CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA
COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA
SUL CICLO DEI RIFIUTI E SULLE ATTIVITA'
ILLECITE AD ESSO CONNESSE
13.
SEDUTA DI GIOVEDI' 9 OTTOBRE 1997
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MASSIMO SCALIA
INDICE
Sulla pubblicità dei lavori. *
Audizione dei rappresentanti dell'Unione nazionale comuni comunità enti montani (UNCEM), della Lega delle autonomie locali e dell'Unione delle province italiane (UPI). *
La seduta comincia alle 18,30.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).
PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, rimane stabilito che la pubblicità della seduta sia assicurata anche mediante l'attivazione dell'impianto audiovisivo a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione dei rappresentanti dell'UNCEM, della Lega delle autonomie locali e dell'UPI.
I nostri ospiti sono sicuramente a conoscenza dei compiti attribuiti dalla legge istitutiva a questa Commissione d'inchiesta nonché dell'ambito di interesse nel quale si svolge la nostra attività. Vorremmo quindi acquisire le vostre valutazioni, in generale, sulle problematiche connesse al ciclo dei rifiuti e, in particolare, sull'impatto applicativo del decreto Ronchi. Ovviamente, siamo anche interessati a conoscere quali siano i problemi da voi incontrati nella gestione quotidiana di questo specifico settore.
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Come presidente dell'UNCEM, rappresento i comuni montani e, soprattutto, le comunità montane, realtà che negli ultimi anni hanno saputo fornire una risposta ai problemi legati allo smaltimento dei rifiuti. Alcuni mesi fa, abbiamo svolto un'indagine dalla quale è emerso come in tutta Italia si registri una percentuale altissima di comuni che hanno delegato lo smaltimento dei rifiuti alle comunità montane da essi stessi costituite. Siamo a conoscenza di comunità montane che, direttamente o sulla base di formule associative, gestiscono discariche in quasi tutte le regioni italiane.
PRESIDENTE. E' in grado di fornirci dati quantitativi rispetto al quadro che sta configurando?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Purtroppo, non ho con me la relativa documentazione.
PRESIDENTE. La preghiamo, allora, di trasmetterla tempestivamente alla Commissione.
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Lo farò senz'altro, presidente.
Per noi, si è trattato di una scoperta, che ci ha indotto ad esaminare con grande interesse il decreto Ronchi, fin dalla fase della sua predisposizione, quando abbiamo chiesto che nel provvedimento fossero inseriti riferimenti alla tematica delle zone rurali, marginali e montane. Purtroppo - è questo il nostro punto di vista - il decreto non ha tenuto in grande considerazione queste realtà. Ciò è facilmente comprensibile, ove si consideri che la gran mole dei rifiuti gravita intorno alle grandi zone urbane, alle città, nelle quali si concentra un alto tasso abitativo, dove ci sono le industrie, dove, in definitiva, si avverte maggiormente la necessità di un intervento idoneo a risolvere il problema di smaltire quantitativi di rifiuti spesso enormi e mal gestiti.
Eppure, la periferia, la montagna e le zone rurali hanno assistito in passato ad una disseminazione di rifiuti, tanto che dappertutto vi sono discariche abusive, piccole, piccolissime o medie. Una ricerca condotta alcuni anni or sono dal Corpo forestale dello Stato la dice lunga a questo proposito: in tutte le zone rurali, nei boschi o fuori di essi, esistono discariche.
L'intervento dei comuni - e soprattutto delle comunità montane - in questo settore aveva cominciato a rendere concreta la prospettiva di un'inversione di tendenza. L'emanazione del decreto Ronchi, invece, rischia di introdurre elementi di notevole difficoltà dal nostro punto di vista, nel momento in cui individua una serie di percorsi che, pur probabilmente agevoli per le grandi città, che dispongono di risorse e che hanno la possibilità di avvalersi dell'investimento dei privati, non tengono comunque in considerazione il carattere peculiare della nostra realtà. In quest'ultima, i quantitativi di rifiuti sono sicuramente molto più modesti, ma non per questo meno inquinanti; soprattutto, è più difficile stimolare l'interesse dell'industria privata ad operare sotto l'egida delle autorità locali, in linea con le norme del decreto Ronchi.
PRESIDENTE. Se ho ben compreso, i comuni che afferiscono alle comunità montane hanno trovato in queste ultime l'interlocutore naturale per la gestione del problema dei rifiuti. In che modo le comunità montane procedono a questo tipo di gestione e quali risultati sono stati conseguiti?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. In genere, le comunità montane hanno realizzato discariche nell'ambito della programmazione regionale o provinciale, o comunque della normativa in vigore nelle varie regioni; tali discariche sono normalmente gestite in proprio, oppure attraverso aziende alle quali le comunità, pur mantenendo la responsabilità gestionale, appaltano il servizio.
PRESIDENTE. Le risulta che l'appalto ad aziende private sia predominante?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Nella gestione della discarica, no. E' più facile, invece, che le aziende private assumano l'appalto per il trasporto, la raccolta dei materiali ed il conferimento nelle discariche piuttosto che per la gestione di queste ultime. Se il privato entra nella gestione delle discariche, ciò avviene perché l'azienda privata ha partecipato alla realizzazione; la gestione spetta comunque alla comunità montana, che controlla tutto e che conferisce una parte del prezzo pagato dai comuni o dai privati all'azienda che si è associata all'atto della realizzazione della discarica. Praticamente, si può dire che in questo caso avvenga una consegna "chiavi in mano" alla comunità montana.
