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CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA

XIII LEGISLATURA

COMMISSIONE PARLAMENTARE

PER L'INDIRIZZO GENERALE E LA VIGILANZA

DEI SERVIZI RADIOTELEVISIVI

39.

SEDUTA DI MERCOLEDI' 1 LUGLIO 1998

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FRANCESCO STORACE

Esame del piano per la nuova RAITRE, ai sensi dell'articolo 3, comma 9, della legge n. 249 del 1997, nonché dei piani aziendali coordinati e discussione sullo stato di attuazione dell'articolo 37, comma 4, del contratto di servizio.

(Audizione del rappresentante dell'UPA)

(Audizione del rappresentante dell'USIGRAI)

(Audizione dei rappresentanti del SINGRAI)

INDICE

Audizione del rappresentante dell'UPA

Audizione del rappresentante dell'USIGRAI

Audizione dei rappresentanti del SINGRAI

La seduta comincia alle 13,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, ai sensi dell'articolo 13, comma 4, del regolamento della Commissione, la pubblicità della seduta sarà assicurata per mezzo della trasmissione con il sistema audiovisivo a circuito chiuso. Avverto altresì che sarà redatto e pubblicato il resoconto stenografico.

Audizione del rappresentante dell'UPA.

PRESIDENTE. Ricordo che nelle sedute del 19, 25 e 30 giugno hanno avuto luogo le precedenti audizioni riferite all'argomento in titolo.

Do il benvenuto in Commissione al direttore dell'UPA, dottor Felice Lioy, al quale cedo la parola.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. A proposito della terza rete che viene definita "senza pubblicità", siamo piuttosto perplessi come organismo rappresentativo delle industrie che investono in pubblicità e che non vanno confuse con le agenzie che sono i nostri consulenti. Le aziende che investono in pubblicità sono particolarmente interessate al mercato dell'offerta in questo settore.

PRESIDENTE. Voi siete l'unico organismo di questo tipo?

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Siamo l'unica organizzazione, che comprende sia le grandi multinazionali che operano in Italia, sia le grandi aziende italiane come la FIAT, la Barilla o la Ferrero. Le 600 aziende più importanti sono unite nell'UPA che si occupa di pubblicità, di promozioni, di pubbliche relazioni e comunque di comunicazione d'azienda.

Quando si parla di terza rete senza pubblicità, noi soffriamo e siamo preoccupati, innanzitutto perché già la definizione sembra dichiarare che l'obiettivo è quello di avere una rete senza pubblicità come se questa fosse qualcosa di negativo e deteriore di cui è il caso di liberarsi quando è possibile, almeno in una rete. Ciò cozza contro le tendenze, ormai generalmente accettate, secondo le quali si vuole rafforzare e difendere il mercato e la concorrenza, per cui tutto quello che genera mercato e concorrenza è positivo: ebbene, la pubblicità è una forza che spinge il mercato e quindi anche la produzione e l'occupazione. Guai se non ci fosse la pubblicità!

In alcuni paesi sono stati fatti degli studi per verificare cosa accadrebbe se la pubblicità diminuisse in maniera artificiosa e forzosa e si è visto che tutta l'economia ne risentirebbe gravemente, tant'è vero che la pubblicità viene sempre sostenuta ed incoraggiata nei paesi che hanno una certa maturità industriale. Da noi c'è ancora qualche residuo di mentalità antiindustriale e antipubblicitaria, ma spingere il mercato e dire che la concorrenza è buona cosa e poi impedire la pubblicità su una rete nazionale dove c'è sempre stata, non ci sembra una soluzione che vada nell'interesse del paese.

Noi stessi, come aziende, siamo contrari all'eccesso di pubblicità che è un male ed un pericolo. Non è certamente il caso di incoraggiare la pubblicità intrusiva e becera. Del resto la stessa legge, sia quella comunitaria sia quella italiana, pongono dei limiti alla pubblicità, limiti che sono ancora più stretti per quanto riguarda la RAI. Tra l'altro, sono state eliminate anche le promozioni, per cui abbiamo una diminuzione netta della pubblicità su tutte e tre le reti. Ci preoccupa l''ipotesi di eliminarla del tutto dalla terza rete, un canale importante di comunicazione, specialmente per alcuni settori della popolazione, sul quale viene a mancare la spinta sul mercato, sulla produzione e sull'occupazione, mentre vi è bisogno del contrario, cioè di spingere il mercato e di vivacizzare la concorrenza.

Ciò che ci preoccupa ancora di più, signori parlamentari, è che la pubblicità sui canali nazionali televisivi ormai è accessibile solo ai grandi gruppi multinazionali o ai grandi e grandissimi gruppi italiani (pochi) che hanno vaste disponibilità di stanziamento pubblicitario e che noi rappresentiamo. Ci rendiamo conto, però, pur rappresentando i grandi gruppi - che contano di più nella nostra associazione - che è del tutto ingiusto e contrario all'interesse del paese precludere la possibilità di fare pubblicità alle aziende, non dico piccole ma medie e medio grandi che non possono più accedere con i loro annunci alla televisione nazionale, che invece per loro è fondamentale e spesso addirittura vitale. Questo fenomeno che già si sta verificando è preoccupante: molte aziende non possono più accedere alla televisione. Quando c'è molto affollamento si possono aumentare i prezzi, però questi prezzi, che sono già aumentati e aumenteranno ulteriormente e gli spazi limitati (dalla legge e dalle nuove norme) gravano sulle aziende medie e medio grandi, danneggiando tutto il sistema.

Per alcuni prodotti la televisione va benissimo, per altri va bene la stampa e per altri ancora i manifesti o la radio, per cui la televisione non è sostituibile con la stampa. Anche se l'opinione pubblica, spesso disinformata, pensa che ciò che non va alla televisione va, quasi automaticamente, verso gli altri mezzi di pubblicità, in realtà non una lira di ciò che non va in televisione passa alla stampa. La tendenza dirigistica per cui si contingenta la pubblicità su un mezzo per favorirne altri non so se risponda ai criteri di una politica che non dipende da me, ma sulla quale sarebbe il caso di riflettere. Non so cosa succederebbe se, per aiutare piccole aziende che producono automobili e non riescono a decollare, si contingentasse la produzione della FIAT: si direbbe che siamo pazzi e che facciamo cose assurde. Chissà perché, invece, per la televisione si possono contingentare e ridurre sempre di più gli spazi pubblicitari e quindi i fatturati delle aziende: mi riferisco alla RAI e, in qualche caso, anche a Mediaset. D'altro canto, la RAI legittimamente si è conquistata sul mercato degli spazi sia con il canone sia con la pubblicità (che ormai rappresenta un provento pari al 40 per cento) spazi che si vogliono limitare in virtù della tendenza a fare una rete senza pubblicità, non si capisce a vantaggio di chi. Tale soluzione peraltro non risponde neanche ad una logica di mercato, perché ciò che occorrerebbe è la pubblicità equilibrata.

Quando i soldati americani in Vietnam ricevevano le riviste senza pubblicità, per motivi di peso e di sostanza, vi è stata una sollevazione generale perché soldati, sottufficiali ed ufficiali non volevano ricevere riviste "monche". Ora, non si capisce perché una pubblicità, magari limitata, non possa andare sulla terza rete RAI.

D'altro canto non è necessario fare una pubblicità di tipo tradizionale, probabilmente basterebbe limitarla a certi prodotti di carattere culturale, legati all'incremento del turismo, al benessere, alle iniziative di formazione, alla diffusione di libri, alla cultura, una pubblicità commerciale ma solo per certi aspetti. Quindi, sulla terza rete che ha una caratterizzazione diversa rispetto alla prima e alla seconda, potrebbe andare una pubblicità diversa, come quella relativa a certe sponsorizzazioni o promozioni di prodotti di tipo culturale o di interesse generale. D'altronde il commercio e l'industria non sono contro l'interesse generale come qualcuno pensa, anzi favoriscono alcune attività ed iniziative. Oggi, ad esempio, vi è una grande richiesta di comunicazione da parte dei servizi e non più solo dei beni durevoli, semidurevoli o di consumo, verso i quali, oltre alle automobili, è sempre stata diretta la pubblicità. Come dicevo, vi è una grande richiesta di pubblicità da parte dei servizi, soprattutto di formazione, finanziari, bancari, di viaggi e turismo. Non si vede perché tutto questo debba essere bloccato e vietato come se ciò fosse un vantaggio, mentre la gente vive anche di queste cose, è abituata a vederle e se non ci fossero ne sentirebbe la mancanza; la gente è abituata a sentire i consigli e ad avere delle prospettive rispetto a beni che magari non si può permettere in quel momento ma che vuole sognare, pensare e progettare, lavorando di più per poterli ottenere. La pubblicità non è un male, essa vivifica il mercato e manca laddove il mercato è asfittico o esistono dei governi dirigistici.

Ogni tanto ci sembra - lo dico solo a titolo personale, anche perché le scelte politiche vengono fatte da voi - che questo accanimento contro la pubblicità, soprattutto per quanto riguarda la terza rete, sia eccessivo e non porti ad alcun vantaggio nemmeno per i cittadini. Il canone, in parte, è rivolto a sostenere una rete che con la pubblicità si sostiene benissimo e che una volta aveva una connotazione che oggi si vuole cambiare: la si cambi pure, non saremo certo noi a dire come deve essere la televisione, ma diciamo che non ci pare che porti alcun vantaggio, ma semmai uno svantaggio ed un danno generale, il fatto di togliere la pubblicità dalla terza rete. Lasciamola almeno per gli argomenti legati alle trasmissioni o alla connotazione stessa della nuova rete; non chiudiamola, tutt'al più limitiamola e qualifichiamola. Eliminandola del tutto si elimina qualcosa di buono e positivo: così è considerata la pubblicità nelle economie libere di tutto il mondo.

PRESIDENTE. Desidero porre al direttore alcune questioni in relazione agli interessanti aspetti che ha affrontato ed in particolare alla legge n. 249 e al problema di carattere generale che è stato sollevato.

Occorre specificare che siamo riuniti in questa lunga serie di audizioni per dare un parere all'autorità per le garanzie sulla base di una legge che è stata approvata.

L'aspetto sul quale mi preme conoscere il suo parere, direttore, è sostanzialmente il seguente: il dibattito su come impostare la terza rete RAI senza pubblicità (poi passerò alle questioni di carattere generale che sarebbe stato meglio affrontare prima dell'approvazione della legge) riguarda anche le sponsorizzazioni. E' in atto un dibattito fra chi sostiene, sia pure in termini problematici come il presidente Zaccaria, che le sponsorizzazioni potrebbero rappresentare uno dei proventi della terza rete senza pubblicità e chi invece ritiene che esse siano la forma più moderna di pubblicità. Conoscere il suo autorevole parere in proposito ci aiuterebbe a capire tecnicamente quale tesi sia più giusta.

La questione più generale esula probabilmente dal nostro parere, però ha una sua importanza. Lei ha sostenuto che non è vero che la pubblicità che non va in televisione si dirige sui giornali. Ricordo - ma non vorrei sbagliare e sicuramente si tratta di una mia interpretazione personale - che la ratio della legge n. 249 era tipicamente antitrust, nel senso di prevedere, anziché tre reti, due reti per soggetto, uno dei quali avrà una rete in più però senza pubblicità, e l'altro la manderà sul satellite. Quindi, avremo a terra due reti con pubblicità (espongo la questione un po' all'amatriciana, anche si potrebbe condirla con argomenti tecnici).

La pubblicità che non va su RAI e Mediaset, né sui giornali può andare ad un altro soggetto televisivo? Se la pubblicità che non va sui giornali non va neppure ad un altro soggetto televisivo perché non ha l'appetibilità degli altri due competitori vuol dire che è sbagliata la ratio della legge. Cioè non è vero che con la riduzione da tre a due reti per soggetto la pubblicità possa aiutare un terzo polo.

Il suo ragionamento, direttore, è contraddizione con quanto hanno sostenuto i rappresentanti delle emittenti locali, alle cui ragioni mi pare di poter aderire. Essi sostengono che una terza rete senza pubblicità, che sia specializzata sulla territorializzazione della struttura, per la forza di espansione sul territorio della corazzata multimiliardaria che si chiama RAI e per la forza dovuta all'assenza di pubblicità sarebbe lesiva dei diritti delle emittenti locali, che campano con la pubblicità che deriva dagli ascolti. Qui vi è una contraddizione, perché lei ha sostenuto che la pubblicità fa anche vivere dal punto di vista del gradimento del prodotto (in proposito ci ha raccontato la vicenda dei soldati americani). Ma, se una televisione senza pubblicità è più forte, come si supera questa contraddizione?

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Per quanto riguarda la prima domanda del presidente relativa alle sponsorizzazioni, crediamo che questa sia una forma moderna ed importante di comunicazione perché molte aziende nel fare promozioni specifiche non vogliono comunicare qualcosa sul prodotto, ma vogliono rendere noto e prestigioso il proprio marchio. Attraverso le sponsorizzazioni televisive non solo si può ottenere questa notorietà, ma spesso si può legarla a trasmissioni prestigiose culturali ma anche di varietà di buon livello e così suscitare simpatia. Pertanto le sponsorizzazioni interessano molto le aziende. Inoltre, quasi sempre sono realizzate in maniera non noiosa o comunque tale da non avere contraccolpi sul pubblico, nel senso che durano poco, spesso sono discorsive o addirittura c'è solo una sigla o una citazione con poche parole per spiegare cosa fa l'azienda. Lo stesso può dirsi per le coproduzioni, nelle quali l'azienda viene citata per iscritto sul video o a voce. Si tratta di cose che creano risorse notevoli in questo caso per la terza rete della RAI di cui non si vede alcuna valenza negativa.

Riteniamo che una televisione senza pubblicità sia una televisione senza anima, disancorata dalla realtà; un po' di pubblicità, qualche sponsorizzazione e qualche promozione o telepromozione non fa male...

PRESIDENTE. E' comunque una forma di pubblicità.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Sono tutte forme di pubblicità e di comunicazione. La comunicazione di azienda è fatta anche di pubblicità, ma anche di promozioni e di sponsorizzazioni; sono cose diverse, ma rispondono allo stesso principio aziendale di comunicazione al pubblico per poter ottenere notorietà.

Se la legge impedisce di fare pubblicità, le aziende sono pronte a dare molte risorse per le coproduzioni e per le produzioni e ancora di più per le sponsorizzazioni. Noi comunque insistiamo perché una certa dose di pubblicità possa essere consentita in futuro anche sulla terza rete, ma in subordine pensiamo che la possibilità di queste altre forme riduca comunque il male. La chiusura completa alla pubblicità significa disancorare una rete televisiva dal mondo reale che palpita e comprende anche gli acquisti, le proposte, le aziende. Del resto, molti dei filmati che vengono trasmessi in certi canali televisivi che mandano solo musica e video per ore e ore, magari per una giornata intera, nonostante si tratti di bella musica e anche di immagini interessanti, vengono guardati da pochissime persone perché non c'è la realtà, non c'è la cronaca, non c'è il mercato, non c'è la vita, non c'è la pubblicità.

Noi crediamo che anche per il pubblico vada bene la pubblicità, ma in subordine vanno bene anche le sponsorizzazioni.

Per quanto riguarda la sua domanda circa la possibilità che la pubblicità che non trova spazio nella terza rete possa andare al terzo polo, crediamo che ciò sia possibile, purché esso rappresenti una realtà interessante e quindi un mezzo nazionale. C'è una grandissima differenza, soprattutto in Italia, tra mezzo nazionale e mezzo locale; il terzo polo che avesse un'audience superiore almeno al 5 per cento, costituirebbe un mercato interessante e molta pubblicità che non entra negli altri canali potrebbe andare su di esso. Noi abbiamo incoraggiato il terzo polo, non c'è da nasconderlo: abbiamo ricevuto due mesi fa il dottor Agnes, che ci ha esposto i suoi programmi e lo abbiamo incoraggiato. Il giorno che ci fosse un terzo polo noi saremmo soddisfatti.

Noi sosteniamo che se le televisioni private locali e regionali si consorziassero tra loro e dessero luogo ad un network sia per quanto riguarda i programmi che per la raccolta pubblicitaria - che è più difficile di quanto non sembri - darebbero luogo loro stessi ad un terzo polo. Se però Telenorba litiga con Tele Lombardia e così di seguito, non è colpa nostra; le decisioni generali vengono prese a livello politico e quelle televisive vengono prese dagli operatori. Noi diciamo solo che il terzo polo per noi sarebbe interessante.

Si ritiene che le aziende siano favorevoli alla televisione perché facciamo molta pubblicità e siamo invece contrari alla stampa. E' vero il contrario: noi facciamo pubblicità in televisione, che è più evidente, perché dà buoni risultati, ma ne facciamo moltissima (4500 miliardi all'anno) anche sulla stampa. Se in futuro avessimo due soli poli, la RAI e Mediaset, come aziende saremmo schiacciati, perché già oggi questi due grandi operatori dominano il mercato anche nei nostri confronti - e parlo di grandi aziende, anche multinazionali fortissime - perché ci danno gli spazi solo a certe condizioni, a certi prezzi, se c'è posto, con lunghe attese. Non stiamo facendo il processo a nessuno perché siamo in ottimi rapporti di collaborazione sia con la RAI sia con Mediaset, però esiste una situazione di duopolio che ha determinate conseguenze, per cui ben venga il terzo polo, perché dà luogo a concorrenza.

