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CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA

XIII LEGISLATURA

COMMISSIONE PARLAMENTARE

PER L'INDIRIZZO GENERALE E LA VIGILANZA

DEI SERVIZI RADIOTELEVISIVI

8.

SEDUTA DI GIOVEDI' 16 GENNAIO 1997

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FRANCESCO STORACE

INDICE

Seguito della discussione sul pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo. Seguito dell'audizione contestuale dei direttori del TG1, del TG2, del TG3, della TGR e del Giornale radio sul pluralismo

La seduta comincia alle 13,5.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Essendo pervenuta la richiesta da parte del prescritto numero di componenti la Commissione, dispongo, ai sensi dell'articolo 13, comma 4, del regolamento della Commissione, che la pubblicità dei lavori della seduta sia assicurata anche mediante l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.

Se non vi sono obiezioni, rimane così stabilito.

(Così rimane stabilito).

Della seduta odierna sarà altresì redatto e pubblicato il resoconto stenografico.

 

Comunicazioni del presidente.

PRESIDENTE. Comunico alla Commissione che il presidente della RAI ha inviato i dati riguardanti il monitoraggio della comunicazione politica in televisione, elaborati dall'osservatorio politico di Pavia per il periodo 1-10 gennaio 1997; il monitoraggio è esteso anche alle altre reti nazionali (è un'innovazione di cui prendiamo atto).

Comunico altresì alla Commissione che è stata depositata dall'onorevole Vito la seguente proposta di risoluzione:

"La Commissione per l'indirizzo generale e la vigilanza sui servizi radiotelevisivi,

premesso che:

nel prossimo mese di giugno, in Sicilia, si terranno i giochi mondiali riservati agli studenti universitari, "Universiadi", che rappresentano un tradizionale appuntamento sportivo, considerato unanimemente come uno degli avvenimenti dell'anno;

considerato che:

l'assegnazione all'Italia delle Universiadi è un importante riconoscimento e può contribuire ad accrescere l'immagine del nostro paese all'estero;

in occasione di eventi di tale rilievo l'attenzione del mondo intero verso i paesi organizzatori è naturalmente elevata e consente la promozione e la valorizzazione delle regioni del nostro paese;

preso atto

che anche autorevoli e qualificati esponenti del Governo hanno dichiarato che è necessario che la RAI segua adeguatamente la manifestazione sportiva in Sicilia;

impegna la RAI

ad adottare le opportune iniziative che permettano di dare un'ampia copertura televisiva alle Universiadi, adeguata all'importanza dell'avvenimento sportivo, prevedendo anche la trasmissione in diretta e sulle reti principali delle gare più importanti."

Naturalmente l'ufficio di presidenza della Commissione si occuperà di calendarizzare la trattazione della proposta di risoluzione.

Desidero poi darvi notizia che il nuovo capo del Servizio prerogative e immunità, da cui dipendono le Commissioni bicamerali, è il dottor De Liso, qui presente, che saluto a nome dell'intera Commissione.

Onorevoli colleghi, nella giornata di ieri è scomparso il senatore Carlo Fermariello, che fu autorevole membro della Commissione parlamentare di vigilanza sulle radiodiffusioni (la quale precedette la nostra Commissione) nella V legislatura, nella quale si impegnò e si distinse per le sue iniziative di profondo spessore culturale. Desidero esprimere alla sua famiglia, umana e politica, il cordoglio dell'intera Commissione.

Seguito della discussione sul pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo. Seguito dell'audizione contestuale dei direttori del TG1, del TG2, del TG3, della TGR e del Giornale radio sul pluralismo.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito della discussione sul pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo ed il seguito dell'audizione contestuale dei direttori del TG1, del TG2, del TG3, della TGR e del Giornale radio sul pluralismo.

Ringrazio per la loro presenza i direttori delle testate RAI dottor Marcello Sorgi del TG1, dottor Clemente Mimum del TG2, dottoressa Lucia Annunziata del TG3, dottor Antonino Rizzo Nervo della TGR e dottor Paolo Ruffini del Giornale radio.