La nostra preoccupazione è che, mentre si privilegiano le grandi gestioni e le grandi soluzioni nei pressi delle città, spesso ciò che avviene in periferia finisca per essere non dico fuorilegge ma sicuramente non più ascrivibile alla categoria degli interventi di tipo prioritario; ne deriva un ulteriore rischio sotto il profilo dell'acquisizione dei finanziamenti e dei vantaggi conseguibili dal punto di vista privatistico.
La preoccupazione è legata anche ai costi che dovrebbero essere sopportati dalle popolazioni; se il tutto, così come sicuramente avverrà per effetto di una gestione di tipo prevalentemente provinciale, finirà per incentrarsi in grandi discariche in piano, nei pressi delle città, i costi di smaltimento a carico dei comuni saranno enormi e, quindi, il riflesso che ne deriverà a carico dei cittadini sarà altrettanto pericoloso ed enorme. Si tratta di un dato che va tenuto presente: queste riforme, che sotto il profilo delle aspettative appaiono di grande rilevanza, finiscono per non essere attentamente valutate sotto il profilo degli effetti che ne derivano in capo ai cittadini, soprattutto in capo a coloro che si trovano nelle zone più lontane dagli impianti, sui quali ricadranno altissimi costi di trasferimento.
PRESIDENTE. Non crede che la situazione particolare delle comunità montane e delle aree rurali e marginali dovrebbe indurre a stimolare fortemente una raccolta differenziata dei rifiuti realizzata in maniera mirata, in modo da riuscire a conferire, a chi li voglia recuperare, materiali aventi un certo pregio, quali l'alluminio e il vetro?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Sì, certo. Le discariche, quasi dappertutto, si stanno collegando - o lo sono già da tempo - a raccolte differenziate, che peraltro, nell'ipotesi in cui nell'ambito della provincia o del territorio di riferimento dovessero realizzarsi inceneritori, dovranno poi essere modificate, sotto il profilo dei criteri adottati, dal momento che in futuro potrebbe risultare opportuno, per ovvi motivi, che i materiali oggi incanalati nella raccolta differenziata siano destinati ad un impianto con recupero di energia e di calore. Anche tale prospettiva imporrà una grossa trasformazione degli impianti che - ripeto -, essendo modesti e non offrendo quindi vantaggi particolari per l'industria privata, finiscono per essere a totale carico dei comuni e degli utenti.
PRESIDENTE. Le chiedevo se una raccolta differenziata effettuata in modo molto spinto possa consentire di individuare direttamente, ovviamente nell'ambito di alcuni bacini di utenza (non comune per comune), magari attraverso la comunità montana, gli operatori interessati ad utilizzare un certo prodotto.
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. I costi sarebbero enormi. Se si considera una popolazione media di 3-4 mila abitanti, come accade spesso sull'Appennino...
PRESIDENTE. E' per questo che parlavo di un bacino di utenza, che potrebbe essere definito dalla comunità montana.
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. Le faccio un esempio della comunità montana della quale sono presidente. Si tratta di un territorio di 150 chilometri quadrati, con una popolazione di 38 mila abitanti: lei può immaginare quale tipo di vantaggio potrebbe esservi e a quali costi: il vantaggio ecologico esisterebbe certamente, così come quello igienico-sanitario. Noi, tra l'altro, abbiamo un'esigenza ulteriore, perché spesso la montagna tenta di lanciarsi, quando non lo ha fatto già, nel settore del turismo. E' evidente che non c'è niente di peggio che vedere fiumi, boschi e prati pieni di rifiuti di qualsiasi genere. Questa sarebbe sicuramente la più brutta carta di presentazione per qualsiasi visitatore!
Il decreto Ronchi, secondo me, non ha tenuto conto di tutto questo.
PRESIDENTE. Mi fa piacere che lei consideri quelle che sono eufemisticamente definite externalities come aspetti da integrare nella valutazione del costo complessivo: fiumi contaminati o suoli inquinati oppure cosparsi di rifiuti implicano un costo che andrebbe computato nel momento in cui si pensa ad un bilancio complessivo costi-benefici.
Quali suggerimenti intendete proporre con riferimento al decreto Ronchi?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. A nostro avviso, si pone la necessità di introdurre in ambito legislativo norme che possano rendere più facilmente agevole l'individuazione di quanti abitualmente rilasciano nei territori rurali e montani quelle che a volte sono vere e proprie montagne di rifiuti. Spesso, in prossimità di strade statali e di fiumi, constatiamo l'esistenza di depositi ordinari di rifiuti provenienti da altre aree. Dovunque vi sia un'uscita autostradale che conduce in qualche località isolata, vengono riversate quantità enormi, senza che nessuno intervenga per capire da dove provengano, anche se l'individuazione sarebbe facile: basterebbe un minimo di esame dei rifiuti per capirne la provenienza. Occorrerebbe quindi una disposizione che, accanto a quella che configura come reato l'abbandono dei rifiuti, sottolineasse l'esigenza che ho prospettato.
PRESIDENTE. Lei crede che nei bilanci delle comunità montane la spesa eventualmente destinata ad istituire corpi quale quello delle guardie ecologiche, attive in alcune province, risulterebbe troppo rilevante a fronte del beneficio che ne deriverebbe?