Certo, il terzo polo potrebbe essere Telemontecarlo potenziata, ma potrebbe anche essere un consorzio di televisioni locali e nazionali. Secondo me, se ci fosse un'iniziativa politica di incoraggiamento attraverso la creazione di strutture e l'introduzione di leggi non coercitive, limitative, punitive o dirigistiche, ma che spingessero le iniziative, credo che i dieci grandi canali locali potrebbero acquisire una connotazione nazionale importante. Finché restano divisi, dal punto di vista delle aziende, quindi della pubblicità nazionale, non sono interessanti. Fare pubblicità qua e là non risponde a regole di marketing, ad esigenze di mercato, di distribuzione e di spinta promozionale che hanno le grandi aziende nazionali: sono soldi buttati via. Tre o quattrocento milioni magari sembrano pochi rispetto a migliaia di miliardi, ma spendere questa cifra in pubblicità senza avere un risultato per un'azienda è come buttarla nel fuoco. E' questa la ragione per cui le grandi aziende non fanno pubblicità sulle piccole reti locali.

Quindi ben venga un terzo polo. Noi siamo pronti perché non vogliamo essere schiacciati dal duopolio dei grandi di cui noi stessi temiamo di rimanere vittime proprio per l'assenza di concorrenza.

PRESIDENTE. Per quanto riguarda le piccole emittenti locali?

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Il problema delle emittenti locali per noi non si risolve. Esse sono piccole, non crescono, si lamentano delle stesse cose e sono sempre lì; non aumentano gli introiti, non si organizzano, non si professionalizzano, non hanno coraggio, si combattono l'una con l'altra. Bisognerebbe invece che si realizzasse un consorzio di una decina di televisioni locali maggiori che diano luogo ad un terzo polo. Oggi non ci sono ancora grandi numeri perché sappiamo tutti che esiste un pieno dominio degli ascolti da parte di RAI e Fininvest con i rispettivi tre canali (anche quando ne avranno due la cosa non cambierà molto); nella fascia serale tali ascolti arrivano al 90-92 per cento. Le televisioni locali (ma anche Telemontecarlo, che forse avrà una diversa potenzialità per il futuro, ma ora non la dimostra) non si attrezzano, non investono, non hanno coraggio, non hanno nemmeno la capacità di raccogliere bene ed in maniera unitaria la pubblicità, che potrebbe dar loro risorsee inserirle in un circolo virtuoso anche per l'acquisto di film e la produzione di programmi. Tutto questo deve essere fatto in maniera consorziata, altrimenti restano locali ed è inutile sperare che diventino nazionali, se non c'è qualcosa che le spinga a farlo. Attraverso un consorzio si può ottenere che queste televisioni regionali mantengano la loro autonomia, la loro personalità legata al territorio, ma nello stesso tempo esse potrebbero assumere dimensioni nazionali perchédal punto di vista economico potrebbero attingere ai grandi budget nazionali, dando vita ad un network nazionale. La syndication è ammessa dalla legge, quindi basterebbe anche che facessero tre o quattro ore al giorno, anche in ore diverse, la pubblicità di tipo nazionale: la Barilla che vuole far pubblicità in tutta Italia, per esempio, invece di rincorrere duecento televisioni, può rivolgersi al consorzio.

ANTONIO FALOMI. Ci sono le syndication, ma nonostante queste

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Dovrebbero funzionare davvero, non restare solo sulla carta: quindi basterebbero tre-quattro ore al giorno a livello nazionale con bellissimi programmi, anche in momenti diversi, in modo da dar luogo ad un grande network, molto più potente di quello attuale. Oggi sono ferme al 3, 4 o 5 per cento di share, che a noi non interessa. E' necessario che arrivino al 12-15 per cento.

ANTONIO FALOMI. Lei ha introdotto una valutazione di carattere più generale sull'ipotesi di una rete RAI senza pubblicità. Già una riflessione del presidente chiariva che una scelta di questo tipo non nasce da una demonizzazione della pubblicità, ma naturalmente non vale nemmeno l'opposto perché, com'è noto, esistono anche importantissime televisioni di grandissimo ascolto, come la BBC, che funzionano senza pubblicità e che sono finanziate solo con il canone. In realtà la scelta della rete senza pubblicità è legata al fatto che chi possiede più di due reti deve mandarne una sul satellite: quindi si apre uno spazio nelle frequenze per cui può attivarsi un altro soggetto su cui la pubblicità potrebbe riversarsi se si articola il mercato con un pluralismo più forte di quello che deriva dal duopolio. In questo senso il mercato pubblicitario non sarebbe semplicemente penalizzato, tant'è che il disegno della terza rete senza pubblicità scatta nel momento in cui l'altra rete via etere si rivolge verso il satellite.

Vorrei però che motivasse meglio la sua affermazione secondo la quale non è vero che, se si toglie la pubblicità alla televisione, questa rifluisce sulla carta stampata.

Vorrei inoltre sapere quali previsioni fa la vostra associazione in ordine allo sviluppo del mercato pubblicitario in termini quantitativi nei prossimi anni, anche perché questo aspetto è legato ad uno dei problemi posti dalla stessa RAI. L'ancoraggio esclusivo al canone (che ha una dinamica di incremento differente da quella del mercato pubblicitario) può determinare una riduzione complessiva delle risorse a disposizione del servizio pubblico. Ebbene, questo può essere un elemento dannoso.

Lei ha affermato anche che oggi la pubblicità nazionale fa riferimento solo ai grandi gruppi, sarebbe invece necessario che ci fosse spazio anche per imprese di dimensioni minori.

Non capisco però cos'è che lo impedisce, perché non mi risulta che ci siano legislazioni particolari che impediscano alle televisioni nazionali di fare pubblicità a imprese di dimensioni inferiori a quelle dei grandi gruppi. A suo parere questa è una scelta delle grandi emittenti...

PRESIDENTE. Forse dipende dal mercato!

ANTONIO FALOMI. Vorrei capire da dove nasce questa condizione che lei comunque giudica negativamente.

Come vede la sua associazione l'ipotesi che delle società private, per finalità di esclusivo interesse sociale, possano trasmettere messaggi di utilità sociale, sia pure con un regime particolare?

Vorrei infine sapere se siate soddisfatti dell'attuale assetto dell'Auditel. Attualmente si discute se debba occuparsene un soggetto terzo rispetto ai soggetti interessati oppure no.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Lei mi ha chiesto perché la pubblicità che non può stare in televisione non passa automaticamente alla stampa. Ci sono studi di tecnici e di analisti di mercato che dimostrano come per certi articoli, soprattutto per i beni di largo consumo, sia più adatta la televisione, mentre per altri va meglio la stampa. Per i prodotti bancari o finanziari, che esigono una serie di spiegazioni e di argomentazioni, non si potrebbe provvedere con uno spot televisivo di trenta secondi: infatti, vediamo che sulla stampa è presente molta pubblicità.

Gli editori sono bravissimi a lamentarsi, lo fanno da anni, ma in realtà hanno enormi introiti pubblicitari: il 70-80 per cento del loro fatturato deriva dalla pubblicità, se un' azienda vuole comprare una pagina su un grande quotidiano nazionale deve aspettare magari due mesi, cosa che spesso rende impossibile fare quel tipo di pubblicità perché non risponde ai programmi economico-distributivi e promozionali. Se si vuole l'ultima di copertina o posizioni speciali in certe riviste è spesso difficile, mentre nei quotidiani nazionali, se non si è raccomandati è ormai impossibile ottenere degli spazi in certe settimane dal momento che sono tutti occupati.

ANTONIO FALOMI. Per un eccesso di richiesta.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Sono tutti prenotati, come avviene per gli alberghi, dove magari si può tornare in un secondo tempo. Tuttavia non sempre si va in stampa quando si perde la prima occasione. Quindi, la stampa ha la sua pubblicità che deriva da tanti settori, anche in sviluppo come i servizi, per cui non è così in crisi come si dice. Anche la televisione ha le sue caratteristiche per quanto concerne alcuni prodotti che non possono che andare in televisione. Se non vi è spazio, questi prodotti non si rivolgono alla stampa perché, ad esempio, il pomodoro si deve proporre in un certo modo e sulla stampa non può andare; qualche volta va sui settimanali, non certo sui quotidiani, con un'efficacia però di gran lunga minore, anche perché la stampa in Italia è molto cara, per cui spendere centinaia i milioni per alcune pagine (poche) su una rivista a colori vuol dire dover vendere milioni e milioni di pezzi in più, effetto che la pubblicità sulla stampa non provoca per i pomodori pelati. Diversa è la questione per altri prodotti come quelli finanziari, dove gli effetti prodotti da questo tipo di pubblicità sono rilevanti. Quindi, tecnicamente parlando, non vi è quasi nessun travaso tra un settore e l'altro. Se una legge impedisse di fare pubblicità non sulla terza rete RAI ma sul Corriere della Sera credo che cadrebbe il mondo e ci si chiederebbe dove sia la democrazia. Invece, impedire la pubblicità sulla terza rete RAI pare che produca qualche vantaggio, anche se non si sa bene a chi.

Per quanto riguarda lo sviluppo del mercato, facciamo ogni anno un'indagine, che ci costa molti soldi ed un grande impegno: essa viene chiamata "il futuro della pubblicità" e comporta studi, indagini qualitative e quantitative, raccordi internazionali. Quest'anno è emerso che in Italia si investe in pubblicità circa l'8-9 per cento in più rispetto all'anno precedente; nel 1999 vi sarà un incremento del 7-8 per cento e nel 2000 del 7-7,5 per cento, una crescita per ora ben superiore al tasso di inflazione. Per gli anni successivi pensiamo che vi sarà un forte sviluppo della pubblicità, perché, nonostante si dica che in Italia si investe molto in pubblicità e si facciano leggi per frenarla, negli altri paesi ce ne è molta di più ed è incoraggiata. In Germania, che ha 80 milioni di abitanti, gli investimenti in pubblicità sono quattro volte superiori rispetto a quelli fatti in Italia.

ANTONIO FALOMI. L'Italia però vanta il record dell'affollamento.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Non voglio attaccare i giornalisti, anche perché ciò produrrebbe un effetto boomerang. Spesso vengono dette queste frasi interessate, per far piacere al direttore o all'editore. Si dice che la televisione in Italia è la più affollata del mondo e che toglie risorse ai giornali. Per fare un esempio, in Germania, cinque o sei anni fa, vi era poca pubblicità televisiva mentre oggi l'affollamento è al limite di quanto prescritto dalla norma comunitaria e si fa di tutto per arrivare ai margini essendovi molta domanda. Tutt'al più si può dire che negli altri paesi sono più forti i quotidiani: non è colpa nostra se in Italia viene venduta una copia ogni dieci persone, mentre negli altri paesi se ne vende una ogni due o tre persone. Se noi vendessimo i quotidiani che si vendono in Inghilterra o in Germania avremmo un fatturato pubblicitario della stampa superiore a quello della televisione e nessuno direbbe più nulla. Però, non è colpa nostra se i quotidiani in Italia non si sono sviluppati; le cause sono altre e non è il caso di trattarle in questa sede.

Per quanto riguarda l'investimento pro capite in pubblicità, l'Italia è al sedicesimo posto nel mondo. Tutti i paesi europei e molti extraeuropei ci superano, a cominciare dagli Stati Uniti, dal Canada e dal Giappone. In Italia, infatti, gli investimenti in pubblicità rappresentano lo 0,66 per cento del PIL e l'investimento pro capite è molto basso rispetto a quello degli altri paesi. Investire in pubblicità significa spingere un sistema che fa andare avanti un'economia fatta soprattutto di richiesta di acquisti, di proposte, di promozioni e di tante sollecitazioni che vi sono negli altri paesi e che producono rilevanti vantaggi. In Italia, invece, la pubblicità è poco sviluppata e si prevede che dal 2000 in poi aumenterà su tutti i mezzi: la radio sta crescendo molto ed ha fatto passi da gigante, anche grazie all'indagine audiradio che ha dimostrato che in Italia 35 milioni di persone ogni giorno ascoltano la radio. Gli altri mezzi si svilupperanno in maniera sensibile e soprattutto la gamma dei prodotti e dei servizi rappresentati si amplierà, per cui vi sarà spazio per i mezzi che sapranno conquistarsi i lettori o gli ascoltatori.

Riteniamo che la pubblicità si svilupperà notevolmente, anche perché è inutile investire in tecnologie, migliorare i prodotti e dare garanzie se tutto ciò non è conosciuto. E' inutile investire, a livello internazionale 300 miliardi per migliorare un certo prodotto se poi non si può far conoscere e non si possono spiegare le sue caratteristiche.

Per quanto riguarda la pubblicità sociale, siamo poco sensibili, nel senso che se vi è un'azienda che intende promuovere i propri prodotti legandoli ad offerte, proposte, organizzazioni filantropiche può farlo, ma non crediamo che si possano, dal punto di vista generale, agevolare queste scelte che lasceremmo volentieri all'iniziativa delle singole aziende. So che è stata presentata una proposta di legge che prevede agevolazioni per le aziende che legano i propri prodotti ad iniziative filantropiche: noi non chiediamo agevolazioni, chiediamo solo che non vi siano leggi punitive e che vi sia lo spazio per andare avanti, per fare pubblicità, per produrre. Quindi, per noi, chi vuole fa pubblicità sociale e chi non vuole sceglie altre forme.

Circa Auditel si potrebbe dire: infandum, regina, iubes renovare dolorem. Ogni tanto essa viene attaccata. Nel passato erano attori, presentatori, personaggi che, vedendo calare la propria audience, e quindi il proprio successo, davano la colpa ad Auditel; i giornali, dal canto loro, ne parlavano facilmente, anche perché spesso e volentieri essi se la prendono con la televisione. Ora sono ben altri i personaggi che se la prendono con Auditel. Negli anni passati, le maree montanti si sono calmate quando si è constatato che Auditel è un sistema inoppugnabile, uno dei più moderni che esistono a livello internazionale ed è certamente il campione più vasto in Europa.

Ciò che viene criticato non è l'Auditel dal punto di vista tecnico, ma la sua formula, per cui si parla in maniera suggestiva, ma del tutto fuorviante, di controllori controllati. A parte il fatto che la stessa formula di televisione pubblica, televisione privata e di aziende che investono in pubblicità esistono anche in Inghilterra, dove opera il BARB - costituito da BBC, che non fa pubblicità, e da aziende che investono in pubblicità - che funziona molto bene ed in relazione al quale nessuno parla di controllori controllati. Proprio quando il controllo è esterno esso diviene pericoloso, perché chi è interessato a far controllare i propri ascolti, come la RAI o Mediaset, non può farlo fare ad un ente kafkiano senza sapere chissà come e da chi viene amministrato. In realtà si vuole studiare la metodologia dell'indagine, controllarne le fasi, finanziando - come noi facciamo - una società di controllo, come la Arthur Andersen, che verifica tutto attraverso i suoi tecnici. Vi è un pool di professori - come avviene in Auditel - che fase per fase, a cominciare da quella iniziale del campione, svolgono verifiche su verifiche. Quindi, Auditel ha una sua obiettività e una sua struttura molto equilibrate. Essa opera controlli incrociati - come avviene nel BARB inglese - per cui se nell'Auditel vi è un'anomalia tale da portare anche mille ascoltatori in più alla RAI, i responsabili di Mediaset si fanno in quattro per farlo rilevare.

ANTONIO FALOMI. Il problema è se si mettono d'accordo tra loro ai danni di un terzo.

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Naturalmente se un'anomalia si verifica ai danni della RAI, i responsabili agguerritissimi e bravissimi (vi sono da decenni tecnici di primissima categoria) insorgono. Quindi, vi è un controllo incrociato che è il migliore ed il più auspicabile.

Senatore Falomi, come lei ha detto credo provocatoriamente, potrebbero mettersi d'accordo per ampliare gli ascolti. E noi siamo le aziende che pagano solo in base agli ascolti, per cui se centomila ascoltatori calcolati da Auditel in realtà non vi sono, perché dovremmo pagare la pubblicità? Non dimentichi che Auditel l'abbiamo voluta noi come UPA, è presieduta da noi, abbiamo la responsabilità del comitato tecnico, esercitiamo un controllo continuo in consiglio di amministrazione ed in comitato tecnico, quindi la gestiamo noi, anche perché sarebbe difficile darla in gestione solo alla RAI o solo a Mediaset. L'abbiamo voluta noi, abbiamo lottato con il compianto direttore generale della RAI De Luca e con Silvio Berlusconi che all'inizio non la volevano; poi li abbiamo convinti sul fatto che si trattava di un sistema ottimo e super partes ed entrambi hanno capito che quella era la fortuna della televisione. Così è stato, nel senso che la televisione ha molti spettatori e Auditel sa anche quanti e quali sono.