Ricordo che le iscrizioni a parlare sono state chiuse la scorsa seduta: hanno chiesto di intervenire dodici colleghi, che invito a svolgere interventi che non superino i dieci minuti.

PAOLO ROMANI. Signor presidente, ho partecipato alla seduta della Commissione di martedì scorso e francamente devo dire che stamattina non avrei voluto continuare questo rito propiziatorio che purtroppo ci accomuna quando discutiamo temi importanti ma tendenzialmente generici come quello del pluralismo.

Dovremmo quindi riuscire a concretizzare un ragionamento che ci consenta di individuare un terreno comune di confronto fra la Commissione parlamentare e chi gestisce quotidianamente l'informazione. Devo intanto dare atto al relatore Paissan di aver svolto, rispetto alle direttive sul pluralismo emanate dal consiglio di amministrazione della RAI, una relazione approfondita, puntuale e rigorosa : quelle che mi sembravano vacue parole nella direttiva sono state infatti rese più concrete, comprensibili e leggibili, il che ci consente di fare un passo in avanti.

Tuttavia - lo ripeto - ritengo che si debba trovare un terreno comune di intesa: per un momento, allora, voglio dare atto ai cinque direttori presenti che si stanno almeno ponendo il problema del pluralismo. Infatti, dobbiamo tenere presente che qualcuno sostiene che il pluralismo nella RAI non esiste. Bisogna allora capire se i direttori (non solo gli attuali, ma anche quelli precedenti) non si sono fatti carico di questo problema, oppure se vi sono problematiche interne alla RAI che non consentono a chi dirige i telegiornali, radiofonici e televisivi, di mettere in pratica meccanismi che garantiscano alla parte politica (titolare dell'indirizzo e del controllo) il pluralismo che si aspetta.

Se i direttori si fanno carico del problema, che però rimane non risolto, significa che qualcosa all'interno del meccanismo del servizio pubblico non funziona e non consente di risolvere il problema stesso. Cerchiamo allora di entrare nel merito, per verificare se sia possibile individuare un comune terreno di discussione. Probabilmente, la lottizzazione, la spartizione, l'occupazione della RAI nelle ere geologiche politiche che si sono sovrapposte hanno creato una serie di situazioni negative; me ne vengono in mente tre: carenze di carattere tecnico, carenze di carattere professionale, mancanze di equilibrio laddove la professionalità esista (vi possono essere ottimi professionisti che però sono così "targati" da non poter dimenticare il proprio DNA, il che non consente di avere l'equilibrio necessario per conseguire un prodotto che rispetti il pluralismo nel servizio pubblico).

Per quanto riguarda le carenze tecniche, dovute alla lottizzazione, alla spartizione e a quant'altro, esse comportano probabilmente anche una mancanza di strategie aziendali di lungo respiro. Tale mancanza, se ha permesso di gestire la "cucina quotidiana" anno per anno,non ha però consentito di rendere strategico il servizio pubblico e fra l'altro può aver fatto mancare il famoso elicottero a Lucia Annunziata il giorno della manifestazione del Polo (anche se forse è stato chiamato in ritardo). Analoghe considerazioni valgono comunque per altre sedi e per tempi non sospetti: per esempio, durante la rivoluzione rumena del 1989, tutte le televisioni europee avevano un collegamento con Bucarest, mentre la nostra era l'unica che parlava da studio, cercando di capire quale fosse il palazzo che si stava incendiando. Lo stesso fenomeno si è verificato con riferimento alle vicende della Bosnia e ad altre mille occasioni che hanno sempre visto la RAI non presente sul territorio. A noi, che siamo cultori dell'informazione (probabilmente per il fatto di provenire da questo settore), è accaduto spesso di affidarci alla CNN od a Sky news per capire cosa stesse accadendo a Tuzla, a Mostar o a Sarajevo, visto che la RAI mandava in onda "servizietti" confezionati a Capodistria.