GUIDO GONZI, Presidente dell'UNCEM. In qualche zona, i comuni hanno avuto la lungimiranza di associare presso la comunità montana di appartenenza i servizi di vigilanza comunale; l'istituzione di servizi ad hoc è però praticamente impossibile perché i costi sarebbero insopportabili. Non esiste nient'altro se non la possibilità, in qualche luogo concretizzata ma comunque non facile, di creare forme di cooperazione, per interventi di vigilanza sul territorio, tra tutti i corpi operanti (mi riferisco, ad esempio, alle persone preposte al settore della caccia e della pesca, alle guardie venatorie, ai corpi privati ed alle associazioni di volontariato); queste realtà operano un po' dappertutto ma non sempre si riesce a metterle insieme, per cui c'è chi controlla la caccia, chi i funghi, chi la flora e magari nessuno guarda - o, per lo meno, nessuno è in grado di intervenire adeguatamente - il meccanismo dei rifiuti. Ripeto: in molte zone, soprattutto in corrispondenza di svincoli autostradali o di strade statali o provinciali di grande traffico, quello dei rifiuti è diventato un problema serio.
PRESIDENTE. Non essendovi colleghi che abbiano chiesto di porre domande, la ringrazio e le rinnovo la richiesta di farci pervenire la documentazione in suo possesso affinché la situazione da lei descritta possa esserci rappresentata al meglio.
Do senz'altro la parola ai rappresentanti della Lega delle autonomie locali.
LORETO DEL CIMMUTO, Vicedirettore della Lega delle autonomie locali. A nostro avviso, le attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti trovano la loro ragion d'essere soprattutto laddove si registri un'abdicazione del ruolo e delle competenze delle regioni e delle autonomie locali rispetto al governo dell'ambiente. Tale situazione si riproduce soprattutto in mercati caratterizzati da elementi monopolistici od oligopolistici, come è nel caso dei rifiuti, rispetto ai quali si manifesta una evidente disparità di posizioni tra enti locali, molto spesso costretti a trovare soluzioni quotidiane all'emergenza rifiuti, e gruppi di pressione, che in questo contesto dispongono di un evidente potere di ricatto.
A questo si aggiunga un panorama molto variegato, ed anche contraddittorio, sullo stato dei servizi municipali. Solo il 40 per cento della popolazione fruisce di servizi gestiti da aziende di proprietà degli enti locali o di loro partecipate - è un dato confermato anche dalla Federambiente -, mentre la restante parte è gestita in concessione da aziende private. Ecco perché uno degli elementi prioritari per un intervento preventivo è dato proprio dalla verifica sui contenuti e sui vincoli posti dalle convenzioni stipulate fra enti locali e privati. Riteniamo che il controllo su queste concessioni debba essere definito alla luce di un buon governo dell'ambiente e della prevenzione di attività illecite; le attività di monitoraggio dovrebbero essere affidate anche alle regioni ed alle province (il controllo sul territorio - come sappiamo - è affidato alle ARPA, che dovrebbero essere costituite in tutte le regioni ed entrare a regime). Ai comuni, inoltre, potrebbero essere affidate le verifiche sulla coerenza tra le modalità previste dalle concessioni e la loro pratica attuazione.
Altro obiettivo prioritario è la costituzione in tutte le regioni, oltre che delle ARPA, di momenti di coordinamento fra enti locali, forze dell'ordine e magistratura per la prevenzione e il controllo di fenomeni illeciti.
Per una politica di salvaguardia dell'ambiente occorre che regioni ed enti locali attuino pienamente il decreto legislativo n. 22; in proposito devo dire che forse è prematuro parlare dell'impatto di questa normativa, trattandosi di un provvedimento molto recente. Determinare una politica di programmazione - come previsto dallo stesso decreto n. 22 - è a nostro avviso decisivo per prevenire fin dall'inizio i fenomeni illeciti. Questi si verificano anche con la complicità oggettiva degli enti locali, i quali sono spesso costretti ad adottare soluzioni dettate dall'emergenza.
Riteniamo che una delle urgenze riguardi la necessità di verificare i piani regionali, rilevando dove mancano e dove - essendo già stati adottati - vanno aggiornati in rapporto al decreto n. 22; occorre stabilire tempi certi per l'adozione o l'adeguamento dei piani, anche al fine di attivare gli interventi sostitutivi previsti dal decreto n. 22.
Per quanto riguarda il sistema dei controlli - che la normativa affida alle province - e la verifica degli interventi sulle attività di gestione dei rifiuti, si tratta anche in questo caso di trovare un momento di coordinamento con le forze di polizia e con la magistratura.
Un'ultima considerazione circa l'introduzione delle cosiddette ecotasse. Riteniamo si dovrebbe prevedere un loro utilizzo - da sperimentare e da verificare - anche per un sostegno alle realtà comunali, intercomunali e provinciali al fine di incentivare piani tesi a reintrodurre la raccolta differenziata e sistemi integrati di riciclaggio dei rifiuti.
La Lega delle autonomie locali ha predisposto nei giorni scorsi un piano di lavoro rivolto ai nostri enti associati, basato sulle seguenti direttrici: verifica e comparazione dello stato di attuazione dei piani regionali e della loro traducibilità nel contesto locale; predisposizione di un modello di pianificazione, progettazione e gestione ottimali della materia (pensiamo di proporre anche alla CISPEL un quadro di soluzioni su misura per i comuni, ovviamente a seconda della diversa consistenza demografica e delle differenti realtà locali); interazione con agenzie, enti pubblici, università ed istituti di ricerca presenti sul territorio nel quale dovrà essere calato il piano di smaltimento; formulazione di modelli di valutazione che si fondino sulla ricerca di un consenso fra le popolazioni interessate, considerando attentamente il gradimento degli utenti per la qualità dei servizi implicati.