Tra l'altro, non voglio fare il difensore d'ufficio di Auditel, però essa è nata non per i giornalisti e per l'opinione pubblica, ma per motivi pubblicitari, cioè per sapere non solo quanti spettatori ci sono e quanto bisogna pagare un annuncio, ma anche quali sono questi spettatori sotto l'aspetto economico, sociale, dello stile di vita, allo scopo di raggiungere un target che interessa. I dati che compaiono sui giornali e che ci dicono che una certa trasmissione ha avuto 2 milioni 200 mila ascoltatori, l'altra 7 milioni e 300 mila e l'altra ancora che è quasi fallita ne ha avuti 1 milione 200 mila, sono la punta dell'iceberg, perché ogni giorno abbiamo milioni e milioni di dati dal sistema Auditel che ci dicono tutto di questi signori, delle loro caratteristiche di ascolto minuto per minuto, se hanno visto l'uno o l'altro programma, se sono uomini o donne, se abitano in grandi o piccole città, se si tratta di famiglie numerose o meno, se cambiano canale quando c'è la pubblicità, la loro professione, il potere d'acquisto, tutto quanto serve per la pubblicità. Possiamo immaginare l'ISTAT o qualche altra società demoscopica che fa tutte queste indagini? Non avrebbe senso.

EMIDDIO NOVI. La famiglia Auditel, numerosa o limitata, quanto guadagna per questa attività che sostanzialmente è durissima?

FELICE LIOY, Direttore dell'UPA. Innanzitutto, si tratta di 5 mila famiglie che hanno un mitten inserito nel televisore; naturalmente acconsentono al suo posizionamento, dopo di ché lo dimenticano. Hanno però un pushing button, cioè un telecomando con cui segnalano la presenza di una persona o dell'altra. Questa operazione sembra quasi rocambolesca, ma, in realtà - come avevamo già visto, ad esempio, in America (mi sono occupato per anni di Auditel prima di fondarlo nel 1984) - risponde a criteri sostanzialmente veri. Al massimo può avvenire che siano segnalate cinque persone che guardano la televisione, mentre in realtà sono quattro, ma per converso può esservi qualcuno che non ha inserito il suo bottone, per cui vi è una compensazione sostanziale.

Per questo lavoro, come in tutto il mondo, alla fine dell'anno si dà quello che i paesi anglosassoni chiamano inducement, cioè un piccolo regalo che può essere uno spremilimone elettrico o un macinacaffè o uno scaldatoast. Si tratta, quindi, di un lavoro volontario del quale generalmente ci si dimentica, anche se si ha questo pushing button con cui si deve segnalare la presenza premendo il proprio bottone (il padre il n. 1, la madre il n. 2, eccetera). Tutto questo fa sentire le famiglie leggermente protagoniste o comunque svolgitrici di una funzione di interesse statistico che va al di là della singola operazione.

PRESIDENTE. Ringrazio a nome della Commissione il direttore dell'UPA, dottor Felice Lioy, per l'utilissima audizione.

Audizione dei rappresentanti dell'USIGRAI.

PRESIDENTE. Ringrazio i rappresentanti dell'USIGRAI, Gregorio Corigliano, Ottavio Olita e Fabio Cappelli, e do subito la parola al segretario, dottor Natale, per una relazione introduttiva.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Abbiamo visto nella convocazione, per la quale vi ringraziamo, che la discussione sul piano della nuova RAITRE è collegata a quella sullo stato di attuazione dell'articolo 37, comma 4, del contratto di servizio, cioè del piano di divisionalizzazione aziendale. Vorremmo sfruttare questa occasione per inserire le nostre dichiarazioni sulla nuova RAITRE all'interno di tale questione.

PRESIDENTE. La Commissione deve esprimere per l'authority il parere sulla nuova terza rete. Abbiamo deciso di procedere ad una discussione congiunta perché la nuova RAITRE andrà in vigore quando una rete Mediaset andrà sul satellite e il processo di divisionalizzazione si avvierà nel gennaio del 1999. La Commissione vorrebbe capire cosa succederà nell'azienda al di là delle poche righe scritte nel contratto di servizio.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Per quanto riguarda il piano di divisionalizzazione aziendale, il sindacato dei giornalisti da anni chiede una RAI diversa e più agile; da tempo affermiamo che la RAI non può rimanere così come è e deve darsi strutture che la rendano più adatta alla concorrenza sul mercato nazionale e internazionale. Però, il criterio principale con cui guardiamo ai piani di riorganizzazione societaria è legato ad una parola chiave contenuta nella legge n. 249: unitarietà del servizio pubblico. Ci interessano quindi i progetti di riorganizzazione aziendale a condizione che venga fatta salva l'unitarietà del servizio pubblico, cioè che la RAI mantenga le tre reti. Questo per noi è un criterio fondamentale di giudizio.

Da questo punto di vista, in linea generale abbiamo ritenuto di non giudicare negativamente il piano di divisionalizzazione (il confronto con l'azienda sulle specificazioni concrete del piano procederà nelle prossime settimane) perché ci pare che consenta di tenere insieme l'esigenza di un'articolazione dei diversi settori aziendali con il mantenimento dell'unitarietà del servizio pubblico. E' infatti essenziale per noi che tutta la RAI continui ad essere considerata servizio pubblico, anche se con articolazioni e missioni diverse; rigettiamo quindi la definizione della nuova RAITRE come rete di servizio pubblico, perché ci sembra pericolosamente equivoca in quanto lascia presupporre che RAIUNO e RAIDUE non lo siano o possano non esserlo. Il nostro criterio di giudizio generale è quindi legato al fatto che non si creino le precondizioni per poter mettere in vendita RAIUNO o RAIDUE.

Collegato a questo c'è il tema delle risorse. La RAI ha tre reti, ma non ci accontentiamo di una proclamazione di principio sul fatto che debba continuare ad averle se poi le risorse continuano a calare magari in presenza di compiti crescenti. Perciò abbiamo valutato con preoccupazione un'intervista al Sole 24 Ore di venerdì 19 luglio del professor Enzo Cheli, presidente dell'autorità per le comunicazioni, che ha messo in discussione la perfetta simmetria - cioè il concetto alla base della legge n. 249 - prospettando la possibilità che siano simmetrici i tempi di decisione della rinuncia della RAI alla pubblicità su RAITRE e del passaggio sul satellite di una rete Mediaset, ma non siano più simmetrici i tempi di attuazione del provvedimento. Abbiamo valutato con estrema preoccupazione questa presa di posizione perché ci sembra che venga meno alla logica del perfetto equilibrio tra pubblico e principale concorrente privato, che pure come giornalisti non ci entusiasmava quando fu scelta.

Sul tema della nuova RAITRE farò pochi cenni generali. Abbiamo considerato positivamente la scelta di definire RAITRE una rete generalista, perché ciò, tra l'altro, vincola la rete a obiettivi di ascolto da parte di un pubblico diffuso. Nei mesi scorsi avevamo polemizzato con chi propugnava per la nuova RAITRE un obiettivo di vuoto sperimentalismo sganciato da livelli di audience; noi continuiamo ad essere tenacemente attaccati all'idea che un servizio pubblico ha senso se si fa vedere, quindi è importante che ci siano obiettivi di ascolto. Ci è capitato di leggere che anche in una delle recenti audizioni condotte dalla Commissione su questo tema il rappresentante della FRT abbia detto di volere una rete sperimentale non legata ad obiettivi di ascolto; noi, al contrario, riteniamo positivo che nel mandato affidato ai dirigenti della nuova RAITRE ci sia l'indicazione di una soglia di share. Non siamo affezionati in maniera vuota all'Auditel, ma una rete che non fosse vista non servirebbe a nessuno.

A suo tempo contestammo l'idea che dovesse trattarsi di una rete federale, perché il federalismo non si adatta alla realtà istituzionale, culturale e televisiva italiana; da qui deriva il nostro no anche al concetto di macroregioni con valenza editoriale, che pure si era affacciato in una prima parte del lavoro di questo gruppo dirigente. Al momento della presentazione del piano il vertice RAI ha escluso espressamente qualsiasi valenza editoriale informativa per il concetto di macroregioni, sostenendo che la notizia macroregionale non esiste; riteniamo che a questo debba essere vincolato il gruppo dirigente aziendale, perché non vorremmo cioè che il concetto di macroregione, uscito dalla porta, rientrasse dalla finestra.

Valutiamo invece positivamente in linea generale - ma dovrà essere riempito di contenuti - un rapporto più stretto con il territorio. Tra l'altro, le sedi regionali sono una ricchezza storica della RAI, una delle differenze essenziali rispetto al maggior concorrente privato, che deve essere valorizzata. A proposito del rapporto con il territorio, però, riteniamo importante sottolineare quale deve essere il rapporto con le istituzioni locali e con le autonomie che la RAI deve intrattenere.

A tale proposito un'esperienza recente ha provocato momenti di aspro conflitto all'interno della RAI; mi riferisco ad una convenzione costruita dalla presidenza Moratti, firmata dalla presidenza Morello, rifirmata dalla presidenza Siciliano: il cosiddetto CINSEDO, cioè il consorzio delle giunte regionali. A nostro parere, quello era e rimane un modello di come non avere rapporti con le istituzioni regionali e locali. La RAI infatti - e quel modello è ancora operante nonostante le correzioni che siamo riusciti ad apportare - si vincola ad un rapporto esclusivo ed anche subalterno; vorremmo invece una RAI che avesse rapporti con tutti i soggetti, non solo giunte ma anche consigli regionali, province e comuni, mantenendo però l'autonomia editoriale anche per evitare il sospetto che nuova RAITRE possa diventare una forma mascherata di pubblicità istituzionale.

Rete territoriale per noi significa anche che deve essere colta questa occasione per risolvere un problema annoso, quello della visibilità in senso tecnico dei programmi di RAITRE. Come sapete, infatti, in molte regioni d'Italia non c'è corrispondenza tra il soggetto emittente e quello che vedono gli spettatori: l'alto Lazio vede la Toscana, parte dell'Emilia e della Romagna vedono la Lombardia, Calabria e Sicilia vedono altre zone vicine. Speriamo sia questa l'occasione per risolvere questo problema e speriamo che non si determinino difficoltà simili a quelle verificatesi per Radio Parlamento a proposito dell'acquisizione di frequenze; auspichiamo che da tutta la Commissione di vigilanza sia sentito come un arricchimento complessivo del servizio pubblico il fatto che i cittadini possano vedere le trasmissioni dedicate alla loro regione.

La riforma delle sedi regionali sembra un titolo burocratico e molto interno all'azienda, ma è bene sapere che in molte regioni è sopravvissuta nell'organizzazione aziendale la struttura di programmazione regionale, nonostante che dal 1988 non abbia più sfornato programmi. Una delle parole chiave del nostro confronto con l'azienda nei prossimi mesi sarà quindi quella della riforma delle sedi regionali.

Nelle linee del piano presentate dalla RAI il 30 aprile ci paiono generici gli impegni sulle regioni con plurilinguismo; noi riteniamo invece che l'integrazione tra livello internazionale, nazionale, regionale e locale possa avere, proprio in quelle regioni, uno sviluppo concreto, già sentito dagli abitanti. Ci aspettiamo dunque dalla RAI maggiore impegno in direzione, per esempio, della TV transfrontaliera.

Sottolineiamo anche che è in alto mare il progetto diall news, materia incardinata nella testata unificata. A proposito di quest'ultima, vogliamo pensare che si tratti di vera unificazione e non di una giustapposizione o di una riverniciatura per cui magari, dal 1° gennaio 1999, cambia la sigla ma nella sostanza il TG3 continua per conto suo e i telegiornali regionali continuano per conto loro. Non è questo l'impegno assunto dal vertice aziendale, pertanto andremo al confronto esigendo che si tratti di unificazione vera perché la RAI ha detto che non sarà una semplice sommatoria, ma vi sarà uno sforzo di confezionare un prodotto editorialmente innovativo, capace di arricchire l'offerta e superare l'uniformità che ha fin qui caratterizzato i TG generalisti.

L'ultima osservazione riguarda il rapporto con l'emittenza locale a cui è connesso il tema dello scambio dei servizi. L'azienda nelle linee di piano afferma che verrà introdotto il meccanismo dell'acquisto di servizi tra una divisione e l'altra; in particolare tale meccanismo riguarderà l'apporto delle sedi regionali alle testate nazionali. Abbiamo già sottolineato che per noi è essenziale che questo scambio di servizi avvenga solo all'interno; anche per quanto è scritto nei contratti nazionale e integrativo, non può essere aperta la porta alla possibilità che un TG nazionale compri servizi relativi ad un avvenimento locale da un'emittente privata. Di questo vincolo c'è bisogno perché, se si andasse ad una considerazione puramente economica del vantaggio, verosimilmente l'acquisto all'esterno costerebbe di meno per l'ovvio motivo che nell'emittenza locale privata il livello di tutela contrattuale è sostanzialmente pari a zero.

Vediamo invece con favore la possibilità che si estenda un rapporto con l'emittenza locale ai fini di un'integrazione dal punto di vista tecnico, non editoriale; si deve cioè far di tutto perché la RAI possa stare prima e meglio dove serve. L'ultimo esempio negativo al riguardo è stato quello dell'incidente ferroviario di Firenze della fine di marzo.

MARIO BORGHEZIO. Vorrei avere un maggiore approfondimento circa i motivi che vedono il vostro organismo così rigidamente chiuso alle prospettive di riforma delle strutture in senso federale. Ritengo infatti che sia assolutamente necessario, proprio partendo dall'esperienza e dalla storia della RAI, riscoprire la forza propulsiva del territorio. Non mi accontento della vostra generica disponibilità ad appoggiare l'autonomia delle sedi regionali, perché vedo in tale affermazione una scontata ripetizione di un impegno tradizionalmente biascicato dalla dirigenza RAI e regolarmente contraddetto da un processo di smobilitazione e di svuotamento spirituale di questa ricchezza.

A Torino, per esempio, abbiamo sotto gli occhi una realtà che fa sanguinare il cuore: una realtà di competenze, di storia e di capacità progettuali che è stata calpestata e soffocata da una mentalità rigidamente centralista. Credo che dovreste approfondire meglio i motivi di questa posizione e colgo l'occasione per chiedervi se sia possibile aprire una riflessione su questo tema.

Siamo di fronte a mutamenti di carattere generale della nostra società politica e credo che sarebbe un errore strategico da parte della RAI non cogliere l'occasione di questo processo di riforma così importante per cogliere lo spirito dei tempi, recuperando tutte le potenzialità e le ricchezze anche professionali che proprio il sindacato dovrebbe difendere con maggior forza.

EMIDDIO NOVI. Mi vorrei soffermare sul rapporto con le autonomie locali. Poco fa abbiamo ascoltato la giusta e motivata opposizione del sindacato nei confronti del CINSEDO manifestata al tempo della presidenza Moratti. In realtà, per quanto riguarda i giornali regionali c'è un CINSEDO permanente di subalternità totale delle redazioni alla cultura o subcultura di governo della maggioranza, che tra l'altro spesso in molte regioni è minoranza: non è riconosciuta nessuna legittimità politica alla presenza culturale o all'iniziativa di forze che non facciano parte della maggioranza dell'Ulivo.

Questa è ormai una consuetudine che mette in discussione la stessa autonomia editoriale e fa emergere una sorta di subalternità nei confronti della maggioranza di Governo, subalternità che non ci fu nella brevissima esperienza del Governo Berlusconi.

Faccio un esempio: a Napoli, all'improvviso si è deciso il blocco della circolazione automobilistica la domenica mattina, che ha resistito soltanto per il mese di maggio, perché a giugno sono insorti tutti, soprattutto i napoletani che si vedevano negato il diritto di fare un bagno in mare. Avevamo un'intera città agli arresti domiciliari fino all'una di mattina. I giornali ne hanno parlato; sono sorti comitati spontanei e manifesti: "Basta con i napoletani prigionieri in casa la domenica". La redazione RAI di Napoli non si è accorta di nulla per tutto il mese di maggio e non ha minimamente informato sul dibattito che si svolgeva nella città su questo cervellotico blocco che poi è stato rimosso.

La redazione RAI di Napoli ignora totalmente i lavori delle assemblee cittadine, che per la redazione RAI di Napoli non esistono; per essa esistono soltanto il sindaco e qualche assessore possibilmente non dissenziente; non solo, ma per la redazione di Napoli della RAI non esistono vertenze sindacali. La città sta per perdere 1500 posti perché sono stati tagliati, da parte della Telecom, i programmi di cablaggio che riguardano soprattutto le aree periferiche della città, quelle che dovrebbero essere reindustrializzate. Ebbene, non ce n'è traccia nei notiziari RAI. Si arriva a coprirsi di ridicolo delineando una città felice che non ha problemi nello stesso giorno in cui masse esasperate di migliaia di napoletani non riescono a trovare un minimo di servizi agli imbarchi per le isole. Le condizioni infernali denunciate dai giornali, per la RAI e per il TG della Campania non esistono. Lo stesso si è verificato in occasione delle recenti alluvioni, ad eccezione di un giornalista che ha fatto capire nelle prime ore cosa stava avvenendo. Solo dopo 24 ore si è capito il grado della tragedia che si stava verificando a Sarno. C'è stata poi una disinformazione sistematica per quanto riguarda i fatti di Sarno, perché in realtà il sindaco dopo poche ore non contava più nulla, per quanto riguarda la gestione dei soccorsi, in quanto è stato letteralmente estromesso - come doveva avvenire - da parte della struttura della protezione civile che, per 48 ore, non è stata in grado di fronteggiare l'emergenza. Soltanto il direttore del TG3 ha denunciato questo tipo di situazione.

Dove è andato a finire il rapporto con le autonomie locali (che non può essere un rapporto di subalternità, da CINSEDO permanente)?