Si tratta di atteggiamenti che contraddicono il meccanismo del pluralismo: la mancata completezza delle informazioni, dovuta a carenze di carattere tecnico, svilisce uno degli aspetti fondamentali che connota il pluralismo stesso.

Sotto un diverso profilo, va considerato come quasi quotidianamente si assista a manifestazioni sintomatiche di mancanza di professionalità. Ci piacerebbe che la RAI trasmettesse interviste incalzanti, secondo lo stile anglosassone: in realtà, assistiamo ad interviste ruffiane e molto soft, che sicuramente contraddicono il principio del pluralismo. Il Governo dovrebbe essere contraddetto da chi è preposto all'informazione, soprattutto quando quest'ultima sia fornita da un servizio pubblico. La mancanza di equilibrio che si manifesta anche laddove sia presente la professionalità sta a significare che non è stato creato un sistema immunitario contro le sopraffazioni che spesso emergono in RAI. Vorrei citare, a tale proposito, un esempio riguardante il TG3, anche se oggi non vorrei essere eccessivamente cattivo... Annunziata mi perdonerà, ma mi è rimasto per molto tempo - per così dire - nella retina dell'occhio uno sciagurato servizio sulla vicenda della cimice di Berlusconi: ben otto minuti di esordio del TG3 furono dedicati a due ex parlamentari di forza Italia i quali immaginavano che qualche esponente di quello stesso gruppo avesse collocato la cimice nell'ufficio di Berlusconi! Si è trattato di un classico esempio di contraffazione della notizia, a dimostrazione del fatto che non è stato creato un sistema immunitario capace di difendere la professionalità, che pure esiste in RAI, da un certo tipo di sistema.

Siamo tutti d'accordo nel considerare che il pluralismo vada difeso, con riferimento non soltanto a meri aspetti quantitativi ma avendo anche riguardo ad elementi qualitativi. In realtà, nella pratica quotidiana siete voi, direttori di TG, a dover garantire questo principio. Poiché non ho difficoltà a prendere atto della vostra disponibilità a porvi il problema, vorrei capire se gli inconvenienti ai quali ho fatto riferimento siano quelli che non vi consentono di assicurare il rispetto del principio del pluralismo; se così non fosse, infatti, dovrei pensare che ci sia qualcuno che non voglia applicarlo deliberatamente.

Mi piacerebbe che, una volta tanto, uscissimo fuori da una sorta di rito virtuale e propiziatorio di confronto dal quale tutti emergono insoddisfatti, così come erano insoddisfatti quando vi sono entrati. Diteci esattamente quali sono i problemi che incontrate! Diteci quali sono le difficoltà reali delle vostre redazioni, delle vostre strutture tecniche, della vostra azienda e cerchiamo di capire insieme perché il pluralismo non è garantito! Se riteneste di dover rispondere a questi interrogativi richiamando la necessità di non essere sottoposti a regole o, in alternativa, la circostanza di aver già risolto il problema, si tratterebbe di una risposta assolutamente insufficiente.

GIOVANNA GRIGNAFFINI. Ho constatato come tra la risoluzione approvata dal consiglio di amministrazione della RAI e la relazione dell'onorevole Paissan intercorrano differenze con riferimento a talune accentuazioni di carattere generale. In particolare, si ha l'impressione che la risoluzione approvata dal consiglio di amministrazione sia un atto di indirizzo, mentre la relazione proposta dall'onorevole Paissan, nella quale la parola "prescrizione" ricorre almeno quattro o cinque volte, sia una sorta di formulario di regole e di codici di comportamento. Credo che quando si parla di giornalismo, così come anche di altri prodotti dell'intelletto umano, la questione delle regole debba attenere alla verifica, al controllo ed alle sanzioni. La questione delle regole non può infatti attenere alla libertà, all'autonomia e alla responsabilità dei singoli soggetti chiamati ad operare su questo terreno. Si tratta dell'accentuazione di un tema affrontato in questa sede, in ordine al quale vorrei ascoltare l'opinione dei nostri interlocutori. Cerchiamo di realizzare lo stesso risultato, il pluralismo, ma vi possiamo arrivare con strumenti diversi. Alcuni di questi sono a monte, e riguardano la predisposizione di una sorta di abbecedario della buona e corretta informazione, altri sono invece gli strumenti di verifica, controllo e sanzione.

