicurezza che assicurino la sussistenza dei requisiti ambientali richiesti all'esterno di un certo confine. Con il tempo, poi, si dovrà arrivare anche alla bonifica di quel sito (ma su questo punto il dialogo con l'industria è abbastanza avanti).
Si tratta quindi di sanare due segmenti importanti: il sito residenziale, nel quale lo screening level si attua con una piccola variazione rispetto ai valori iniziali, e le industrie in esercizio. A mio avviso vi è un grosso problema sul segmento del riutilizzo dei siti industriali dismessi: su questo versante - che considero più grave - ancora oggi non sono in grado di fornire una risposta (ma lo stesso vale per altri tecnici). Si tratta in sostanza di riutilizzare un sito dismesso in presenza di contaminazioni in atto. Il problema si pone perché il sito industriale costa molto di meno di quello residenziale. Fino a che punto è possibile procedere ad una bonifica? Le valutazioni di rischio consentirebbero anche di arrivare a qualche valore diverso, però si tratta ancora di livelli troppo bassi per essere sopportati anche dalla reintegrazione di un sito industriale; inoltre i valori vengono comunque diversificati in relazione alla destinazione d'uso.
Ho concluso, presidente. Resto a disposizione per rispondere ad eventuali domande.
PRESIDENTE. La ringraziamo perché ci ha offerto una serie di approfondimenti su problematiche molto interessanti, che sono all'attualità dei lavori del Parlamento. Soltanto due rapide domande. La prima riguarda Bagnoli. Lei in precedenza ha accennato ad alcuni aspetti specifici concernenti aree particolari: a suo parere l'area di Bagnoli poteva essere inserita in un programma standardizzato?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Innanzitutto, l'area di Bagnoli avrebbe dovuto essere inserita in un piano di bonifica; la regione Campania dovrebbe occuparsene, così come hanno fatto altri. Si tratta infatti di un'industria dismessa appartenuta all'IRI, cioè allo Stato; spetta pertanto a quest'ultimo accollarsi l'onere della bonifica. A mio avviso però l'area di Bagnoli doveva essere inserita in un piano di bonifica: non so se ciò sia stato impossibile a causa del sopravvenire di altre urgenze...
PRESIDENTE. E' il classico esempio da lei citato di chi si presenta dietro alla coda nell'ufficio postale...
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Vorrei dire che il concetto di pianificazione rientra un po' nella mia cultura: io credo che si dovrebbe arrivare a pianificare, ma poi noi italiani siamo un po' fantasiosi...
PRESIDENTE. Una seconda domanda. Si sta lavorando, magari presso il Ministero dell'ambiente, ad un decreto attuativo sui limiti di accettabilità dei suoli? Può rispondere su questo aspetto?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Le dico quello che stiamo facendo noi, ma penso che in una precedente audizione il dottor Mascazzini le abbia già riferito qualche elemento. A livello di ANPA stiamo preparando bozze di normativa per dar seguito a tre punti inseriti nell'articolo 17 del decreto: criteri e metodo per la messa in sicurezza e per la bonifica (è un documento condiviso con il sistema delle agenzie ARPA); procedure di campionamento e di analisi (anche questo documento è condiviso con le ARPA); livelli di accettabilità.
Il punto dolente riguarda proprio i livelli di accettabilità, sul quale vi è ancora discussione.
PRESIDENTE. Lei presume tempi ancora piuttosto lunghi?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Preferirei non fare ipotesi sulle date: ho già tentato più di una volta, ma senza mai indovinarle...
PRESIDENTE. Gliel'ho domandato perché è in discussione in Parlamento una proposta di legge sulla bonifica dei siti contaminati. Dovremmo sapere se l'articolo 17 del decreto legislativo n. 22 del 1997, il cosiddetto decreto Ronchi, possa essere esaustivo - attraverso l'emanazione dei decreti attuativi - di tutta la problematica relativa alla bonifica dei siti. In caso contrario, dovremmo cogliere l'occasione di un iter parlamentare nuovo - e quindi diverso - per definire una legislazione compiuta nel settore. Capisco che si tratta anche di scelte politiche, ma vorrei conoscere il suo parere tecnico sull'argomento: l'articolo 17 può essere un contenitore delle esigenze del nostro paese sotto il profilo delle bonifiche?
ANGELO FELLI, Rappresentante dell'ANPA. Il problema delle bonifiche è vastissimo. L'articolo 17 si occupa di due o tre punti, ma le cose vanno ampliate. Anzi: si dovrebbe cercare di lavorare non tanto attraverso la normativa di legge, quanto facendo ricorso a documenti più flessibili; più autorevoli che autoritari.
Il problema delle bonifiche non attanaglia solo l'Italia: è il mondo intero che non sa dove andare a sbattere la testa. L'EPA ha uno strumento più flessibile per lavorare perché può modificarlo rapidamente: ma questo lo stanno facendo anche gli altri paesi. In Italia siamo un po' troppo rigidi e non so se riusciremo ad arrivare a qualcosa di diverso. L'articolo 17 del decreto Ronchi tratta solo alcuni aspetti dell'attività di bonifica ma le cose sono molto più complesse.
Se l'articolo 17 potrà essere utilizzato per attività più complessive o se verranno individuati altri strumenti normativi, non saprei dire: non sono un esperto in organizzazione legislativa.
PRESIDENTE. La ringraziamo e faremo tesoro delle sue valutazioni.
La Commissione tornerà a riunirsi giovedì 12 febbraio 1998, alle ore 13,30, con all'ordine del giorno l'audizione del dottor Cordova, del dottor Di Pietro, del dottor Cafiero de Raho e dei dottori Massei e Ceglie.
La seduta termina alle 15,45.
A L L E G A T O: Grafico mostrato dall'ingegner Antonio Felli nel corso dell'audizione.(Disponibile nell'edizione definitiva in formato PDF).