Questa subalternità denota anche una carenza professionale dovuta a lottizzazioni stratificate ma anche presenti. Nel momento in cui si assume con un contratto a termine un giornalista che è legato, per motivi professionali, ad un esponente di primo piano della politica cittadina, è chiaro che quel giornalista è condizionato nella sua attività da un certo tipo di rapporto. Questa situazione non è più tollerabile; non è possibile che il servizio pubblico si trasformi, in molte realtà (nella maggioranza di quelle dei giornali locali) in una sorta di latifondo dell'informazione di una determinata cultura o di uno schieramento politico, anche perché i nodi alla fine vengono al pettine. Né voi potete immaginare che a lungo l'opinione pubblica possa tollerare questo tipo di gestione latifondista dell'informazione, perché si tratta di un servizio pubblico e il canone lo pagano tutti. Nelle redazioni ci sono anche ottimi professionisti, giornalisti che potrebbero produrre una grande informazione e spesso vengono marginalizzati o emarginati perché non sono subalterni a questa gestione latifondista dell'informazione.

PRESIDENTE. Prego il dottor Natale, quando risponderà a queste osservazioni, di chiarire un punto ad esse collegato, cioè come valutiate il calo degli abbonamenti che si è prodotto nell'ultimo anno, almeno stando alle notizie diffuse dai giornali.

PAOLO RAFFAELLI. Desidero tornare all'intelaiatura della riflessione sottesa alla relazione non svolta in questa sede - ma che è agli atti - del senatore Falomi.

Fatte salve le leggi fondamentali del confronto politico e propagandistico, vorrei che ci liberassimo di una sorta di contrapposizione fra spirito di servizio e spirito di servitù, considerati come sinonimi.

Mi collego ora ad un concetto di borgheziana memoria, quello cioè della "forza propulsiva del territorio", che credo sia un elemento sul quale oggi possiamo riflettere. Propongo una scaletta per capire se ho bene interpretato le ipotesi che l'USIGRAI ha avanzato in questa sede e per chiedere alcuni chiarimenti.

Mi è parso di capire che la nuova RAITRE non può essere definita servizio pubblico (altrimenti le altre cosa sono?). Visto che c'è un ruolo di servizio pubblico che deve essere di tutta la RAI, per cui è necessario un momento di contaminazione forzata fra logica dell'audience, della ricerca, dell'indice di ascolto, quindi della ricerca di supporti pubblicitari, di popolarità, qual è l'elemento di peculiarità, a vostro avviso, di una rete senza pubblicità e qual è il di più o di diverso di servizio pubblico che uno strumento informativo di questo genere deve avere rispetto agli altri elementi, che sono anch'essi inequivocabilmente di servizio pubblico?

Giudicate positivo il fatto che per RAITRE venga ribadito, come elemento di novità rispetto ad alcune posizioni recenti, il ruolo di rete generalista per un pubblico diffuso e non come sede di un vuoto sperimentalismo sganciato dall'audience?

In che modo questo ruolo per un largo pubblico di servizio esteso può interagire con momenti di sperimentazione e di ricerca di radicamento sul territorio e di innovazione nei linguaggi e quali possono essere - mi rendo conto che non possono essere i giornalisti gli unici a dare una risposta - gli strumenti attraverso cui il meccanismo dell'innovazione e quello della risposta ad un largo pubblico possono sintetizzarsi?

Avete detto "no" alle macroregioni con valenza editoriale, indicandole come una sorta di sovrapposizione artificiale ad una specificità del territorio che non consente violenze. Non è attraverso l'invenzione di macroregioni, che esistono solo sulla carta o nell'etere, che si può sintetizzare la grande questione moderna dell'informazione e cioè l'interconnessione diretta fra dimensione locale e dimensione globale della comunicazione. Poiché sono convinto che sia proprio questo il nodo fondamentale della RAI-servizio pubblico, della RAI-territorio mondo, cioè quello di come interconnettere in maniera permanente e non occasionale la dimensione locale dell'interesse immediato dell'ascoltatore fruitore con la dimensione globale della comunicazione e dell'informazione, quali sono le indicazioni propositive che individuate sotto questo profilo?

Rispetto a questo tema, all'esigenza di un rapporto stretto sul territorio e alla necessità di valorizzare appieno la risorsa aggiuntiva della RAI rispetto a tutta la concorrenza, cioè la presenza di una rete estesa e praticamente unica di terminali territoriali di produzione dell'informazione, come ritenete che sia necessario intervenire, in termini di modifica e di riforma della struttura attuale delle sedi regionali affinché questo ruolo di interconnessione locale e globale, a livello sia tematito sia contenutistico, possa essere realizzato? Quali sono, secondo voi, le strozzature, i punti di resistenza, i punti di arretratezza, gli ostacoli rispetto alla modernizzazione della macchina su questo tema specifico?

Siete stati molto espliciti rispetto al CINSEDO - avete già dato una risposta parziale, ma io chiedo una ulteriore esplicitazione - che avete definito icasticamente un esempio di come non avere rapporti con le istituzioni regionali, un esempio di come nuova RAITRE potrebbe diventare una forma di pubblicità istituzionale. Se e come ritenete che la partita CINSEDO debba essere riaperta e quale può essere una modalità di rapporto con il sistema delle realtà territoriali (non penso alle sole istituzioni territoriali) che facciano della RAI anche uno strumento di servizio sul territorio e per il territorio? Faccio un esempio: non sono affatto convinto che i telegiornali regionali (nelle ultime due settimane per motivi di lavoro e di diporto ho avuto occasione di vedere i telegiornali regionali a Trieste, Bologna, Ancona, Roma, Firenze, Perugia, Milano) trasmettano troppo pochi consigli regionali o comunali; forse, se posso muovere un appunto, ne ho visti troppi.

EMIDDIO NOVI. E' miserabile questa polemica!

PAOLO RAFFAELLI. Novi, perdonami. Presidente, lei deve richiamare all'ordine il senatore Novi. Io non ho interrotto...

PRESIDENTE. Se permette lo decido io.

PAOLO RAFFAELLI. ...e c'erano molte ragioni per interrompere l'intervento offensivo del senatore Novi.

PRESIDENTE. Ho apprezzato.

PAOLO RAFFAELLI. Dopo di che, in questa fase, il senatore Novi ha introdotto anche alcuni elementi di giudizio. Il termine "miserabile", che mi auguro rimanga agli atti, costituisce un elemento di violazione che io giudico assolutamente inammissibile in un meccanismo di comunicazione all'interno di una Commissione parlamentare. Quindi, o ritorniamo dentro la logica della buona creanza elementare, oppure...

PRESIDENTE. Non ho colto l'affermazione.

PAOLO RAFFAELLI. L'ho colta io e la trovo pungente. Spero che rimanga agli atti, in modo che chiunque l'abbia formulata possa vergognarsene a tempo e luogo e semmai anche in una fase successiva.

PRESIDENTE. Adesso cerchiamo di concludere l'intervento, senza ulteriori interruzioni.

PAOLO RAFFAELLI. Credo comunque che la buona creanza vada tutelata al di là delle appartenenze politiche, signor presidente.

Spero di non aver perso il filo, perché la maleducazione spesso rende complicatissimo lo sviluppo di un discorso politico che abbia una logica.

Non c'è troppa presenza delle istituzioni, a mio avviso forse ce ne è troppa; non so se sia unilaterale, se posso permettermi un giudizio per le visioni che ho visto ho un'idea semmai di sommarietà. Non sempre si spiega bene cosa succede nelle istituzioni, ma si dà l'idea che sostanzialmente ci sia confusione.

Avverto invece un problema reale: c'è l'esigenza di comprendere meglio, anche con strumenti specifici, quello che accade all'interno delle istituzioni; si finisce sempre per capire cosa accade nel Parlamento e nel Governo, sia pure in maniera indiretta, impropria e remota dal dibattito politico. A livello delle assemblee elettive locali i meccanismi sono più difficili da penetrare. Esistono a vostro giudizio strumenti che potrebbero essere sperimentati localmente dalle sedi regionali che consentano, senza ricadere nella solita riproposizione di tribune politiche locali che credo abbiano solo la valenza di favorire la concorrenza in quella fascia di ascolto, di affrontare in maniera più approfondita la tematica istituzionale senza togliere spazio alle esigenze di copertura informativa brutale del territorio e senza trasformarsi in uno strumento di regime?

STEFANO SEMENZATO. Cercherò di fare domande schematiche.

La prima richiesta è un giudizio sui conti presentati dalla RAI nel progetto complessivo. Se è chiara la parte che riguarda il canone dell'autoradio, la trimestralizzazione dei versamenti, mi sfugge se per il resto i conti sono congruenti. E' del tutto evidente che, se fra uno o due anni ci troveremo di fronte ad una difficoltà di bilancio di 5-600 miliardi, il nodo della privatizzazione sarà ineludibile; sarebbe bene quindi pensarci in questa fase per capire la congruità, per esempio, tra il progetto di nuova terza rete e l'unitarietà del servizio pubblico, altrimenti è una discussione accademica.

Una domanda specifica riguarda il settore delle pay-TV e della piattaforma digitale. Nel dibattito convivono due tesi, una è che la RAI nel servizio pubblico deve trainare il settore e quindi in qualche modo fare investimenti a perdere per far decollare il settore del digitali; l'altra è che questa sia un'occasione di profitti, quindi è un investimento che produce soldi in tempi brevi.

Vorrei sapere inoltre se il sindacato veda una possibilità che l'attuazione delle divisioni, tenendo conto dei vari meccanismi di incentivo che la RAI può produrre, possa determinare in prospettiva una sorta di aree salariali diversificate per giornalisti. La RAI ha singoli incentivi ad hoc per singoli giornalisti o per settori: ebbene, vorrei capire se c'è un rischio di questo tipo. Trovandoci di fronte a più divisioni, alcune delle quali più direttamente collegate al mercato, quindi con effetti di traino, ed altre più direttamente di servizio pubblico, vorrei conoscere i meccanismi conseguenti.

Negli interventi introduttivi si è detto che c'è un problema di rapporti fra la nuova terza rete e le altre testate, riconducibile in maniera precisa anche in termini economici. I conti forniti finora dalla RAI per la terza rete riguardano solo le uscite; si dice che essa costa circa 1.450 miliardi ma non è stato mai quantificato quali entrate possa produrre la vendita di servizi da parte di questa rete. In questo modo vengono addossati ad una rete tutti i costi, per cui è facile arguire che le altre reti costano meno ed hanno possibilità di manovra molto diverse. Vorrei quindi sapere se esiste un meccanismo contrattuale interno alla RAI per stabilire il nesso fra queste condizioni e capire se questo riesce a stare all'interno del sistema RAI oppure se si va verso aree che entrano in rapporto economico tra loro.

Approfitto infine della presenza dell'USIGRAI per fare un'osservazione. C'è un problema relativo ad indirizzi della Commissione di vigilanza più o meno rispettati in questi due anni da parte della RAI. Poiché il consiglio di amministrazione si era impegnato a stendere un testo unico per i giornalisti, vorrei sapere se l'USIGRAI ha attuato o ha in mente proprie iniziative specifiche come forma di autoregolamentazione in modo da ridurre al minimo il conflitto tra la Commissione di vigilanza ed i giornalisti della RAI. E' evidente infatti che se le norme vengono interiorizzate in forma preventiva nascono meno punti di contrasto.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. L'onorevole Borghezio ci chiedeva perché siamo chiusi a prospettive di riforma federale. Mi sentirei di negare nettamente che la nostra posizione possa essere sintetizzata così e soprattutto che questo significhi una difesa del centralismo romano. Credo di aver detto - e se necessario lo ripeto - che, in particolare per quanto riguarda la nuova RAITRE, riteniamo positiva una forte caratterizzazione di aderenza al territorio.

Quando dicevo che abbiamo valutato negativamente il modello federale volevo dire una cosa diversa. Nell'estate del 1996, quando si cominciò a parlare di disegni di legge Maccanico, venne prospettata l'ipotesi che alla situazione televisiva italiana si applicasse sostanzialmente in fotocopia il modello della ARD tedesca, cioè della rete basata sui Lander. Notammo allora e notiamo ancora oggi che, rispetto alla situazione tedesca, le differenze istituzionali, culturali, di senso comune in Italia sono enormi: già nel TG regionale del Lazio, per esempio, si ha difficoltà a parlare di un tema che interessi insieme Viterbo, Frosinone e Rieti perché è forte la domanda di informazione cittadina, ma già il livello regionale nella percezione del cittadino è più istituzionale che non legato alla vita pratica.

In questo senso ribadiamo che ci interessa un rapporto fortissimo con il territorio ma non ci pareva utile l'esperienza della trasposizione di un modello pensato sulla specifica situazione tedesca. Mi sembra che questo sia perfettamente conciliabile con le osservazioni dell'onorevole Borghezio circa la realtà, per esempio, di Torino.

Nei documenti che abbiamo consegnato all'azienda si pone l'accento sulla necessità di una piena valorizzazione dei centri di produzione di Milano, Torino e Napoli - che negli ultimi anni la RAI ha purtroppo ridimensionato - sia per produzione di testata che di rete, seguendo con attenzione specifiche vocazioni produttive presenti anche in regioni senza centri di produzione televisiva. Facevamo l'esempio di una trasmissione coprodotta a costo zero tra Venezia e Napoli. Non siamo quindi affezionati all'idea che la RAI stia solo a Roma, ma notavamo che la trasposizione pedissequa del modello tedesco non si adatta alla situazione italiana.

A proposito delle questioni poste dal senatore Novi, non conosco l'offerta della redazione RAI di Napoli. Lei fa riferimento ad episodi specifici rispetto ai quali sarebbe pretestuoso da parte mia fare una difesa d'ufficio, mi preme però sottolineare un punto. Lei ha parlato di CINSEDO permanente. Nel modo d'azione, nei fondamenti, nella pratica quotidiana di questo sindacato c'è il rifiuto del CINSEDO permanente. Lei con qualche malizia ha sottolineato la nostra azione come opposizione all'iniziativa voluta dal presidente Moratti, ma nella mia introduzione ho ricordato che ci siamo opposti al CINSEDO costruito dalla Moratti, firmato da Morello e rifirmato da Siciliano, quindi a differenti gestioni della RAI.

Ci siamo opposti a questo modello di subalternità alle giunte regionali in un momento in cui - se le bandierine di Emilio Fede non mi confondono - c'erano state elezioni che avevano dato, in nove regioni su quindici, la maggioranza al centro-sinistra. La nostra impostazione è l'autonomia dell'informazione comunque e da qualunque soggetto.

Se possiamo permetterci un consiglio in questa sede suggeriamo di provare a ridurre, perché magari aprirebbe il terreno ad un'iniziativa comune, il tasso di sospetto riguardo alla subalternità politica dei giornalisti RAI e ad incrementare l'attenzione critica sui problemi di qualità, sulle iniziative di formazione che mancano, sui ritardi del servizio pubblico.

Lei ha accennato alla vicenda di Sarno, io ho letto di apprezzamenti per il modo in cui la RAI si è comportata in quell'occasione, ma non mi interessa entrare nel gioco degli stendardi. Qui mi preme dire che forse con la Commissione di vigilanza sarebbe possibile stabilire un rapporto ulteriormente positivo da parte nostra, se tutti insieme andassimo a vedere se le redazioni sono messe in condizioni di stare sul territorio come dovrebbero. Il collegamento con i temi che discutiamo oggi non è forzato: è un problema di tutti o no il fatto che la RAI, per una politica seguita negli ultimi anni, si è ritratta da radicamento sul territorio?

E' un problema di destra, di centro o di sinistra il fatto che la RAI non abbia presenze in 35 dei capoluoghi di provincia che non sono anche capoluoghi di regione?

E' un problema di destra, di centro o di sinistra il fatto che queste condizioni materiali spingano la RAI per forza di cose ad essere sempre più centrata - come giustamente le viene imputata - sulla rappresentazione del capoluogo di regione?

Questi mi sembrano essere temi sui quali anche le critiche potrebbero dispiegarsi magari con libertà dagli schieramenti politici. Sono assolutamente d'accordo con il senatore Novi sul fatto che la RAI non può essere un latifondo, perché il canone lo pagano tutti. Il presidente della commissione ricorderà che più di una volta gli è capitato di stupirsi per il fatto che questo sindacato consentisse con alcune sue denunce circa i problemi del pluralismo e i dati dell'osservatorio di Pavia. Maliziosamente avanzò il sospetto che fossero iniziative precongressuali, ma vennero anche dopo il congresso, quindi c'era qualcosa di solido.

Si è parlato di carenza di professionalità anche legata al modo in cui si entra alla RAI. Ci è già capitato di venire qui a illustrare il lavoro fatto dal sindacato dei giornalisti sul tema della trasparenza delle assunzioni e delle regole che presiedono alle collaborazioni. Credo che su questo, se non ci sono interessi di schieramento, sia possibile trovare il terreno per un dialogo che consenta anche di vedere - non è un appello per dovere d'ufficio o d'azienda - che la rappresentazione della RAI, che purtroppo ancora corre all'esterno, anche per l'incapacità dei vertici precedenti che non sono riusciti a contrastare questa immagine, cioè di una RAI in cui, in particolare nel settore giornalistico, si entra perché si è amici o parenti di qualcuno o per colpi di gomito di questo o quel politico, è larghissimamente falsa. Se la Commissione di vigilanza lo riterrà, ci piacerebbe tornare a parlare delle questioni relative ai criteri di assunzione e collaborazione. Se ne è parlato in occasione delle discussioni sul precariato RAI, però ci terremmo, visto che finora i vertici RAI non hanno saputo spiegarlo bene, ad avere un confronto sulle regole che ci sono e su quelle che stiamo cercando di far fissare.