L'onorevole Romani ha osservato come il pluralismo molto spesso abbia a che fare con le possibilità tecniche di organizzazione della notizia. Sotto questo profilo, vorrei sapere dai direttori di testata quale sia la percentuale di possibilità che la RAI è in grado di assicurare nel rapporto tra notizie da studio, cioè ancorate alla parola e alla voce di un giornalista, e notizie dall'esterno, cioè ancorate alla parola, alla voce e alle azioni dei soggetti sociali presenti sulla scena pubblica. In sostanza, nella invadenza con cui la parola dei giornalisti opprime quella dei soggetti presenti sulla scena sociale - almeno, così è secondo la mia opinione - è rinvenibile una questione di scelta o un elemento di inadeguatezza? Credo si tratti di un argomento molto importante.

Della relazione svolta dall'onorevole Paissan condivido l'accentuazione dello spostamento verso un sistema di pluralismo inteso come rappresentazione che ha preso il posto, soprattutto nell'attuale sistema politico, di un pluralismo inteso come rappresentanza. Tale dato, anche da un punto di vista della presenza delle diversità e delle minoranze all'interno della scena televisiva, va considerato fino alle sue estreme conseguenze. Parlare di rappresentazione e non di rappresentanza significa che l'ottica del pluralismo si sposta da uno stretto ancoraggio ai singoli soggetti rappresentati proporzionalmente in termini di voti ottenuti ad un qualcosa un po' più ampio, che si definisce rappresentazione sociale, politica e culturale del nostro paese e che ha a che fare con i soggetti, i temi ed i problemi, più che con le rappresentanze partitiche in senso stretto.

Quando i rappresentanti del consiglio di amministrazione della RAI sono intervenuti in questa sede per illustrarci per la prima volta il piano editoriale, dalle loro considerazioni emerse che, parlare di comunicazione politica nella sua accezione più lata, avrebbe dovuto significare svincolare sempre più il tema della comunicazione politica da quello della presenza, come unico attore della scena politica, di quel soggetto, per quanto mi riguarda vecchio ma pur sempre attivo e presente, che si chiama partito politico. Si tratta, insomma, di spostare l'attenzione rispetto alla soggettività politica da una stretta correlazione ad una visione legata a soggetti partitici in senso stretto ad un altro livello che si chiama (e mi fa piacere che nella relazione dell'onorevole Paissan sia contenuta un'accentuazione molto più ampia di tutte le questioni legate a questo tipo di pluralismo) realtà sociale, realtà delle differenze di genere e di età, etniche e culturali, nella loro più lata accezione. Vi chiedo: vi siete posti o vi siete dotati di strumenti per operare o comunque procedere in questa direzione?

Come è stato diffusamente osservato, il passaggio verso un sistema bipolare, sia pure ancora non strettamente bipartitico, pone questioni molto gravi sul piano della comunicazione politica. Vi siete posti il problema di quella che io definisco comunicazione istituzionale? Intendo riferirmi al fatto che, così come avviene in molti paesi del mondo, il Governo, indipendentemente dalla logica di maggioranza e di opposizione, ha luoghi, tempi e modalità per esporre le proprie iniziative, i propri progetti ed i risultati conseguiti, così da essere posto correttamente di fronte ad un contraddittorio. A noi non interessano né i giornalisti accondiscendenti né quelli pregiudizialmente contrari: ci interessa sapere se sia pensabile ed organizzabile uno spazio di comunicazione istituzionale nel quale il Governo esprima, racconti ed evidenzi i fatti che ha prodotto. Ricordo che l'invenzione della comunicazione istituzionale risale ai famosi spot realizzati da Berlusconi, risultato della grande intuizione di capire che esiste un luogo all'interno della televisione che può essere intenzionalmente usato per dare conto delle azioni del Governo, documentando i fatti prodotti dal Governo stesso ed aprendo contraddittori che diano la possibilità di procedere a contestazioni sulla base di fatti, non, quindi, di pregiudizi o di "tappetini" stesi di fronte a chi gestisce la cosa pubblica.