La Lega delle autonomie locali sta lavorando in questa direzione. Ci riserviamo ovviamente di fornire alla Commissione tutte le elaborazioni che abbiamo la possibilità di produrre in materia.
PRESIDENTE. Nella sua relazione lei ha sottolineato l'aspetto riguardante i controlli. E' noto che ai diversi livelli dovrebbero esistere enti incaricati di assicurare l'attività di controllo. Vorrei capire se, accanto ai piani di progettazione di cui lei ha parlato, la Lega delle autonomie locali non abbia interesse a configurare un coordinamento dell'azione di controllo e un'operatività, ai livelli possibili, in questo settore.
Seconda domanda. Disponete della strumentazione sufficiente (oppure intendete dotarvene) per diventare una sorta di osservatorio sui controlli? Più in generale, qual è lo stato di salute delle amministrazioni per quanto riguarda il segmento rifiuti? Siete in grado di realizzare un primo censimento per cercare di capire in quali aree, in che misura, in quali situazioni si sono verificati fenomeni di malgoverno o di assenza di governo? Mi riferisco sia ai casi di incapacità amministrativa sia a circostanze di collusione o di pressione da parte dei gruppi più disparati: dai gruppi di interesse che si muovono in modo spregiudicato nel settore dei rifiuti fino alla vera e propria criminalità organizzata. In sostanza, rientra nei vostri obiettivi una descrizione dello stato dell'arte per quanto riguarda la salute amministrativa nella gestione dei rifiuti, con gli eventuali casi degenerativi?
MAURIZIO FIASCO, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. Cercherò di rispondere alle domande formulate sui problemi del controllo e dell'operatività. Premetto che sono stato consultato dalla Lega delle autonomie locali quale esperto per costruire su questo tema un piano di lavoro dell'associazione delle autonomie.
Se si vuole realizzare un efficace partenariato con istituzioni differenti dalle proprie si possono perseguire due strade. La prima direzione è quella proceduralista: si verificano i "task" che la norma assegna a ciascun ente e si stabilisce un centro di coordinamento affidato ad un'entità sovraordinata. E' una soluzione utilizzata spesso, ma che purtroppo molte volte non porta a grandi risultati. La seconda opzione consiste nel cercare di condividere un modello: si parte dalle proprie competenze per riorientare efficacemente l'azione degli strumenti disponibili e pervenire ad un modello condiviso di azioni attraverso un'iniziativa nei confronti degli altri enti (insieme con i quali sono stati individuati i risultati da perseguire e da raggiungere). A tal fine l'autonomia locale guarda al proprio sapere interno e verifica quali siano gli strumenti messi a disposizione dall'istituzione. Uno di essi - parlando di controllo - è la legge-quadro sulle polizie municipali varata nel 1986 ed attuata solo in parte.
La legge aveva previsto uno strumento (realizzato in un paio di casi) per consentire ai comuni di disporre di un efficace servizio di polizia amministrativa e di polizia municipale attraverso l'istituzione di consorzi. E' chiaro infatti che i comuni di ridotta consistenza demografica non hanno la possibilità di avere un servizio o, tantomeno, un corpo di polizia municipale. Ma poiché le normative che si sono succedute hanno assegnato compiti crescenti alle autonomie locali anche nel campo ambientale, si deve raggiungere una soglia minima per consentire effettivamente a tutti i comuni piccoli e grandi, con strumenti appropriati, di utilizzare gli aspetti salienti della normativa. Un riorentamento del sistema dei vigili urbani potrebbe dare risultati non risolutivi, ma potrebbe consentire di avviare un'azione di partenariato con gli altri enti.
Altro obiettivo da raggiungere in termini di controllo e di operatività è il sostegno e l'aiuto alle autonomie locali per ripristinare, nell'ambito di rapporti contrattuali con terzi (soprattutto se privati), una dialettica fra le parti: si tratta di ripristinare una normalità delle procedure concorsuali nei casi in cui non sia possibile disporre di altri strumenti di gestione (consortile o diretta) con aziende municipali. Spesso si registrano problemi di consenso, ristrettezza nei tempi, il venir meno di una dialettica tra le parti. L'amministrazione, allora, deve decidere di cosa ha bisogno; dove, in che tempi e con quale rapporto costi-benefici vuole che questa esigenza sia soddisfatta. Ripristinare la priorità di questa capacità programmatoria dell'amministrazione è un compito essenziale; in proposito la Lega delle autonomie locali può offrire un servizio di sostegno alle amministrazioni locali.
Le amministrazioni locali si trovano a dover reprimere forme di abuso spontaneo - come quelle descritte dal rappresentante delle comunità montane -, forme di abuso organizzato ed anche un vero e proprio ciclo di convenienze economiche e speculative (fino alle varianti criminali) che si costruisce sull'abuso. La Lega può mettere a disposizione un modello che consenta di programmare, progettare e gestire facendo leva sull'orientamento alla qualità dei servizi (un tema che ha fatto il suo ingresso - anche con risultati molto incoraggianti - nelle attività ordinarie delle autonomie locali). Tutta una serie di metodologie consentono di mettere i servizi municipali in rapporto con gli utenti, ottenendo per questa via un consenso non soltanto passivo ma anche attivo delle popolazioni. Ciò al fine di ridurre la pressione che indubbiamente pesa nella razionalità delle scelte e nella libertà di movimento dell'autonomia locale.