Il presidente ha chiesto come valutiamo il calo del canone.

PRESIDENTE. Degli abbonamenti.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. In proposito sono state fornite due spiegazioni: secondo la prima si tratta di un problema politico, nel senso che lo schierarsi politico della RAI ha provocato disaffezione da parte di un certo settore degli utenti. Per la RAI, invece, la legge sulla privacy rende più difficile...

PRESIDENTE. Non sono in contrasto, perché c'è riservatezza sulle notizie dell'opposizione.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Questa è una buona battuta ed io mi permetto di prenderne solo una parte. Non vediamo contrasto; non potendo avere una verifica diretta, le assumiamo per buone tutte e due. Però, vorrei capire - ciascun settore darà una risposta come e quando vuole - se debba continuare la campagna sul canone, facendo credere all'opinione che sia una forma di latrocinio organizzato e omettendo il dato che il canone del servizio pubblico italiano è di gran lunga il più basso d'Europa. Se il canone RAI venisse portato ai livelli europei noi potremmo dare la nostra disponibilità ad abbandonare la pubblicità. Questo elemento ci pare che sia dimenticato nelle polemiche sul servizio pubblico.

L'onorevole Raffaelli ha parlato della forza propulsiva del territorio e della peculiarità della rete, che noi vediamo in due caratteristiche, la prima delle quali è il rapporto forte col territorio che non ha dato ancora altro che una piccola parte di quello che può dare. Nella nostra pigrizia di spettatori sta l'incapacità di pensare a qualcosa che esca dall'offerta generalista classica. Nulla impedisce - e noi, anche da questo punto di vista, incalziamo la RAI perché RAITRE sia qualcosa di veramente nuovo - che venga fatta un'offerta su temi legati agli interessi dei cittadini, con spazi che potrebbero persino arrivare in prima serata. Intendo dire che alcuni grandi problemi (ambiente, lavoro) potrebbero essere oggetto di iniziative di informazione che mettano insieme più regioni (in questo senso potrebbe essere praticabile la macroregione). Insomma, la RAI deve sfruttare di più il rapporto col territorio.

L'altro elemento di peculiarità della rete, quando non ci sarà più la pubblicità, è la possibilità di parlare al cittadino, considerato come cittadino e non come consumatore.

Ci si pone molto spesso il problema dei rapporti di subalternità dell'informazione nei confronti dei poteri politici ed io credo che sia giusto - e come giornalisti del servizio pubblico lo chiediamo - che si cominci a porre il problema di un'informazione più autonoma anche nei confronti dei soggetti economici e finanziari. In questo senso il fatto che la RAI possa fare una rete senza pubblicità può essere elemento di ulteriore stimolo ed innovazione dell'offerta. Questa mi pare una cosa che, per definizione, il privato non possa fare.

E' stato chiesto quali siano le arretratezze circa i meccanismi di innovazione e la riforma delle sedi regionali. Provo a rispondere con parole diverse da quelle usate prima, quando ho detto che la sede regionale è rimasta quella del 1988. La sede regionale è ancora pensata come sede di rappresentanza; sta chiusa nelle sue stanze nel capoluogo di regione e non si muove sul territorio per stabilire rapporti che potrebbero portare anche risorse. Il direttore di sede è, al momento, ancora un ambasciatore, il prefetto della RAI.

Noi immaginiamo una riforma nella quale le sedi regionali abbiano personale che, sul territorio, stabilisce raccordi e può anche reperire risorse. Ne ha parlato il senatore Semenzato, a proposito delle vendite di servizi, ma la vendita all'esterno è una cosa che la RAI finora non ha mai fatto. Rispetto al bilancio della BBC, per esempio, la RAI ha un introito quasi pari a zero per la vendita di servizi. Allora, è vero o no che in tutte le sedi regionali, da nord a sud, l'archivio immagini della RAI è la memoria audiovisiva di una regione? Questo non è un capitale che può essere fatto fruttare? Non può essere una forma di finanziamento - in alcune regioni ci si comincia a muovere in questa direzione - stabilire raccordi con le istituzioni regionali per rendere accessibile questo tipo di patrimonio?

Come riaprire la discussione su CINSEDO? Il contratto, come ci è stato detto nel 1996 all'epoca dell'apra opposizione, nonostante le modifiche che siamo riusciti ad introdurre, è quinquennale. Non ci intendiamo di questioni legali e non sappiamo quali siano i margini per disdettare il contratto, però ci interessa porre - l'abbiamo posta ai vertici RAI, ai consigli regionali e alle giunte - l'esigenza che il rapporto nuovo si costruisca su basi diverse. Non sappiamo se modificare il CINSEDO richieda l'intervento di avvocati, ma quello che ci interessa maggiormente è il segnale politico nel senso di rendere più stretto e al tempo stesso più autonomo il rapporto della RAI con le istituzioni.

Circa l'esigenza di comprendere meglio quello che accade nelle istituzioni - un tema del quale abbiamo parlato spesso e talvolta polemizzato con il presidente della Commissione - dovremmo provare ad arricchire i criteri con cui si guarda al prodotto fornito dalla RAI. Qui però, se permettete, torniamo a dire rispettosamente che alla politica chiediamo di fare un salto di qualità, perché il meccanismo di analisi, pur importante, dei minuti e dei secondi in video...

EMIDDIO NOVI. In passato sono stato giornalista, quindi sono in grado di fare queste valutazioni. Parlavo d'altro, non dei minuti riservati all'opposizione o alla maggioranza; parlavo di senso comune, di un intero notiziario. Se questo senso comune è portatore di una cultura egemonica che esercita il dominio e nemmeno il consenso (una forma di gramscismo dispotico) è un'altra cosa.

PRESIDENTE. Magari sui minuti qualcun'altro è attento, come il sottoscritto, per cui il problema non va sottovalutato.

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Questa attenzione è positiva, però da tempo stiamo chiedendo - ma ancora non abbiamo avuto una risposta - se essa possa essere integrata anche da altri indicatori più qualitativi.

Non conosco la situazione specifica della Campania, senatore Novi, però lei ha accennato al tema del lavoro. Interessa alla Commissione sapere come i temi dell'economia, del lavoro, della disoccupazione vengono trattati dalla RAI a livello nazionale e regionale?

PRESIDENTE. Le posso citare un esempio. Per un anno abbiamo avuto l'informazione che ogni giorno calava l'inflazione. La notizia era vera ed eravamo tutti contenti. Non ho mai visto telecamere - e non c'entrano maggioranza ed opposizione - che facessero inchieste tra i commercianti per capire se al calo dell'inflazione corrispondesse un aumento dei consumi. Questa è una forma di propaganda! Non so se sia gramscismo dispotico, ma è comunque una forma di propaganda!

EMIDDIO NOVI. A Napoli 350 mila famiglie sono arretrate alle condizioni di povertà!

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Non entro nel giudizio sull'offerta dei giornali, però interessa alla Vigilanza? Noi stiamo ponendo questo tema da tempo al vertice RAI e anche alla Vigilanza: interessa arricchire la griglia dell'analisi sull'offerta del servizio pubblico e, in particolare, sull'informazione? Badate bene: qui non ci sono dei giornalisti che dicono di volere meno controlli. In maniera paradossale stiamo dicendo il contrario: vogliamo più controlli, ma vogliamo che sia arricchita la griglia delle analisi. Non riteniamo che questo paese abbia solo il problema, pur fondamentale, di un corretto rispetto del pluralismo politico e partitico, tant'è vero che stiamo da tempo battendo, anche in sede pubblica, sul vostro lavoro. Ci permettiamo di richiamarvi all'importanza del vostro lavoro, perché riteniamo la risoluzione sui pluralismi fatta all'unanimità da questa Commissione - lo abbiamo detto al precedente vertice RAI e lo stiamo ripetendo all'attuale - un'eccellente base di partenza, nella quale però deve credere anche questa Commissione, arricchendo la griglia delle analisi. Altrimenti, alla fine, l'unica cosa sulla quale si riesce e si ha voglia di polemizzare sono i dati dell'osservatorio di Pavia (mi pare che le agenzie di stampa, da questo punto di vista, facciano testo).

Il senatore Semenzato ha chiesto un giudizio di congruità sui conti. Non abbiamo titolo per esprimerlo in maniera piena, ma le previsioni di contrazione delle risorse RAI ci sembrano fondate, anche se andrebbe meglio sviluppato il tema degli introiti possibili. Lei, senatore, diceva che si tratta di un conto tutto in negativo, come se la RAI non potesse anche prendere risorse nuove. Ho provato ad accennare poco fa ai terreni sui quali muoversi, però, nello schema fondamentale, ci sembrano conti fondati, che si iscrivono - per questo il riferimento al canone - all'interno di un clima pesantemente negativo nei confronti del servizio pubblico, in cui anche il fatto che il canone è il più basso d'Europa viene considerato come elemento inessenziale. Si punta molto l'attenzione sull'incremento di 5 o 6 mila lire, dimenticando di sottolineare i livelli assoluti di tutti gli altri paesi europei.

Circa la pay-TV e la piattaforma digitale e il fatto che sia un investimento a perdere o un'occasione di profitti, le verifiche che, come sindacato dei giornalisti, abbiamo fatto attraverso analisti del settore, hanno evidenziato che il rientro è molto in là negli anni (8-10). Ricordiamo però al riguardo che i pronunciamenti del Parlamento europeo sottolineano, nel lavoro che è stato fatto in sede europea di definizione dei fondamenti del servizio pubblico (cos'é che definisce un servizio pubblico, una volta che è tramontata la definizione autoreferenziale e ormai retorica di centralità che, se non specificata, rischia di essere veramente vuota), si parla di traino dell'innovazione tecnologica.

Ci hanno spiegato che o la RAI in questo settore può starci - e magari può funzionare anche da apripista per soggetti dell'editoria e dell'emittenza meno potenti - oppure finiremo completamente fuori mercato. Questa è la posizione che abbiamo a proposito della presenza della RAI nel digitale.

E' stato chiesto se l'attuazione delle divisioni abbia aree salariali diversificate. Uno dei motivi per i quali vediamo con favore nelle linee generali il processo di divisionalizzazione è anche dato dalla salvaguardia dell'unitarietà; da questo punto di vista, probabilmente, una holding con società diverse avrebbe provocato una frammentazione che al momento non c'è e che, come sindacato dei giornalisti RAI, assolutamente vogliamo scongiurare, cioè la divisionalizzazione è compatibile con il mantenimento dell'unicità del contratto giornalistico.

Peraltro, colgo l'occasione per affermare, anche sulla scia di discussioni animate che capitò di fare nell'agosto del 1997 con il presidente Storace, che il livello di trasparenza della busta paga dei giornalisti RAI è il più alto all'interno dell'editoria e dell'emittenza italiane: tutte le voci sono chiarissimamente indicate.

PRESIDENTE. Lei la chiama la polemica, perché a noi comunque non ce li danno...

ROBERTO NATALE, Segretario dell'USIGRAI. Io svolgo la funzione del sindacato. Ricordo che l'anno scorso il sottoscritto realizzò articoli con il numero di milioni del suo modello 101. Comunque, se interessa a questa Commissione di vigilanza, le voci della busta paga verranno illustrate nel dettaglio. Non facciamo funzione di supplenza ma rispondiamo alle domande che a noi come sindacato dei giornalisti vengono poste.

La vendita di servizi alle altre reti è un meccanismo ancora tutto da costruire, nel senso che la RAI indica l'esigenza di rendere più chiaro il flusso tra i diversi comparti, anche in omaggio alle richieste che vengono dall'Europa di chiarire meglio contabilmente gli spostamenti delle risorse da pubblicità e delle risorse da canone all'interno della RAI. Questo è il contesto generale all'interno del quale l'azienda motiva l'esigenza di stabilire analisi dei flussi. Vorrei però essere chiaro sul punto che già prima mi è capitato di toccare: non può comunque trattarsi, per quanto ci riguarda, di un prezzo che abbia altra valenza che quella simbolica di capire come avvengono gli spostamenti. Non può esserci conteggio che metta davvero in questione tutte le voci perché, come accennavo prima, il riferimento con l'emittenza privata locale sarebbe per ovvi motivi negativo.

Tra l'altro lei diceva che se la nuova RAITRE vende dei servizi a TG1 e TG2, vi staranno delle risorse in più. Per completezza di ragionamento mi viene da pensare che però la somma complessiva della RAI sarà zero, perché TG1 e TG2 pagherebbero quello che finora non hanno pagato; quindi è vero che nuova RAITRE acquisirebbe quello che finora non ha acquisito, ma TG1 e TG2 pagherebbero quello che finora non hanno pagato.

L'ultima questione, e concludo, è quella del testo unico. E' un tema sul quale stiamo da tempo incalzando l'azienda, perché ci pare assolutamente positivo il fatto che le norme prodotte in questi anni trovino sistemazione organica. Mi onoro di ricordare che a questi testi contribuisce anche la carta dei diritti e dei doveri del giornalista del servizio pubblico radiotelevisivo dell'agosto 1990: è il primo documento europeo in ordine cronologico, a testimonianza di una sensibilità deontologica dei giornalisti del servizio pubblico. Il problema che stiamo ponendo all'azienda, e sul quale credo che avremo confronti già nelle prossime settimane, è quali siano le iniziative specifiche dei giornalisti RAI.

Noi poniamo un tema in più, e lo poniamo in radicale rottura con una logica corporativa per la quale, secondo la rappresentazione classica, i giornalisti rifuggono rispetto all'applicazione delle regole: poniamo il problema di cosa succede quando le regole vengono violate. Abbiamo posto, già nella discussione del contratto integrativo dell'anno scorso, l'esigenza di una figura, di un soggetto monocratico o collegiale al quale i cittadini possano rivolgersi quando ritengono di essere stati lesi in qualche loro diritto. In sostanza, un garante, un organo collegiale di garanzia degli utenti. E' un modo per dare attuazione all'ispirazione che muoveva la vostra risoluzione sui pluralismi; stiamo sollecitando l'azienda a pensare ad una figura di questo tipo che possa dare visibilmente all'esterno, ai cittadini che pagano il canone, il segno che la RAI è servizio pubblico anche come l'organismo più alto di garanzia dei diritti nel settore della comunicazione. A breve, credo subito dopo l'estate, adotteremo un'iniziativa specifica su questo tema per sottolineare questa nostra esigenza che servirà a far conoscere all'esterno che in RAI questi diritti non vengono solo proclamati, ma vengono anche ripristinati.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Natale ed i dirigenti dell'USIGRAI.

Audizione dei rappresentanti del SINGRAI.

PRESIDENTE. Saluto la delegazione del SINGRAI: la dottoressa Paola Angelici ed il dottor Stefano Camozzini, tra l'altro di recente nomina, ai quali penso di poter fare gli auguri di buon lavoro a nome della Commissione.

Stiamo procedendo a lunghe e continue audizioni sulla questione legata alla terza rete senza pubblicità ed all'attuazione di quella norma del contratto di servizio che prevede la divisionalizzazione dell'azienda. Do subito la parola alla dottoressa Angelici se intende rendere dichiarazioni introduttive prima di eventuali domande.

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. A nome di tutti i colleghi iscritti al SINGRAI ringrazio per l'attesissimo e graditissimo invito. Svolgerò alcune brevi osservazioni ed alcune domande che, anche se può sembrare irrituale, vorremmo noi porre alla Commissione.

Sullo spirito generale del piano, sulla cui gestazione non ci soffermiamo anche se può essere definita per lo meno estrosa, vogliamo sottolineare una questione di fondo. Per spiegare la RAI di servizio pubblico nelle linee guida viene detto che essa è specchio della società e la differenza tra servizio pubblico e televisione commerciale viene spiegata con il fatto che al centro dell'attenzione della RAI deve essere posta la persona e non il consumatore.

Questo pone un primo problema di interpretazione linguistica: essendo noi giornalisti dedicati all'informazione, riteniamo di rivolgerci sempre alle persone e non ai consumatori. Abbiamo una carta dei diritti e dei doveri che appartiene a tutti i giornalisti (almeno in teoria) che ci obbliga a fare una netta separazione tra informazione e pubblicità definendo un confine invalicabile per tutti. Il discorso della persona al centro dell'informazione come fatto ideologico quindi ci sorprende e ci sembra offensivo nei confronti dei giornalisti delle televisioni commerciali, perché riteniamo che anche loro non debbano rivolgersi ai consumatori ma alle persone.

Per quanto riguarda il discorso della divisionalizzazione, quello che ci inquieta di più è il fatto che, al di là della schematica definizione delle cinque divisioni, non viene chiarito il rapporto tra di esse. Quello che ci sta a cuore, cioè l'unitarietà dell'azienda ed il fine a cui essa deve rispondere, non viene specificato in termini chiari proprio perché le relazioni tra le divisioni non sono chiare. Poi il collega Camozzini, che lavora nella sede di Milano, potrà specificare meglio questi problemi, io faccio l'esempio concreto.