La forma di pluralismo che considero meno rappresentata sulla scena televisiva è quella attinente alla differenza di genere. Non mi riferisco a quote di presenza di donne ma mi riferisco al fatto che il punto di vista di una soggettività politica, quella appunto delle donne, che ha espresso sapere, conoscenza e posizioni su molte questioni della vita sociale e politica, non ha adeguata rappresentazione in televisione.

MARCO FOLLINI. I nostri richiami al pluralismo assomigliano un po' ai sermoni medioevali sulla virtù. Sotto questo profilo, Paissan è stato un predicatore severo, appassionato e anche molto equo, tanto che condivido le sue considerazioni. Spetterà alla Commissione ragionare, ai margini del confronto con i direttori di testata, sulla eventualità che tutto questo possa culminare in una direttiva nonché su come tutto ciò si intrecci con una direttiva sul pluralismo, la cui predisposizione abbiamo sollecitato e che la RAI ci ha trasmesso qualche giorno fa.

Vorrei cercare di prescindere dai cahiers de doléances che in queste occasioni ognuno di noi è portato a sciorinare, anche in modo giustificato, e limitarmi a richiamare un dato storico, che appartiene alla cronaca degli ultimi anni del servizio pubblico: c'è un disagio forte e costante dell'opposizione, qualunque essa sia, nei confronti della RAI. Si tratta di un dato che ha attraversato la prima e la seconda Repubblica e maggioranze diverse. Credo che debba essere svolto un ragionamento su questa difficoltà dell'opposizione, che porta qualche volta ad assumere posizioni martellanti, perentorie, espresse con una forza polemica ed una severità particolari. Su questo aspetto andrebbe avviata una riflessione non soltanto da parte della Commissione ma anche degli operatori del servizio pubblico.

Ricordo che, sul finire della prima Repubblica, quando la RAI si ispirava ad un certo tipo di pluralismo, quello dell'arco costituzionale, Veltroni ed il partito comunista avevano una ricorrente rappresentazione di viale Mazzini come se si trattasse di Beirut. La cosa era curiosa perché poi la sera andavano in onda sui telegiornali le immagini delle bombe vere, di questa città sventrata, degli attentati, del sangue che scorreva ed il giorno dopo su l'Unità capitava di leggere che viale Mazzini era un quartiere di Beirut. Questa stessa dinamica si è riprodotta negli anni successivi. Ha accompagnato il consiglio di amministrazione Demattè, ha accompagnato (e direi con un rialzo delle punte polemiche) il consiglio di amministrazione Moratti ed in qualche modo riguarda anche alcune delle obiezioni che forze di opposizione hanno mosso alla programmazione di questi mesi.

Credo che dietro questa dinamica, fatta la tara delle posizioni particolari e degli interessi che sono in gioco, vi sia un dato - di cui credo anche la RAI, per la sua parte, si debba far carico - che riguarda la precarietà con la quale siamo approdati ad un sistema di democrazia compiuta. C'è una difficoltà storica del paese a generare il ricambio, l'alternanza, l'equilibrio tra gli schieramenti in campo (ci abbiamo messo cinquant'anni per realizzare questa condizione) e il dubbio che lo squilibrio delle forze a vantaggio dell'esecutivo in qualche modo prosegua e venga accentuato dall'impatto forte dei mezzi di comunicazione rappresenta non soltanto una difficoltà in più per l'opposizione, ma un problema di tutto il sistema politico e di tutta la democrazia italiana in ordine al compimento di quella condizione di parità e di equilibrio tra gli schieramenti su cui abbiamo fondato il passaggio alla seconda Repubblica. Questo dato è presente. Le analisi e i rilevamenti sulla campagna elettorale americana sono, da questo punto di vista, sconfortanti per l'opposizione. Mi è capitato di leggere che la media statistica del tempo dedicato nell'ultimo anno a Clinton ed a Dole evidenzia un rapporto di tre a uno a vantaggio del Presidente ed è chiaro che questo determina una condizione di straordinario rafforzamento dell'esecutivo in carica. Ma una cosa è immaginare questi problemi in un sistema dove la prassi dell'alternanza fa parte della storia di quei paesi, di quelle democrazie, altra è collocare questa problematica su un terreno molto più scivoloso, come quello che ha visto e continua a vedere una difficoltà del nostro paese ad immaginare forme di alternanza.