Su questo punto all'interno delle amministrazioni vi è un sapere molto vasto: mi riferisco sia ai comuni medio-grandi sia a quelli medio-piccoli. L'associazionismo delle autonomie locali ha una propria esperienza: si tratta quindi di mettere in comune il portato di queste lunghe tradizioni e di riorientarlo sull'urgenza che la Commissione ha sottolineato.
Non so se ho detto cose già note. Si tratta comunque del programma di lavoro che abbiamo cercato di delineare.
PRESIDENTE. Do ora la parola al rappresentante dell'UPI.
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Signor presidente, premetto che sono assessore all'ambiente della provincia di Roma, ma che intervengo in questa sede come rappresentante dell'Unione delle province italiane.
Credo che la Commissione conosca bene gli elementi che caratterizzano il ruolo delle province per quanto concerne la disciplina in materia di rifiuti; li do per acquisiti. Mi limiterò pertanto - salvo poi rispondere alle domande che il presidente o i commissari vorranno rivolgermi - a sottolineare alcuni aspetti specifici.
La prima questione è di carattere generale. Il decreto legislativo n. 22 ha sancito ancora una volta - se mai ve ne fosse stato bisogno - la centralità che il legislatore attribuisce alle province come enti intermedi in materia di pianificazione ambientale e soprattutto d controlli. Questo trend normativo in realtà esiste dagli anni settanta, ma si è incrementato con il tempo. Il dato si innesta però su una situazione delle province italiane estremamente disomogenea: nel settore della pianificazione ambientale e delle funzioni proprie in tema di controlli abbiamo realtà provinciali molto avanzate, soprattutto nelle aree in cui le regioni hanno provveduto con atti propri - prima del legislatore nazionale - a delegare o ad attribuire alle province funzioni specifiche; in altre zone del paese - soprattutto nel Mezzogiorno, come mi risulta - la realtà è molto più arretrata.
Si tratta di un elemento di forte incongruenza territoriale di tutto il sistema, il quale - non a caso - è di riscontro rispetto ai fenomeni di criminalità organizzata di cui la stessa Commissione si occupa, che hanno riferimenti territoriali ben precisi.
Vorrei poi sottolineare che il potenziamento del ruolo delle province in campo ambientale è paradossalmente andato avanti in presenza di orientamenti che tendevano a sopprimere l'ente provinciale. Questa schizofrenia del legislatore - che da una parte valorizza le province e dall'altra non ha ancora ben chiaro cosa debba essere fatto di questi enti - si traduce in difficoltà di gestione; per non parlare - com'è nel caso di Roma - delle province destinate a divenire aree metropolitane, nelle quali il futuro dell'ente provinciale è ancora più incerto.
Il meccanismo complessivo dei controlli ambientali riguarda sostanzialmente le risorse da impiegare a fronte di compiti estremamente complessi, i quali richiedono un'attività di approfondimento scientifico ed anche di presenza fisica sul territorio. Non è certo un lavoro che possa essere realizzato a tavolino (sono necessari mezzi, risorse umane e quant'altro). Quindi il problema delle province come enti "deboli" si ripercuote sull'efficienza del sistema dei controlli ambientali nel suo complesso.
L'UPI ed anche le province singolarmente prese stanno da tempo cercando di attrezzarsi a fronte di questo panorama di potenziamento delle funzioni nel campo della prevenzione e della repressione degli illeciti ambientali. Lo stanno facendo cercando di superare un'impostazione classica, che si coglieva anche nelle parole pronunciate poco fa dal rappresentante dell'UNCEM: la vigilanza ambientale esercitata storicamente attraverso i guardacaccia ed i guardapesca.
Credo che l'esperienza della provincia di Roma sia una delle più avanzate in materia (anche se ovviamente non escludo vi siano esperienze simili altrove). Nel campo della vigilanza, per esempio, la provincia di Roma ha proceduto alla riunificazione- in un unico Servizio per la vigilanza ambientale - di quelli che storicamente erano invece comparti di polizia amministrativa (guardacaccia, guardapesca e quant'altro), riconducendo ad unità funzionali i compiti di vigilanza in materia ambientale nel loro complesso (scarichi idrici, inquinamento atmosferico, rifiuti) e muovendosi anche lungo un percorso di qualificazione professionale degli addetti alla vigilanza. Credo sia una tendenza uniforme in tutte le province italiane; alcune di esse hanno provveduto in tal senso anche approfittando della necessità di attuare i decreti legislativi sugli ordinamenti locali.
Evidentemente le province pagano un altro limite che non è proprio: la carenza degli organi tecnici di controllo previsti dalla legge a livello regionale, e in particolare le ARPA. Da una lettura corretta della legge n. 61 in materia di controlli ambientali si evince chiaramente che i controlli tecnici devono essere compiuti da altri soggetti e non dalle province. Così, dove i controlli sono deboli, dove le ARPA non esistono (nel Lazio, per esempio, siamo ancora in attesa della legge regionale in materia), le province hanno estreme difficoltà nell'avvalersi delle USL e dei PMP che tuttora svolgono tali compiti, perché anche questi enti e soggetti si trovano per così dire in un limbo (non vengono nemmeno allocati ad essi i mezzi e le risorse necessarie). Esiste infatti la prospettiva prossima ventura dell'istituzione delle ARPA e quindi vi è una situazione di precarietà, che in materia ambientale è estremamente delicata.