Attualmente le testate nazionali chiedono ai colleghi delle sedi regionali di fare dei servizi per inserirli nell'edizione dei telegiornali; da quello che si intuisce del piano in futuro questo tipo di rapporto sarà da cliente interno. Conoscendo la RAI e le sue strutture spesso molto burocratizzate, riteniamo che questi aspetti vadano chiariti perché temiamo possano essere l'anticamere di un ulteriore ricorso agli appalti ed ai service.

PRESIDENTE. Qual è la differenza rispetto ad oggi?

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. Se il TG2 vuole un servizio da Milano, chiama il collega che in quel momento opera a Milano e glielo chiede; in prospettiva questo servizio dovrà essere pagato, quindi il TG2 dovrà mettere nel suo budget i costi perché appartiene ad una divisione diversa.

PRESIDENTE. Quindi qualcuno deve autorizzare la richiesta?

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. Probabilmente dovrà esserci un filtro - dico probabilmente perché nessuno me lo ha spiegato - ma per la conoscenza che ho della struttura della RAI, è molto probabile che, a quel punto, il direttore di qualsiasi testata nazionale telefoni direttamente al service di Milano che a quel punto abbasserà i suoi costi per renderli concorrenziali e invierà il servizio magari solo con le immagini grezze senza il servizio giornalistico. Questo, oltre che svilire il tipo di lavoro dei giornalisti delle sedi, pone anche un problema in termini di risorse, perché si tratta della contabilità interna di ogni singola divisione. Se si suppone che da questo lavoro le sedi regionali dovranno acquisire risorse, perché dovranno essere pagate dal budget delle altre divisioni, nell'ipotesi non peregrina secondo cui si salti il passaggio della richiesta alle sedi e si vada direttamente alla TV locale o al service che opera in quella zona, un'altra risorsa viene tolta alla nuova RAITRE. D'altro canto il direttore della testata ha l'autonomia per dire che preferisce ricorrere a qualcun altro. Questo è un dettaglio, ma non di poco conto, perché la questione degli appalti - che ancora non è trasparente e sulla quale ancora non possediamo di dati reali - è in progressiva crescita, in particolare per quanto riguarda le troupe, ma in prospettiva anche per un servizio "chiavi in mano", che comprende cioè il lavoro giornalistico e non solo quello dell'operatore di ripresa.

Sulla nuova RAITRE, se leggiamo sinteticamente il piano, a parte le questioni sindacali (è partito un programma e non ci hanno informato: il direttore ha presentato Sveglia TV, che è partito lunedì, in conferenza stampa, senza l'informazione preventiva prevista dal contratto), in realtà il problema è altro, perché le risorse su cui dovrebbe vivere e marciare la nuova RAITRE sono il canone, le convenzioni e le sponsorizzazioni. Il canone, anche se non in maniera massiccia, è diminuito.

PRESIDENTE. Gli abbonamenti e non il canone!

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. Sì, gli abbonamenti, che sono una parte consistente della risorsa. Il consiglio di amministrazione e il direttore generale non hanno detto cosa intendano fare affinché questo non si verifichi nell'avvenire e la RAI venga sentita come un servizio per tutti i cittadini e non per una parte.

Le convenzioni: con chi? Non ci viene spiegato e non viene fatta neanche menzione della convenzione operante con le regioni - il CINSEDO - neppure per dire che non va bene o che va modificata. Un piano che parla di convenzione con gli enti pubblici e non dice che quella che esiste non va bene o è bellissima o deve essere rivista a noi ci appare sospetto.

Il capitolo delle sponsorizzazioni mi pare molto delicato, perché ci dicono che dobbiamo fare una rete senza pubblicità e poi inseriscono le sponsorizzazioni. Personalmente ho grosse difficoltà a capire la differenza tra sponsorizzazione e pubblicità dal punto di vista della qualità del lavoro giornalistico che devo fare. Ritengo che, se mi trovo all'interno di un programma giornalistico sponsorizzato da una certa ditta, mi sarà difficile parlarne male.

Un altro elemento che vogliamo porre alla vostra attenzione e che in azienda è stato molto poco sollevato è il fatto che l'azienda ha chiesto ad una società di consulenza di fare dei controlli di produttività. Non siamo assolutamente contrari ai controlli di produttività, anzi riteniamo che nel momento in cui la RAI deve ristrutturarsi e ammodernarsi sia giusto parlare di produttività e che lo stesso sindacato non possa sottrarsi a questo tipo di problema. Però il controllo di produttività in un'azienda che produce una merce così speciale come la notizia ha bisogno di alcuni criteri che non possono essere gli stessi applicati all'azienda che produce scarpe o macchinette elettroniche. Questi criteri non sono stati spiegati; la società di consulenza già opera in azienda e, nel buio più totale, opera i suoi controlli. Peraltro, per il nostro contratto giornalistico, è difficile addirittura controllare il nostro orario, visto che non siamo sottomessi al timbro del cartellino, perché il nostro lavoro richiede una certa elasticità. Ci sembra che l'azienda dovrebbe specificare criteri e metodi, proprio perché non sia delegato ad una società di consulenza esterna un rapporto che può essere utilizzato a fini di emarginazione che non hanno niente a che vedere con la produttività - come spesso purtroppo in RAI è accaduto - e neanche con la qualità del lavoro.

Penso che voi già da tempo abbiate letto attentamente il piano, però abbiamo voluto sottolinearne alcuni aspetti importanti.

Un discorso di carattere generale, che vorrei sviluppasse meglio il collega Camozzini, è quello sulla privatizzazione della RAI perché, all'interno del piano, non se ne fa cenno. Il consiglio di amministrazione ha correttamente detto che non ha la delega a predisporre una strumentazione per la privatizzazione, però, leggendo anche con buonsenso quello che accade ci sembra che dentro il piano di divisionalizzazione ci sia già un comparto, una divisione quantomeno destinata ad accogliere capitali privati (dovrebbe essere quella di RAIUNO e RAIDUE). Ci piacerebbe capire con quali meccanismi, attraverso quali criteri e con quale trasparenza.

Per noi la parola "privatizzazione" non è un tabù - non dimentichiamo che c'è stato anche un referendum con il quale si è espressa sul tema anche la volontà popolare - però non siamo disponibili alla svendita, magari a forze che già stanno in campo da tempo senza specificare in che termini e che cosa si voglia fare dell'azienda. La considereremmo un'operazione di basso profilo.

La Commissione di vigilanza ha approvato più di un anno fa un bellissimo documento sul pluralismo in RAI che, a nostro parere, in parte è rimasto lettera morta. Infatti, non riteniamo che la RAI raccolga in pieno tutte le istanze sociali e che sempre sia in grado di dare informazione completa e di rappresentare l'intero arco di istanze sociali, politiche, culturali, religiose. Per di più - scusate se vado fuori tema, ma questo è un aspetto che ci preme - la RAI non solo non riesce ad esprimere appieno il pluralismo che vive nella società, ma soffoca o tenta di soffocare anche al suo interno le voci che non sono omologate o omologabili nel panorama sindacale aziendale. Infatti, noi abbiamo avuto per quattro anni la piena agibilità sindacale, con tanto di trattenuta in busta paga, saletta sindacale e comunicati letti nei telegiornali e nei giornali radio, ma poco più di un mese fa l'azienda ci ha inviato una lettera dicendo che non avrebbe più operato le trattenute in busta paga perché noi, non essendo un sindacato riconosciuto e firmatario di contratto, non abbiamo più diritto di esistere dentro la RAI. Naturalmente noi ci siamo mobilitati e continueremo ad esistere indipendentemente da questo, però ci sembrava giusto che la Commissione di vigilanza fosse al corrente di questa iniziativa della RAI.

MARIO BORGHEZIO. Desideravo conoscere in maniera un po' più approfondita la vostra valutazione - vista anche la presenza di un esponente del centro di Milano - sulle nuove prospettive di riforma in ordine alla situazione dei centri di produzione decentrati e in generale alla necessità od opportunità da parte della RAI di utilizzare appieno la forza, l'esperienza, la tradizione professionale e tecnica dei centri di produzione. Vorrei anche conoscere il ruolo che, in questa prospettiva, individuate nella riforma, cioè se essa riprodurrà - Dio non voglia - la realtà che abbiamo visto attuarsi negli ultimi anni, quella cioè del progressivo smantellamento e della mortificazione o se, invece, si possa pensare e operare affinché questo percorso venga corretto per arrivare finalmente ad una RAI policentrica, moderna, funzionale, nella quale i centri di produzione siano considerati non delle lontane province dell'impero centralizzato ma un arcipelago di forze, ciascuno con la propria storia e la propria dignità.

EMIDDIO NOVI. Penso che quanto è stato detto poco fa e che ha suscitato non poche polemiche trovi una conferma in quanto abbiamo ascoltato ora e cioè che il pluralismo in RAI in realtà non esiste, il nostro documento sul pluralismo è lettera morta, la RAI non garantisce il pluralismo sociale e delle identità culturali del paese. Si tratta quindi di un servizio pubblico che viene meno alla sua funzione fondamentale.

Abbiamo anche appreso che la RAI tenta di soffocare un sindacato che non risponde a certe logiche egemoniche. Signor presidente, la invito ad approfondire questo discorso.

Nel momento in cui il vertice RAI afferma che SINGRAI non ha più diritto di esistere in RAI, manifesta una mentalità a dir poco antidemocratica, anzi golpista, che merita di essere conosciuta dall'opinione pubblica. Ritengo che la presidenza della Commissione di vigilanza debba aprire una vertenza politica, e non solo politica, con i vertici della RAI. Vi è infatti il rischio che dal dire che un sindacato non ha diritto di esistere in RAI, si passi poi ai reparti-confino all'interno dell'azienda, cioè ad una progressiva emarginazione di quelle presenze che possono creare problemi e che sono antagoniste.

Per quanto riguarda il SINGRAI, il discorso dimostra un antagonismo che non è politico ma è soprattutto culturale e di approccio con la RAI che andiamo a costruire. Il processo di divisionalizzazione affrontato come lo è stato ora, emerge in tutta la sua pericolosità, perché è un processo analogo a quello che si è verificato nel mondo della carta stampata, a partire da alcuni anni a questa parte. Che cosa è avvenuto? Sul finire degli anni ottanta, le aziende hanno utilizzato i service per le forniture delle pagine di pubblicità o tipografiche. In realtà questo processo in RAI è già in atto, nel senso che si utilizza il service per le troupe (non ancora quello per i giornalisti). Successivamente siamo passati, per quanto riguarda tutti i supplementi e molta parte dell'informazione (basti pensare alle edizioni locali dei grandi giornali), ai service di giornalisti, spesso sottopagati, non garantiti da alcun rapporto contrattuale. Questo tipo di gestione dell'informazione ha marginalizzato completamente quelle iniziative editoriali che potevano sorgere spontaneamente sul territorio.

Ecco quindi perché, secondo me, l'approccio con la cosiddetta divisionalizzazione va affrontato con lucidità. Nel momento in cui si stabilisce un budget è chiaro che prima o poi si dovrà tendere a delle economie interne ed è logico che, se un servizio giornalistico commissionato alla RAI di Milano viene a costare 300 mila lire, prima o poi ci si rivolgerà ad un service privato, il quale non avendo i costi di produzione della RAI, fornirà questo servizio a 100 mila lire.

Ma c'è di più. Il service privato sarà legato ad un rapporto di totale subalternità politica e quindi non avrà nessuna autonomia professionale nei confronti della RAI. Quindi andiamo incontro ad una forma di surrettizia privatizzazione dell'informazione RAI, che sarà subalterna all'apparato burocratico interno che in quel momento controllerà la RAI (sappiamo infatti che le committenze spesso sono gestite da apparati burocratici interni). Quindi, qualora ci fosse in questo paese una nuova maggioranza politica che, com'è ovvio non potrebbe sovvertire e rivedere tutto l'apparato burocratico interno, noi avremo una persistenza, per quanto riguarda la fornitura dei servizi giornalistici, gestita dall'apparato della divisionalizzazione .Ecco allora i dati che emergono da questa audizione.

Emerge inoltre, quanto mai pericoloso, il problema delle risorse provenienti dalla sponsorizzazione. La sponsorizzazione è una forma di condizionamento molto più insidiosa della pubblicità, perché la pubblicità è complessiva e plurima mentre la sponsorizzazione è singola e di conseguenza anche ricattatoria nei confronti del giornalista che fornisce il prodotto informazione.

Secondo me, presidente, la situazione, per come si va delineando e per come la stiamo apprendendo in questa fase dell'audizione, è di una tale gravità che impone alla Commissione di vigilanza RAI di ritornare su questo argomento e di chiedere all'azienda garanzie su questo tipo di privatizzazione da nocciolo duro gestito dal Ministero del tesoro, perché questo in realtà si va creando e si va realizzando ora in RAI ed è giusto che anche il Parlamento venga a conoscenza dei rischi che corre l'informazione RAI in questo momento.

Ecco perché, nel ringraziare i rappresentanti del SINGRAI, chiedo alla presidenza della Commissione di avviare non solo una serie di audizione suppletive e aggiuntive, ma anche un serio confronto tendente ad ottenere delle garanzie precise dalla RAI, perché questo tipo di divisionalizzazione nasconde progetti e tentativi egemonici molto più insidiosi di quelli tradizionali: quelli tradizionali sono individuabili e riconoscibili, questi invece possono essere decodificati soltanto quando si è all'interno del sistema dell'informazione mediatica, altrimenti non si colgono anzi vengono interpretati in maniera opposta.

Quindi questo è un processo profondamente mistificatorio, rischiosissimo per il paese, per il pluralismo culturale, non politico, perché soltanto chi è rozzo culturalmente ed è legato ai residui di una cultura stalinista, postcomunista e terzinternazionalista può ritenere che questo tipo di argomentazioni tendano a misurare in tempo o in tempi (e da qui deriva anche l'insidiosità dell'Osservatorio di Pavia) il pluralismo all'interno della RAI.

Ecco perché, signor presidente, io ritengo che vada chiarito che cosa è questo atteggiamento del vertice RAI sul fatto che SINGRAI non deve esistere nell'azienda. Inoltre va chiarito con grande serietà e rigore direi quasi con rigore inquirente, che cos'è questa divisionalizzazione, perché secondo me nasconde altri fini e altre strategie.

STEFANO SEMENZATO. Mi pare che più volte nel dibattito degli ultimi mesi si sia affacciata l'ipotesi, da parte in particolar modo degli esponenti di Mediaset - penso sia a Costanzo che a Mentana - della tesi che in realtà si poteva fare un servizio pubblico utilizzando il mercato sulle due sponde: quello della libera ricerca di service, perché questo dava, come nel caso del treno di Firenze, maggiore capacità di penetrazione nel territorio, sia dal punto di vista della provenienza editoriale, perché la pubblicità serve come elemento di motore.

Mi pare che invece SINGRAI sostenga un'altra tesi- che io condivido - e cioè che il servizio pubblico, tanto è più servizio pubblico quanto più i giornalisti delle reti sono liberi di operare nella loro dimensione editoriale e tanto meno si difende dalla pubblicità. Ora questo è importante perché porta a dire che noi nella dimensione di salvaguardia del servizio pubblico dobbiamo caso mai privilegiare forme di aumento di risorse pubbliche per la RAI, perché non vi sono altre soluzioni da questo punto di vista. Voglio allora chiedere se SINGRAI sia conseguentemente d'accordo su ipotesi di aumento del canone o altre entrate di questo tipo.

La seconda questione riguarda direttamente i giornalisti. Essendo evidente che vi è la necessità di una maggior copertura del servizio informativo RAI sul territorio, nasce un problema che riguarda in particolar modo le sedi regionali, nelle quali sfugge tuttora se vi sia sufficienza di organico e carenza di organizzazione, insufficienza di organico, o una commistione tra le due cose. Siccome noi vogliamo raggiungere un alto livello di copertura del servizio pubblico su tutto il territorio dobbiamo sciogliere il nodo delle sedi regionali.

Il SINGRAI ritiene che, da questo punto di vista, la nuova RAITRE debba potenziare gli organici regionali per poter far fronte alle nuove esigenze informative oppure che vi sia da risolvere un problema di organizzazione? Infatti, pare acquisito che si rifiuti l'idea di rivolgersi a service esterni.

PAOLO RAFFAELLI. Il primo punto è di forma ma anche di sostanza. Il SINGRAI è oggi ascoltato dalla Commissione di vigilanza, ma non è riconosciuto come interlocutore formale dalla RAI. Io credo che sarebbe opportuno avere più elementi di conoscenza sulle ragioni per cui si realizza questa discrasia, evidentemente attinenti alle normative vigenti sulla rappresentanza,in modo tale da ricondurre il problema alla sua effettiva dimensione di regole, per vedere laddove le regole debbano essere modificate, se è una questione di inadeguatezza della normativa esistente, e se si può rimediare con la nuova normativa sulla rappresentanza in corso di elaborazione da parte del Parlamento. Su questo, per evitare che si costruiscano fantasmi ma anche si trascurino problemi reali, credo che un elemento di approfondimento e di conoscenza sia utile.