Credo che questo problema in qualche modo si rifletta sul rapporto tra il sistema politico e l'azienda e sia un versante su cui credo che la dirigenza dell'azienda debba sviluppare una riflessione di maggiore respiro. Il limite che ho individuato nella direttiva sul pluralismo riguarda il fatto che vengono rielaborati vecchi documenti e riproposte opinioni largamente condivisibili, ma manca un'attenzione specifica all'aspetto dell'equilibrio tra schieramento di Governo e schieramento o schieramenti di opposizione e questo è un punto cruciale dell'informazione politica, che in un paese come il nostro ha caratteristiche del tutto particolari.

La seconda considerazione (poi naturalmente tutte queste considerazioni culminano in una domanda) è che indubbiamente nella carta stampata vi è un approccio alla politica che non dico sconfini nel sensazionalismo, ma sicuramente dà molto più spazio al famoso uomo che morde il famoso cane e quindi dà molto meno conto della quantità assai maggiore di cani che normalmente addentano i polpacci degli umani. Temo che la RAI, da questo punto di vista, corra il rischio opposto, quello di collocare la propria programmazione, la propria visione, anche della politica, su un territorio che in America si chiamerebbe politically correct, dentro binari abbastanza nettamente definiti e tali anche qui da creare una certa stabilizzazione. Di alcuni aspetti che con un eufemismo mi viene da definire di mancanza di anticonformismo sono rimasto colpito in questi mesi. Mi è capitato di rivolgere al precedente direttore del TG1 una obiezione che riguardava quella famosa lunghissima intervista o, per meglio dire, monologo di Di Pietro, che per otto minuti alle 20 ha avuto modo di esprimersi senza un contraddittorio e senza una mediazione giornalistica che interpretasse le sue parole. Credo che quello sia stato il punto nel quale siamo arrivati più vicini alla deriva plebiscitaria.

PRESIDENTE. Onorevole Follini, le ricordo i tempi.

MARCO FOLLINI. Sto per concludere. Mi è capitato qualche sera dopo di vedere un altro telegiornale in cui, all'indomani delle dimissioni di Di Pietro, duemila persone a Curno erano presentate come una sorta di adunata oceanica. La notizia non era "così tante" duemila persone, ma "così poche", in un momento in cui c'era tanta enfasi attorno a questo tema. Potrei citare anche altri episodi. Ho la sensazione che tutto l'approccio alla politica guardi molto alla vetrina, ma abbia difficoltà ad interpretare tutto quello che sta dietro, tutte le retrovie, sia quelle del sistema politico ufficiale, sia quelle, cui faceva riferimento prima l'onorevole Grignaffini, che contestano il sistema politico ufficiale e che non hanno una visibilità adeguata.

Mi fermo qui con le considerazioni. Naturalmente, la domanda è: quali di questi ragionamenti e quali di queste discussioni sul pluralismo possiamo aspettarci che determinino un cambiamento del prodotto? La curiosità maggiore che ho e che rivolgo a tutti i direttori è di capire quali cambiamenti, sulla base di queste audizioni e del dibattito che le ha accompagnate, essi immaginano di introdurre in una linea di programmazione che credo dovrebbe uscire dalle due posizioni contrapposte che venivano rappresentate dai giornali all'indomani della prima audizione: quella della Commissione, che chiedeva nettamente e fortemente alla RAI di voltare pagina, e quella dell'azienda, che tendeva invece a dire che non c'era bisogno di cambiare nulla. La mia domanda è: quali cambiamenti ci possiamo aspettare?