Questo è il quadro generale. Sottolineo nuovamente i compiti di grande rilevanza che il decreto n. 22 affida alle province. Cito a memoria: si tratta, tra l'altro, del controllo e della supervisione sulle procedure semplificate in materia di trattamento dei rifiuti; è uno dei settori in cui più facilmente possono verificarsi fenomeni di violazione palese o occulta delle normative, ed in cui i controlli preventivi e successivi sono rimessi alle province. Oltre a questo è previsto un compito di controllo generale sull'intera applicazione del decreto n. 22, affidato dallo stesso provvedimento alle province.
Dinanzi a questo quadro, credo che il parere concorde delle province sia che le stesse non possono essere lasciate sole nello sforzo che il legislatore loro richiede. Mi riferisco all'ente regionale, che deve fare quanto la legge gli impone; inoltre, vi è il problema di natura più generale di individuare forme e mezzi grazie ai quali le province possano dotarsi di strumenti, risorse e materiale umano propri, potendo andare oltre - se necessario - il regime ordinario che vige per gli stessi enti. La realtà, anche dal punto di vista numerico - basta esaminare le piante organiche del personale degli enti intermedi - è sicuramente inadeguata rispetto al valore economico degli affari e degli interessi che, come i commissari ben sanno, agiscono dietro queste vicende ed ai fenomeni ad essi collegati.
PRESIDENTE. Vorrei riprendere non tanto i temi generali sollevati dal suo intervento, quanto alcuni aspetti di ordine concreto che attengono proprio alla facoltà primaria di controllo delle province, tenendo conto che in tutte le situazioni nelle quali le regioni hanno istituito le ARPA le province sono state fortemente indebolite sotto questo aspetto.
La prima questione. E' già esperienza della precedente Commissione monocamerale di inchiesta che il personale in pianta organica che può essere addetto ai controlli o addirittura a funzioni di polizia giudiziaria per reprimere i reati è talvolta totalmente assente. Ricordo che esistono province di grande importanza ed estensione che non hanno personale addetto a questa funzione. La prima domanda è se l'UPI non abbia suggerimenti in tema di risorse; il problema infatti non verrebbe risolto, se non in parte, neanche da un buon funzionamento delle agenzie regionali per la protezione ambientale. Mi chiedo quindi se l'UPI non avanzi qualche ipotesi per avviare una politica di sviluppo delle piante organiche che faccia capo a risorse individuate e, in caso di risposta affermativa, di quali risorse potrebbe trattarsi (a livello di programmi regionali, di interventi particolari del Governo, eccetera). E' un tema del dibattito perché lo stupore è totale quando si scopre che grandi province possono utilizzare, quando va bene, solo poche unità di personale a questi scopi.
La mia domanda era quasi una premessa perché l'esperienza della Commissione, per quanto riguarda la partita dei rifiuti, ci dice che in alcune zone del sud del paese assume una rilevanza quasi drammatica la capacità di controllo su un segmento ben preciso del fenomeno. Si deve avere la certezza che il rifiuto trasportato da determinate ditte e poi conferito in discarica sia veramente trasportato e conferito. Ci troviamo invece di fronte a situazioni in cui trasportatori e discariche autorizzati certificano un trasporto ed un conferimento che in realtà non sono avvenuti, con conseguenze che sul piano degli illeciti sono ovvie e che sono forse ancora più gravi su quello dei danni ambientali e sanitari.
Tutto ciò probabilmente attiene alla necessità di mobilitare i controlli e di disporre di procedure amministrative più certe. Sono noti i casi nei quali oggetto della truffa sono state proprio amministrazioni che ricevevano le bolle che certificavano un trasporto ed un conferimento in discarica che in realtà erano inesistenti; anzi, a volte in questi casi si è registrato, in alcune aree del paese, l'intervento della criminalità organizzata.
Vorremmo quindi conoscere il punto di vista dell'UPI su questi due aspetti; in particolare, data la sua qualità di assessore all'ambiente di una provincia che ha molti abitanti, le chiedo se la sua esperienza diretta non possa fornirci qualche suggerimento.
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Per quanto riguarda la prima questione, l'UPI sta potenziando il suo intervento, come dicevo precedentemente, e sta stimolando le province a colmare almeno le lacune più vistose. Non credo che si tratti di un problema di risorse. Come è noto, la provincia è beneficiaria, in base ad alcune normative, di tributi o di parti di tributi in forma di aliquote provenienti da cespiti di natura ambientale (la tassa sulle discariche, per fare un esempio) che il legislatore ha voluto fossero reinvestiti nei controlli e nella gestione ambientale.
PRESIDENTE. A proposito di questo, nell'ipotesi configurata nel decreto legislativo, per cui si dovrebbe passare dalla tassa alla tariffa, si lascerebbe inalterato il problema del possibile reperimento delle risorse a carico della tariffa stessa.
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Credo che sia la stessa cosa dal punto di vista concreto, al di là del cambiamento di forma del prelievo. Dicevo che le risorse ci sono; abbiamo invece assistito, nei bilanci provinciali, all'utilizzo di queste somme in modo indifferenziato e dispersivo. Gli enti provinciali, al pari di tutti gli enti locali, soffrono di una cronica deficienza di risorse rispetto ai compiti che debbono espletare; spesso, quindi, queste somme - che per volontà chiara del legislatore in alcuni casi, in via interpretativa in altri, dovrebbero essere utilizzate in un certo modo - vengono riversate nel "calderone" dei bilanci dell'ente stesso.