Porrò alcune domande cercando di essere estremamente sintetico. In una precedente audizione si è detto, da parte di un altro sindacato, che la legge n. 249 sull'unitarietà del servizio pubblico viene considerata una sorta di caposaldo, al pari della necessità che la RAI mantenga le tre reti. Vorrei capire dai dirigenti del SINGRAI se anch'essi ritengano questi elementi discriminanti, in qualche modo spartiacque, oppure se sull'unità della RAI e sul mantenimento delle tre reti il vostro sindacato ritenga aperto il discorso. Credo che il confronto sulla divisionalizzazione abbia in qualche modo due colonne di Ercole, per essere valutato al di fuori di schemi, come dire, un po' di comodo e un po' di demagogia. Da una parte l'esigenza assunta di una maggiore flessibilità e di una maggiore modernità del sistema (questa è una delle motivazioni), dall'altra il modo in cui questo concretamente si realizza.

Su questo io chiederei un approfondimento in modo particolare dal punto di vista, già largamente trattato nelle audizioni anche quest'oggi, del funzionamento delle sedi regionali. Questo non perché ci sia una maggiore sensibilità dei parlamentari che hanno un occhio al collegio sul funzionamento degli strumenti informativi dei loro territori, ma perché credo che sia diffusa la convinzione che la marcia in più, lo strumento operativo che qualifica la RAI rispetto alla concorrenza, sia proprio questa ramificazione sul territorio nazionale sicuramente non ripetibile nel breve periodo e, io credo, non sostituibile nemmeno dalla più estesa rete sinergica di appalti che si possa ipotizzare. Qualcuno dice che è in declino una cultura del funzionamento delle sedi regionali, che a mio parere rappresenta un pezzo fondamentale del patrimonio della RAI, senza la quale non sarebbe neppure spiegabile la quantità di giornalisti dipendenti, motivabile solo nella misura in cui c'è questa esigenza di estesa copertura del territorio.

Di qui sorgono due problemi. Colgo ( una volta tanto siamo in sintonia: succedono le cose più strane in questa Commissione) un elemento di preoccupazione circa il fatto che è necessario assolutamente evitare che nel sistema radiotelevisivo (inteso nel suo complesso non solo come servizio pubblico ma come insieme di sistema pubblico e articolazioni private) si ripeta il meccanismo che nel settore della carta stampata ha dato origine ai giornali fotocopia. In quel settore l'uso selvaggio delle sinergie ha prodotto una caduta verticale della qualità dell'informazione e di fatto ha provocato anche una caduta verticale, in qualche modo, del pluralismo dell'informazione, dando l'impressione di un moltiplicarsi delle voci mentre invece si moltiplicavano soltanto le confezioni e le voci, come quantità, si riducevano. Questo è stato uno dei grandi problemi della trasformazione dell'informazione scritta nel nostro paese nell'arco degli anni ottanta ed è un problema tuttora irrisolto.

E' un problema non unico in questo paese, perché l'uso selvaggio delle sinergie nella carta stampata italiana non è altro che la pallida imitazione di sistemi assai più incisivamente e selvaggiamente utilizzati in altre realtà territoriali di questo continente e di altri. Non c'è alcun dubbio che non si può correre il rischio che anche il sistema "multimediale" in qualche modo finisca con il subire lo stesso processo di massificazione.

Tornando ad un tema che avevo toccato già in un intervento precedente, ripeto che il nesso tra dimensione locale della comunicazione e la sua dimensione globale sul terreno dei media elettrici e del satellite diventa un meccanismo strettissimo che porta veramente a mettere in corto circuito direttamente la piazza del villaggio con la CNN e l'universo-mondo. Allora io chiedo al SINGRAI quale sia, a suo avviso, il punto di equilibrio che consente la tutela e la valorizzazione del pluralismo dell'informazione sia sul terreno del servizio reso, cioè del pluralismo delle voci restituite all'audience, sia sul terreno del pluralismo della creazione e della distribuzione dell'informazione, la pluralità delle voci informanti.

In che modo è possibile valorizzare e salvaguardare il sistema dell'informazione territoriale e le sedi regionali, mettendoli in sinergia pulita (per distinguerla da quella selvaggia dei giornali fotocopia) con il sistema dell'informazione globale, della moltiplicazione degli strumenti di comunicazione e con l'accesso alle nuove tecnologie? Dal vostro punto di vista come deve cambiare il funzionamento delle sedi regionali e il sistema di rapporto fra queste e i momenti centrali di ideazione e produzione del prodotto informativo, inteso come unicum, perché questo meccanismo pluralistico e di qualità venga salvaguardato? Quali sono le strozzature? Quali sono i punti di incoerenza? Quali sono i punti di debolezza?

Sia SINGRAI sia USIGRAI hanno convenuto sul fatto che il nostro bellissimo - complimenti, presidente! - documento sul pluralismo resta in buona misura inattuato. Vengo da un'esperienza di giornalista in RAI ed ho vissuto la bella stagione della realizzazione della carta dei diritti e dei doveri del giornalista, altro sacro testo eternamente citato di cui la soddisfazione per l'applicazione non è - uso un eufemismo - né piena né totale. Visto che a noi servono informazioni dall'interno, vorrei sapere quali siano i punti di debolezza principali nell'applicazione del documento sul pluralismo; quali siano i punti di strozzatura o, peggio, di attrito (laddove non vi sono ostacoli, ma la corsa si ferma per forza d'inerzia) sul terreno sia del pluralismo sia di altri strumenti di garanzia, come quelli sui minori; quali siano - se ci sono - le sedi di confronto fra le organizzazioni sindacali, i soggetti sociali presenti nell'azienda e i centri decisionali per la verifica e la contrattazione, laddove necessario, dell'attivazione di questi strumenti di garanzia, di diritto e di dovere.

PRESIDENTE. Anche io vorrei porre alcune questioni, partendo dall'ultima sollevata dal collega Raffaelli e augurandomi - senza volerlo offendere - che la domanda resti agli atti perché ho sentito molto parlare oggi del documento sul pluralismo, la cui attuazione merita una riflessione più approfondita rispetto a quella che possiamo fare tra una domanda e l'altra (cosa che onestamente non ha fatto solo Raffaelli). Probabilmente sarà necessaria una sessione della Commissione dedicata al tema dell'attuazione degli indirizzi, anche alla luce della novità rilevante costituita dalla dichiarazione del segretario dell'USIGRAI, il quale ha affermato la volontà di rompere con certi meccanismi, per cui occorre individuare gli strumenti attraverso i quali chi sbaglia paga, strumenti cioè di responsabilizzazione dell'operatore dell'informazione. Colgo questa notizia importante anche perché in passato abbiamo polemizzato sulla questione, alla quale sicuramente dopo l'estate sarà dedicata una sessione ad hoc.

Condivido in pieno una delle riflessioni del senatore Novi sulla necessità di andare ad un confronto. Tenga presente, senatore, che dovremo rendere all'autorità un parere, che potrebbe contenere una duplicità di elementi: si tratterà cioè di un parere all'autorità per quanto riguarda la terza rete e una forma di indirizzo per quanto riguarda la divisionalizzazione rivolto alla RAI, visto che l'ufficio di presidenza ha unanimemente deciso di procedere ad una discussione congiunta su terza rete e divisionalizzazione. Comunque, le questioni emerse potranno essere esposte domani al direttore generale che sarà audito dalla Commissione proprio come direttore di divisione, insieme con gli altri direttori di divisione. Quindi, già nella seduta di domani questi problemi potranno essere esposti con dovizia di particolari. Tra l'altro ricordo alla Commissione che la RAI non voleva che discutessimo sulla divisionalizzazione. In proposito ci è giunta una lettera alla quale unanimemente l'ufficio di presidenza mi ha dato mandato di rispondere, chiarendo che questa Commissione intende parlare della divisionalizzazione.

Ci sono elementi curiosi, perché nell'ipotesi migliore vi è una corsa agli sconti interna all'azienda che mi riesce difficile immaginare in maniera seria (può darsi che sia una mia carenza sulla conoscenza delle strutture dell'azienda divisionalizzate). Però vedo i pericoli sottolineati prima dalla dottoressa Angelici e poi, con più forza, dal senatore Novi e spero che le preoccupazioni siano fugate. Nel nostro parere potremmo anche chiedere di chiarire ogni dettaglio della divisionalizzazione, che potrebbe anche prevedere vincoli tariffari o qualcosa di simile, ovvero la necessità di rivolgersi comunque alle strutture aziendali, per cui il rischio verrebbe ridotto (Interruzione dell'onorevole Raffaelli).

Io faccio il presidente esprimendo le mie idee e spero che il relatore che ho nominato, il senatore Falomi, che non fa parte dell'opposizione, tenga conto del dibattito e delle posizioni della maggioranza e dell'opposizione. Se il documento sul pluralismo è "bellissimo" è perché il relatore Paissan ha tenuto conto delle opzioni manifestate dalla maggioranza e dall'opposizione.

Su due questioni mi interessa conoscere il parere del SINGRAI.

La RAI introduce il piano parlando di una rete generalista. Abbiamo sentito le preoccupazioni dell'emittenza locale sulla territorializzazione. Mi è capitato di introdurre, nella conferenza tenuta dal mio partito a Verona, la proposta di una TV tematica (ho parlato di minori ma si potrebbe parlare di altre questioni). Ritenete che questa possa essere ancora una strada necessaria? Spero di avere una risposta non pigra come quelle che ho sentito fino a questo momento: "Che ne facciamo delle sedi territoriali?". I giornalisti si possono far lavorare sul territorio anche in altri modi, nel senso che se si decide di fare una rete tematica per i giovani, lavoreranno sui problemi legati a quella fascia di popolazione (ho fatto un esempio senza innamorarmene). E' necessario che anche la rete senza pubblicità sia generalista? Secondo voi questa è una prospettiva che per forza di cose bisogna seguire, oppure ci sono altri percorsi come quelli che l'USIGRAI ha definito "di vuoto sperimentalismo"? Io la penso in maniera un po' diversa.

Circa la questione di carattere più strettamente sindacale, mi fa piacere aver colto un sostanziale convincimento ad approfondirla da parte dei commissari che si sono espressi. Vorrei sapere se il vostro sindacato, su questi piani, si sia confrontato con l'azienda e se l'azienda vi abbia invitato ad un tavolo di discussione sulla questione della terza rete senza pubblicità e della divisionalizzazione. Ciò perché - spero di dirlo con simpatia - non vorrei che ci fossimo sbagliati, in quanto l'ufficio di presidenza con riferimento al calendario ha parlato di USIGRAI e SINGRAI. Ci siamo preoccupati per motivi a me incomprensibili, ma forse comprensibili politicamente, di non far coincidere nella stessa seduta l'audizione dei due sindacati, perché vi sono problemi di conflitto. Però, è certo che dobbiamo approfondire la questione, come diceva il collega Novi (non mi pare che l'onorevole Raffaelli abbia espresso alcun convincimento contrario). Il Parlamento da quattro anni riconosce un interlocutore, cioè il SINGRAI, riconosciuto, se non sbaglio, da Moratti e Siciliano, per il quale sono state fatte le trattenute in busta paga e al quale è stata la titolarità a trattare e a discutere, ma improvvisamente scopriamo che questi signori sono quasi dei fantasmi. Francamente questo è un metodo che non mi piace e sicuramente trasmetterò alla RAI l'estratto della discussione, con la mia valutazione - che spero non insulti la suscettibilità di nessuno - perché se c'è pluralismo sindacale si accetta e basta!

PAOLO RAFFAELLI. Perché l'estratto e non il resoconto?

PRESIDENTE. Se permette, onorevoli Raffaelli, nelle lettere che scrivo so esprimere il mio parere e quello della Commissione. Spero che nessuno si permetta di insegnare come si scrivono le lettere.

PAOLO RAFFAELLI. Il mio era solo un tentativo.

PRESIDENTE. Se permette, onorevole Raffaelli, nelle lettere che scrivo so distinguere il mio parere da quello della Commissione. E' una questione di pluralismo. Per quello che mi riguarda riporterò fedelmente l'opinione dei commissari - per le quali mi aiuterà il resoconto stenografico - e aggiungerò il mio parere che non è giusto infrangere quello che è valso per quattro anni.

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. Comincio dall'ultimo argomento, sul quale vi dobbiamo un chiarimento.

Come diceva il presidente Storace, noi esistiamo da quattro anni e io prima parlavo non per caso di agibilità sindacale e non di riconoscimento sindacale perché sono due cose diverse. Noi tutti, USIGRAI e SINGRAI, aderiamo a un unico sindacato dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana al quale siamo tutti iscritti (io personalmente sono anche dirigente perché sono nel consiglio direttivo dell'associazione territoriale di Roma di questo unico sindacato che raccoglie tutti i giornalisti). Questo unico sindacato, o meglio la sua attuale maggioranza, non ha mai preso in esame la possibilità di rompere il monopolio di rappresentanza sindacale all'interno del sindacato aziendale della RAI. Da lì dipende il fatto che noi non siamo riconosciuti come sindacato: la RAI infatti non ci potrebbe riconoscere perché il firmatario del contratto dei giornalisti è solo la Federazione della stampa, non l'USIGRAI né il SINGRAI. Se la Federazione, o meglio la sua maggioranza, non ci riconosce la RAI non può fare altro che darci l'agibilità sindacale. Oggi siamo 160 (due anni fa eravamo 200 poi abbiamo avuto qualche emorragia e un po' di pensionati), cioè il 10 per cento dei giornalisti della RAI, e quindi sappiamo di essere una minoranza, dal momento che sono 1.600 i giornalisti della RAI. Sappiamo anche che gli altri 1.340 non sono tutti rappresentati dall'USIGRAI, poiché sono iscritti alla Federazione nazionale della stampa: quindi noi ambiamo a rappresentare tutti coloro che in RAI sono giornalisti e non si riconoscono nell'USIGRAI.

Abbiamo avuto in certe fasi dei tavoli separati, come qui (mai tutti insieme perché hanno paura che ci facciamo male: invece siamo civili, non ci facciamo male, però non ci parliamo). Abbiamo comunque un confronto permanente con l'azienda, perché molti di noi sono eletti nei comitati di redazione e quindi nella consulta dei CDR, che ogni tanto viene convocata; ci siamo come minoranza, come rappresentanti di coloro che appunto non si riconoscono nel sindacato maggioritario che ambirebbe a essere unico. A noi non piace che in RAI ci debba essere il sindacato unico, dato che in passato non abbiamo visto dall'USIGRAI rappresentare tutte le istanze che invece ci sembra abbiano diritto all'esistenza.

La RAI, con questa ultima iniziativa, non ci ha tolto il riconoscimento - che non ci ha mai potuto dare perché dipende dalla Federazione della stampa - ci ha tolto l'agibilità, perché le trattenute in busta paga definiscono la possibilità di essere organizzati. Oggi io non sono in permesso sindacale, ma in giornata di riposo, perché a me, a differenza dei colleghi che sono venuti prima, non viene concesso il permesso sindacale; e non approfitto della possibilità di farla passare come incontro con l'associazione romana, perché voglio il permesso sindacale come SINGRAI. Quindi, se non me lo danno, ci vengo nel giorno di riposo.

PRESIDENTE. Lei per venire in Parlamento, ha dovuto prendere una giornata di riposo?

PAOLA ANGELICI, Segretario del SINGRAI. Sì. Allora, noi da una parte apriamo una nostra vertenza con la Federazione della stampa - a cui voi non potete essere interessati - e ad essa chiediamo di riconoscerci come organismo di base esattamente come ha riconosciuto l'USIGRAI, dato che il nuovo statuto della Federazione della stampa prevede questa possibilità. Ma nel mentre pende questa cosa, pretendiamo che la RAI non ci levi l'agibilità sindacale, sennò risolve il problema molto velocemente, cancellandoci prima che la Federazione della stampa ci abbia dato una risposta.

E' evidente che se io, oltre a venire qui nei miei giorni di permesso insieme ai colleghi che sono più attivi, devo anche chiedere le 15 mila lire al mese ai colleghi che vogliono essere iscritti. Al volontariato c'è un limite, anche perché abbiamo superato ampiamente i diciotto anni tutti quanti!

Noi siamo presenti in tutti i luoghi dove c'è confronto con i comitati di redazione, ma in quanto SINGRAI l'azienda non ci convoca per informarci sul nuovo piano; se viene presentato all'organismo di base, che è il comitato di redazione, ci siamo anche noi, ma come SINGRAI non siamo convocati. Abbiamo chiesto più volte di essere ascoltati, di essere convocati semplicemente per poter esprimere le nostre opinioni, non per trattare; è evidente che, se noi chiediamo di esprimere un'opinione e come risposta ci viene detto che non ci verranno più fatte le trattenute in busta paga del contributo sindacale che ogni nostro iscritto vuole dare, una grande volontà di dialogo da parte di questo vertice aziendale non c'è. Comunque, questo è un altro argomento, non credo che sia questo che vi interessa. Volevo fotografare la situazione: rappresentiamo il 10 per cento dei giornalisti della RAI, siamo 160, abbiamo fatto delle battaglie, spesso e volentieri le nostre battaglie servono da pungolo al tavolo delle trattative che l'azienda apre con l'USIGRAI.

Tra quelli che noi riteniamo di poter rappresentare (mentre l'USIGRAI non li rappresenta) ci sono i molti colleghi disoccupati, che sono stati tagliati completamente fuori dall'ultimo contratto integrativo firmato dall'azienda, che ha previsto per le nuove assunzioni della RAI solamente l'assorbimento dalla lista dei precari RAI stilata dall'USIGRAI e dall'azienda e dal primo biennio della scuola di Perugia.

Noi riteniamo altamente scandaloso che, con i livelli di disoccupazione giornalistica raggiunti in Italia, e in particolare a Roma, si sia stilata una lista preferenziale dei precari RAI della scuola di Perugia senza prevedere la possibilità di assorbire anche i colleghi disoccupati che non abbiano mai lavorato in RAI (attualmente i disoccupati in RAI possono essere inseriti solo all'interno delle sostituzioni estive per le ferie). Io sono stata nel comitato di redazione del TG2 per molti anni e vagliavo i curriculum dei disoccupati: non ho mai chiesto loro che colorazione politica avessero: erano disoccupati e disoccupati rimanevano.

Io personalmente sono stata assunta alla RAI quando ero disoccupata, perché nel contratto integrativo precedente era stabilito che si dovesse assorbire una quota di disoccupati. Se non fossi stata una disoccupata "da assorbire", siccome non avevo fatto precariato in RAI, ma venivo da un giornale estero, non sarei mai stata assunta in RAI; per questo tengo particolarmente che ai disoccupati venga offerta una possibilità. Scusate la lunga parentesi, ma questi sono i discorsi che a noi sindacalisti stanno più a cuore.

Noinon riteniamo che un sindacato debba fare un piano di ristrutturazione dell'azienda; non abbiamo la pretesa, come spesso ha avuto l'USIGRAI, di suggerire all'azienda quali siano le cose migliori da fare; non lo riteniamo opportuno neanche nel caso di un sindacato dei giornalisti, non perché non si abbia una visione generale di dove ci dobbiamo collocare, ma perché, come è avvenuto nel caso della radiofonia, quando il sindacato è implicato in maniera pesante nella gestione della ristrutturazione, poi è difficile andare a svelare le magagne che dentro quel tipo di piano sono inevitabilmente venute fuori, per esempio una certa omologazione dell'informazione. Noi riteniamo che un sindacato, anche dei giornalisti, debba portare le istanze della professione, cercare di garantire l'autonomia della professione, i livelli occupazionali, la necessità di pluralismo, ma non debba suggerire all'azienda come è meglio fare per quanto riguarda le divisioni.

A proposito del piano dell'azienda, vediamo cosa succede nel momento in cui esso viene applicato. Non dico che, secondo me, sia meglio la holding, o la divisione: non sono d'accordo che un sindacato lo faccia. Fuori dalla mia veste di sindacalista posso avere le mie opinioni. La RAI, proprio perché è un'azienda di servizio pubblico e di interesse nazionale, secondo me, deve dipendere dal Parlamento; le leggi devono decidere l'indirizzo e il tipo di strutturazione. Vi è ancora una legge di nomina del consiglio di amministrazione che doveva essere una tantum, ma che ha prodotto quattro nomine. Questo è un problema che rimandiamo ai politici, perché non ci appartiene. Se oggi ancora siamo in una situazione provvisoria è anche grazie a questo. Perché noi, come sindacato dei giornalisti, dobbiamo fare la supplenza? Ciò corrisponde alla visione partitica del sindacato che ha l'USIGRAI, mentre noi non vogliamo essere l'altro specchio, l'alternativa all'USIGRAI, nel senso di rappresentare l'altra parte politica. No, noi non vogliamo fare un'operazione di partito; vogliamo essere il sindacato dei giornalisti perché crediamo nell'autonomia della professione e quindi non chiediamo a chi appartenga politicamente chi viene da noi. Dal punto di vista delle appartenenze politiche, si trova di tutto nel nostro sindacato e io me ne vanto.

Ciò non toglie che si abbiano idee abbastanza precise, avendo lavorato per molti anni in RAI, sugli scopi effettivi del servizi pubblico, fermo restando che secondo noi la RAI non fa informazione di servizio pubblico. Lo diciamo non perché ci piaccia, ma perché constatiamo la realtà, abbiamo visto che su grossi temi di interesse pubblico, lo scorso anno e non dieci anni fa, Costanzo è arrivato prima della RAI, prima e meglio: parlo del caso Di Bella, dell'incidente di Firenze e di mille altre cose. Non ci fa piacere constatarlo, però in quel caso è stato fornito un servizio pubblico. Il TG5 e Canale 5, quando hanno fatto quelle grandi trasmissioni di approfondimento sul caso Di Bella, hanno fornito un servizio al pubblico. La RAI è arrivata dopo: non ci fa piacere, ma è una realtà.

Da questo punto di vista - mi aggancio a quello che diceva il senatore Semenzato - mi sembra di capire che voi preferite rimanere all'interno di un discorso non di sponsorizzazioni ma di pubblicità. Attenzione: quando diciamo che vogliamo essere giornalisti liberi di operare nella nostra autonomia, non vorrei che si intendesse che vogliamo essere pagati esclusivamente con le risorse pubbliche. Non credo che sia questo il problema, perché io oggi nel telegiornale in cui lavoro non ritengo di essere coatta in quello che faccio perché su RAIDUE vi sono inserzioni pubblicitarie. Non è questo: molto peggio è la sponsorizzazione che precede il mio telegiornale. In questo senso sono d'accordo con quello che diceva il senatore Novi e cioè che la sponsorizzazione può essere peggio della pubblicità, perché è mirata e non è plurima.

Ci è stato chiesto se siamo d'accordo sull'aumento delle risorse per la RAI. Se necessario, esso deve essere fatto non sulla base delle cinquanta pagine che ci hanno fatto leggere, dove non vi è nulla di trasparente, di chiaro, di preciso. Di aumento di risorse si potrà parlare quando ci avranno spiegato veramente dove va a finire il piano di divisionalizzazione. Non può essere che ogni volta che la RAI opera un tentativo di cambiamento, di ammodernamento e di ristrutturazione la prima cosa che fa è battere cassa e chiedere l'aumento del canone. A maggior ragione in una situazione in cui abbiamo visto una certa disaffezione nei confronti della RAI perché non si è ancora abituata ad operare in regime di concorrenza. Oggi io non me la sentirei di chiedere un aumento del canone, operazione che mi sembrerebbe un po' avventurista. Prima bisogna provare che siamo in grado di ristrutturarci, di ammodernarci e di fornire un effettivo servizio; quando avremo dato prove di ciò in termini di cambiamento, si rifaranno bene i conti. Farlo adesso mi sembrerebbe molto pericoloso.

Sull'aspetto specifico ed interessante della nuova RAITRE e delle sedi regionali il collega Camozzini è più esperto di me, per cui, se siete d'accordo, lascerei a lui questo aspetto del problema.

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Vorrei cominciare facendo un'osservazione. Se il fiore all'occhiello dell'attuale consiglio di amministrazione - il secondo in due anni - è la nuova terza rete, il direttore generale avrebbe dovuto assumere l'interim di tale rete e non della prima e della seconda.

PRESIDENTE. Perché?

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Perché è considerato il fiore all'occhiello. Invece, si guarda alla televisione commerciale e si abbandona quella che, a parole, doveva essere il fiore all'occhiello. Questo ci fa dubitare del piano che presenta la RAI, del quale abbiamo avuto tre copie di mole diversa, la più corposa delle quali non è la più comprensibile, anzi i dubbi sul piano ci sono tutti e nessuno è stato risolto. Quelle rare volte in cui si siamo incontrati con il presidente della RAI, professor Zaccaria, abbiamo verificato che il piano è una specie di elastico tirato da una parte e dell'altra (abbiamo scoperto che vi erano le macroregioni, ma poi sono scomparse ed ora pare che tornino ad essere centri di spesa).

Per quanto riguarda la domanda dell'onorevole Borghezio a proposito di Milano...

MARIO BORGHEZIO. Speriamo che questi centri di spesa non siano collegati al flusso dei canoni RAI.

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Questo è un altro problema, perché, per esempio, si parla della nuova terza rete con il canone ma non per intero, perché altrimenti - si dice - non vi sarebbe più motivo per difendere le altre reti. Noi temiamo che la parte di canone che andrebbe alla nuova terza rete sia largamente insufficiente per mantenere questo Titanic destinato ad affondare alla prima occasione.

L'onorevole Borghezio ha chiesto cosa ne sia stato della sede di Milano. In questo momento partecipa alla trasmissione TGR Economia ma da venerdì prossimo cessa di farlo perché il centro di produzione non è in grado di assicurare lo studio, vale a dire i tecnici. Queste sono le condizioni, dal punto di vista del personale, del centro di produzione di Milano, il secondo dopo quello di Roma.

Nei giorni scorsi alcuni dirigenti della RAI hanno offerto a 10 dei nostri 24 telecineoperatori un incentivo per lasciare l'azienda. L'organico dei telecineoperatori di Milano era di 25 unità, ma nel 1994 è morto, nel corso di un'esercitazione per partecipare a missioni pericolose, il collega Cerina, che non è mai stato sostituito, per cui l'organico è carente di una unità da quattro anni. Ora ci si prepara addirittura ad incentivare 10 colleghi a lasciare l'azienda. Nel frattempo sono aumentati i compiti dei 24 telecineoperatori del centro di Milano, perché è nata RAI Sport che ha una redazione a Milano ma non ha telecineoperatori e montatori. La produzione dello sport che parte da Milano viene fatta usando i mezzi della TGR di Milano. In questo momento, un nostro telecineoperatore segue i mondiali di calcio a Parigi, altri due seguono l'automobilismo e un altro si prepara a seguire il giro di Francia. Che cosa fa RAI Sport? Ci paga un appalto per 600 mila lire lorde al giorno, delle quali 200 mila, con ritenuta d'acconto, vanno all'operatore e 100 mila, con ritenuta d'acconto al tecnico di produzione. Sono dei costi bassissimi; certamente una troupe della RAI costa molto di più di 600 mila lire lorde al giorno. In questa maniera si trovano persone disposte a tutto, che non fanno domande, che servono alle produzioni che chiede Roma. E' chiaro che se un collega del TG2 mi chiede di andare a porre una certa domanda all'onorevole Borghezio, io rivendicherò la mia autonomia di fare un servizio completo e decidere quali domande porre sul tema indicato; ad un service, invece, si invia la domanda scritta e lui si limita a mettere il microfono davanti alla bocca.

Naturalmente questo è un problema generale. Si parla tanto delle sedi della RAI, che in effetti sono la forza che la concorrenza non ha, però dall'altro lato si accusa la RAI di avere troppi giornalisti, 600, sparsi sul territorio. Sono troppi 20 giornalisti per coprire le esigenze di una regione media come il Friuli Venezia-Giulia? Questi 20 giornalisti devono coprire dalle 5 del mattino a mezzanotte per 365 giorni l'anno i telegiornali, i giornali radio locali,tutte le richieste che vengono da Roma e adesso la nuova trasmissione a costo zero fatta dal nuovo direttore di RAITRE prima ancora di aver presentato un piano editoriale. A costo zero significa che un redattore dopo aver fatto il servizio per la sua rete locale, per il TG1, per il TG2 e il TG3, ne fa un altro per la nuova trasmissione.

PAOLO RAFFAELLI. Lei sta facendo un ritratto molto veritiero della situazione, non dimentichiamo però che è prassi delle sedi regionali, quando si verifica un fatto importante, di coprire meglio l'universo-mondo, dall'informazione per l'estero al giornale radio; che un inviato o un redattore copra con sei pezzature diverse un determinato fatto è prassi costante nelle sedi regionali. Non mi sembra sia questo uno dei punti di debolezza del sistema informativo. Il problema a mio parere è un altro. Non è proprio questo tipo di organizzazione la migliore organizzazione sulla vita rispetto ad una proliferazione selvaggia dei service?

Che poi il service non sia in grado di sostituire un meccanismo informativo così elastico - le sedi regionali sono molto rigide dal punto di vista burocratico, ma molto elastiche dal punto di vista del prodotto - non è la migliore assicurazione contro un loro uso distorto che abbasserebbe la qualità professionale? E non è proprio sulla regolamentazione di un sistema di sensibilità della professione giornalistica nelle sedi locali la migliore garanzia contro un meccanismo perverso che porti allo svuotamento delle professionalità giornalistiche a beneficio di funzioni terze?

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Noi chiediamo innanzitutto il rispetto del contratto di lavoro, che stabilisce a quali regole richiamarsi. La regola è che nelle sedi regionali, per un'antica consuetudine, i giornalisti si sono disamorati del loro lavoro. Ogni volta che è stato possibile infatti sono stati espropriati del loro lavoro. Faccio l'esempio del Natale scorso: un folle si è barricato in una banca di Milano minacciando di far saltare tutto in aria. I due redattori che si davano il cambio giorno e notte durante queste tremende giornate, l'ultimo giorno, a due ore dalla liberazione degli ostaggi, hanno visto arrivare un inviato del TG1 che ha preteso di fare il collegamento in diretta.

Se questa è la realtà, non ci si può lamentare che ci sia disamore per questa professione perché i dirigenti non tutelano la professionalità dei giornalisti dei TG regionali, i quali subiscono gli abusi dei direttori di TG1, TG2 e giornali radio. Questa è la realtà con cui ci confrontiamo tutti i giorni.

Io mi occupo di economia e seguo la borsa. La redazione economica di Milano garantisce ai vari giornali radio e telegiornali da un minimo di 13 a un massimo di 28 collegamento di borsa al giorno. Lo facciamo a prezzo basso? Perché il collega del TG1 o del TG2 deve rispondere solo al suo direttore mentre noi dobbiamo rispondere a cinque direttori? Questo è dovuto ad una organizzazione a cipolla della RAI e la riforma della nuova terza rete non risolve questo problema. La redazione di Napoli, per esempio, produce ogni giorno un telegiornale che va in onda alle 11.30, che ne sarà di questo TG1 quando partirà la nuova terza rete ed essi dipenderanno da un'altra struttura? Continuerà ad essere fatto a Napoli?

PRESIDENTE. Anche solo con la divisionalizzazione dipenderanno da un'altra struttura.

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Il piccolo progetto di decentramento partito con il TG1 Napoli, con il TG3 a Milano delle ore 12 dove andrà a finire? Il TGR Economia, che viene prodotto a Milano e va in onda alle 7,35 sulla prima rete RAI nel contenitore Uno mattina avrà ragione di essere visto che dipenderemo da un'altra divisione? Le varie rubriche (Mediterraneo, prodotto dalla sede di Palermo, Leonardo, prodotto dalla sede di Torino, Nord Sud e le produzioni congiunte di Venezia e Napoli) continueranno ad essere prodotte oppure rientreranno nel calderone del TG3?

Noi produciamo un settimanale di politica estera che si chiama Europa: continueremo a farlo una volta che saremo nel TG3 o ci verrà tolta questa finestra che durante quest'anno è andata in onda a settimane alterne perché doveva lasciare spazio ad altri appuntamenti?

La nostra preoccupazione è che la terza rete diventi un grande catino nel quale la RAI butterà tutto quello che non è interessante. Se si vuole fare la grande terza rete, gli si diano le cose più importanti, le partite dell'Italia, Fantastico, Il lotto alle otto; invece già oggi le partite della nazionale vanno solo sulla prima rete e così via. Con cosa si farà la terza rete, con una serie di sagre delle mortadelle delle varie regioni d'Italia? E' questa la provincializzazione? Scendere nel territorio è dare spazio alle feste della polenta taragna o del putipù?

L'obiettivo della terza rete è il 9-10 per cento di share, cioè di ascolto medio del giorno; di questo parla il presidente della RAI. Si vuole fare una nuova grande terza rete con un ascolto minimale; una nuova terza rete nella quale dovrebbero confluire circa mille giornalisti e tutte le strutture locali per lasciare poi un'altra RAI agile.

Qui c'è un problema. Credo personalmente di essere agnostico rispetto al fatto che la RAI debba essere privatizzata o debba essere un servizio pubblico. In un momento in cui è di moda parlare di privatizzazioni, forse noi siamo i difensori di un servizio pubblico, di cui si sente il bisogno, perché solo esso può garantire il pluralismo. Allora, nella mia concezione, perché limitarci a tre reti se vi è una domanda per farne quattro, cinque, sei?

PAOLO RAFFAELLI. Vi è una legge che crea qualche problema.

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Non so perché tutti possono parlare di riformare le leggi (si è detto che la Mammì può essere riformata) e noi non possiamo porre il problema.

PRESIDENTE. L'intervento del collega Raffaelli non era censorio.

STEFANO CAMOZZINI, Rappresentante del SINGRAI. Vi sono fatti allarmanti. Il mercato dei rischi dei capitali che ha sede a Londra riferisce che due grandi imprenditori italiani stanno rastrellando crediti, uno per 5.500 miliardi e l'altro per 2.500 miliardi. I due imprenditori sono già largamente presenti nel campo editoriale e hanno dimostrato di volersi muovere proprio nel campo delle telecomunicazioni, addirittura sollecitando la revisione della legge Mammì. Si tratta di iniziative più che legittime, ma meno legittimo è pensare che la RAI possa svendere il servizio pubblico. Noi crediamo che creando due RAI, una leggera e una pesante, il risultato finale sia la creazione di un terzo polo a costo zero. Contro questo noi ci batteremo, perché il terzo polo a costo zero verrebbe fatto sulla pelle dei giornalisti e di tutte le altre persone (più di 8 mila) che lavorano nell'azienda.

PRESIDENTE. Dichiaro conclusa l'audizione del SINGRAI.

La Commissione è convocata per domani giovedì 2 luglio 1998, alle 13,30 per l'audizione del direttore generale della RAI e dei responsabili designati delle nuove divisioni.

La seduta termina alle 17.10

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