PRESIDENTE. Quindi anche per le province vale la battuta di un collaboratore di giustizia, per cui "la monnezza vale più dell'oro", nel senso che esistono veri e propri storni di bilancio dal settore dei rifiuti ad altri settori.
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Sì, è probabile; occorrerebbe approfondire questo aspetto con chi nell'UPI si occupa di finanza locale e quindi potrebbe essere più informato di me. Tuttavia, erano state poste anche formalmente varie questioni; una certa interpretazione, credo rispettosa della ratio di una norma contenuta in una legge finanziaria, faceva sì che determinati fondi assegnati alle province dovessero obbligatoriamente essere investiti nel settore ambientale. Invece, secondo interpretazioni più "ampie", ciò era opinabile. Probabilmente un autorevole intervento del legislatore o dell'autorità centrale in materia di imposte e finanze potrebbe essere utile. Certo, la coperta è corta, nel senso che le province potrebbero essere costrette a "scoprirsi" da un'altra parte; quanto meno, però, si farebbe chiarezza su un intendimento a mio avviso preciso del legislatore, che ha individuato le fonti di determinate risorse.
Il secondo problema è invece connesso ad una rigidità di bilancio. Da quanto so, i bilanci complessivi degli enti locali - e quindi anche delle province - possono essere destinati alle spese per il personale solo per una certa quota: queste, cioè, possono raggiungere solo un certo livello. Anche ammettendo che esistessero le risorse per incrementare i corpi di vigilanza o i servizi addetti alle funzioni di controllo, vi è un limite naturale al di là del quale l'ente rischia il dissesto. Si tratta quindi di un limite esterno.
Sicuramente, nonostante queste sottolineature che facevo "a margine", esistono spazi che vanno praticati, ma evidentemente non oltre un certo limite. Ad esempio, la provincia di Roma - nonostante l'amministrazione stia cercando non solo di coprire il turn over ma anche di assumere nuove unità operative - si trova al di sotto, quanto a personale, della pianta organica prevista per la vigilanza ambientale. Posso immaginare che situazioni simili vi siano anche nel resto delle province.
PRESIDENTE. Per curiosità: qual è la pianta organica della provincia di Roma per quanto riguarda gli operatori ambientali?
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Potrei sbagliare di qualche decina di unità: penso che sia intorno alle 120 persone adibite alla vigilanza nella forma classica, perché la pianta organica è precedente all'unificazione del servizio disposta dall'amministrazione. Comunque, tra guardacaccia, guardapesca, eccetera, si tratta di circa 120 persone. Attualmente nel corpo di vigilanza unificato dell'amministrazione provinciale sono effettivamente in forza 60-80 unità. C'è un deficit notevole, dovuto ad una mancata copertura, soprattutto negli anni passati, del turn over del personale andato in quiescenza e al timore dell'amministrazione di ampliare ulteriormente la proporzione delle spese per il personale nell'ambito del bilancio medesimo. Questa è la realtà della provincia di Roma: su altre non sono in grado di pronunciarmi.
Rispetto alla seconda domanda che lei ha posto, presidente, il mio parere - maturato anche in due anni di esperienza amministrativa - è che, al pari di un necessario potenziamento degli elementi di base di cui parlavo prima, manca una rete efficiente di incrocio di dati tra vari enti ed istituzioni dello Stato. Le forze di polizia seguono i loro percorsi, la provincia i propri, le stesse USL a volte viaggiano su binari propri: le informazioni, pertanto, non si incrociano, mentre in questo settore lo scambio delle stesse (magari in tempo reale e quindi con sistemi avanzati di informatizzazione o raccolta dei dati) permetterebbe una conoscenza maggiore. La mia impressione è che vi sia molta buona volontà ma a volte anche una dose di approssimazione nello svolgimento delle funzioni di controllo in campo ambientale.
Soltanto nei casi più eclatanti (ricordo quello recente dei rifiuti transitati per la provincia di Roma provenienti dal nord Italia) si creano momenti di maggiore collaborazione e di interscambio. Mediamente, invece, vi è uno scarso coordinamento che rischia di rendere inutili oppure di duplicare gli sforzi per raggiungere l'obiettivo.
PRESIDENTE. Due ultime domande. La prima riguarda la bonifica delle discariche; sappiamo che il 10 per cento della tassa sui rifiuti solidi urbani è destinata a questo scopo. Per procedere a tale bonifica è necessario un piano di censimento delle discariche, secondo un decreto ministeriale che, se non erro, risale al 1989. Venendo alla sua concreta esperienza, mi pare che il Lazio non abbia approntato un piano di censimento delle discariche: come fa la provincia ad intervenire in questo campo, sapendo che per i problemi a medio e lungo termine si dovrebbe intervenire prioritariamente sui siti contaminati?
Seconda domanda. C'è un nesso tra le industrie a rischio di incidente rilevante (ex decreto del Presidente della Repubblica n. 175 del 1988, noto come legge Seveso) e la produzione di rifiuti industriali e pericolosi. Anche a tale riguardo, c'è un incrocio di competenze della provincia proprio dal punto di vista dei controlli, nel senso che controllare le attività industriali alle quali sia associato un rischio di incidente rilevante significa anche controllare i rifiuti pericolosi che quasi di norma sono collegabili a questo tipo di produzione.
Vorrei conoscere il punto di vista dell'UPI o quello suo personale, dall'ottica della sua esperienza di assessore della provincia di Roma.
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Per quanto riguarda le bonifiche, mi risulta sia vero che la regione Lazio non abbia approvato fino ad oggi un piano di risanamento delle discariche, tra l'altro previsto anche da normative regionali oltre che nazionali. L'indirizzo assunto dalla provincia di Roma credo corrisponda al normale buon senso e a quello che stanno facendo le province di tutta Italia. Esso si risolve nel non aspettare le pianificazioni regionali, laddove non esistano; in caso contrario il problema è solo di attuazione. Pertanto, le province approntano piani autonomi di rilevamento e di censimento dei siti compromessi da discariche o anche, come è più corretto dire in alcuni casi, dagli abbandoni incontrollati dei rifiuti.
In fondo, le discariche sono un numero noto sul territorio provinciale e siamo in grado di individuarle facilmente. Il problema invece è quello dell'impatto su vaste aree derivante dall'abbandono incontrollato di rifiuti che la maggior parte delle volte sono speciali ma, in casi più gravi, anche tossico-nocivi, come si diceva fino a qualche anno fa.
Per quanto riguarda le discariche in senso proprio, il problema della pianificazione è piuttosto limitato in quanto il numero è ristretto e noto. Più che altro, vi è una questione di priorità, cioè di capire su quali fra questi impianti - alcuni in esercizio, altri abbandonati o dismessi - si debba intervenire in modo più diretto perché magari insistono su aree permeabili, delicate, eccetera.
Vorrei sottolineare un altro aspetto, di tipo storico, connesso al primo: è la questione di chi paga. Fin dal 1982 - e credo fin dal codice del 1943 - la responsabilità della compromissione e del danno ambientale dovrebbe essere attribuita al soggetto gestore della discarica. Come accade spesso, invece, le proprietà formali degli impianti di smaltimento o di discarica sono scatole vuote, che non prestano alcuna garanzia di natura patrimoniale per quanto riguarda gli interventi successivi. Ciò si ricollega al meccanismo che il legislatore ha previsto delle fideiussioni in campo ambientale e di impianti; nella mia esperienza, tale istituto è rimasto sostanzialmente sulla carta fino ad oggi. Lo stesso albo nazionale degli smaltitori (ora registro) non è mai riuscito a venir a capo della questione.
PRESIDENTE. Poiché lei accennava all'orientamento delle province che non dispongono ancora di un piano di smaltimento dei rifiuti su scala regionale, e la fideiussione per il titolare delle discariche comporta degli obblighi, come può agire concretamente la provincia in questo senso?
CORRADO CARRUBBA, Rappresentante dell'UPI. Le province, ma anche gli enti locali, nei fatti procedono nella maniera più semplice, inserendo le garanzie nelle convenzioni con i gestori in forma pattizia e negoziale. In sostanza, alla firma di una convenzione che regola i rapporti fra il comune e il gestore di un sito (anche il comune di Albano recentemente si è indirizzato in questo senso), in assenza di un quadro generale di riferimento, si chiede in via pattizia alla società di prestare garanzia. E' chiaro che la garanzia fideiussoria dovrebbe stare a monte, come elemento necessario per l'iscrizione dell'impresa all'albo degli smaltitori; dovrebbe essere cioè un meccanismo di paracadute di garanzia nazionale.
Le province si stanno attrezzando per iniziare le bonifiche di impianti dismessi o per procedere all'abbandono dei rifiuti di taglia medio-piccola, sostanzialmente lasciando alla pianificazione regionale gli interventi di maggiore impegno e rilievo, anche finanziario, in quanto non sarebbero alla portata dell'ente locale. Nella provincia di Roma, ad esempio, stiamo avviando un meccanismo di questo tipo, con fondi nostri, in attesa che si metta in moto un meccanismo di bonifica più ampio.
Rilevo infine che nessuno fino ad oggi si è misurato sulle potenzialità del rapporto incrociato fra la normativa in materia di rifiuti e il DPR n. 175, la cosiddetta direttiva Seveso, che, come è noto, incontra gravi difficoltà di concreta attuazione. Quello avanzato dal presidente può sicuramente essere accolto come suggerimento di lavoro al fine di effettuare un controllo integrato dei fattori ambientali, che tra l'altro non costituisce una nostra invenzione ma è ormai un dato normativo di atti ed indirizzi comunitari.
L'ultima considerazione è che in campo ambientale si assiste a volte ad una frammentazione di competenze all'interno dello stesso ente fra uffici e servizi diversi, perché un ufficio ha competenza sulle acque, uno sui rifiuti, uno sull'aria, mentre l'univocità dell'imprinting ambientale di un'azienda sul territorio dovrebbe essere considerata prioritaria.
PRESIDENTE. Poiché nessun altro intende intervenire, ringrazio i nostri ospiti per il contributo che ci hanno fornito e dichiaro chiusa l'audizione odierna.
Avverto che la Commissione tornerà a riunirsi mercoledì 15 ottobre 1997, alle 19, per ascoltare i rappresentanti della Confcommercio, della Confesercenti, della CNA, della Confartigianato, della CASA e della CLAAI.
La seduta termina alle 19,50.