GIANCARLO LOMBARDI. Ho apprezzato i documenti, ma mi schiero un po' sulle posizioni dell'onorevole Romani: i documenti in sé stessi sono sempre esaurienti, l'aspetto positivo è che la nostra Commissione trovi un ampio consenso su di essi, sia su quello del consiglio di amministrazione della RAI sia soprattutto sulla relazione di Paissan.

Per fedeltà ad una scelta che ho fatto in questa Commissione, cerco di dare un contributo positivo ed in questo senso faccio mia la domanda finale dell'onorevole Follini. Ho l'impressione che anche in questa Commissione siamo stati attenti a fenomeni che, per quanto attiene l'aspetto profondo del pluralismo, appaiono sostanzialmente secondari: misurare il tempo di apparizione o di presenza delle persone è un fatto assolutamente secondario, anche perché tutti sappiamo benissimo come risulti molto più importante sapere chi parla, il modo in cui parla o il modo in cui è presentato. Si pensi all'ultima osservazione di Follini, per cui un'assemblea di duemila persone può essere presentata come una moltitudine o come un grande fallimento. Tutti i fatti di grande rilevanza non si misurano con i minuti che vengono messi in conto.

Se stiamo ancorati a questa impostazione rischiamo di dare un consiglio non particolarmente utile ai direttori qui presenti. La mia osservazione è purtroppo più critica e si ricollega a quelle dell'onorevole Romani, del quale non ho condiviso - e me ne scuserà, perché in genere consentiamo sul tono dei nostri interventi - il tono del suo intervento, che mi è sembrato un po' polemico ed aggressivo. Sono sulla sua stessa lunghezza d'onda per quanto riguarda l'importanza dell'aspetto tecnico e professionale. Ho l'impressione che qualche volta non si colgano l'importanza e gli elementi fondamentali dell'evento. Cito l'ultimo esempio che ho notato. Nel congresso del partito popolare italiano, a mio avviso, il fatto più rilevante era che ad un certo numero di persone "nuove" non stava bene nessuna delle due candidature in gioco, per cui vi era questo scontento, questo dibattito, questo incrociarsi di posizioni, cui faceva da contraltare un'oligarchia, un establishment che cercava di condurre le cose in un certo modo. La comunicazione - questo vale in misura ancora maggiore per i giornali - è risultata invece di tipo tradizionale: parla l'onorevole De Mita o, tanto per essere chiari, i soliti noti, è un fatto molto importante e si dedica tempo all'onorevole De Mita; parla l'onorevole Pincopallino ed invece non si dimostra interesse nel capire quale sia la novità dell'avvenimento. Questo a mio modo di vedere è un problema di pluralismo, la cui risposta però passa in modo drammatico attraverso la professionalità delle persone. Bisogna che i vostri giornalisti non vadano sempre a parlare con le solite dieci persone e citino soltanto gli interventi di chi gli dà un foglio in mano perché non sono capaci o non hanno voglia di ascoltare. Se ho capito bene l'intervento di Follini, questo vale anche per quanto riguarda il problema - che condivido - dell'equiparazione tra Governo ed opposizione e cioè lo sforzo di capire il fenomeno, cioè di dire: "Il mio dovere di informatore è di far capire al meglio a chi mi ascolta che cosa effettivamente il Governo dice e vuol fare e che cosa effettivamente l'opposizione oppone a questa linea".

Il problema è che purtroppo - dico purtroppo e la mia non sembri insolenza - non posso affidarmi alla misurazione dei minuti, per lamentarmi il giorno dopo se il segretario di un certo partito è apparso meno del segretario di un altro partito. Sono convinto che i direttori intendano farsi carico di questo problema, ma la domanda finale è la seguente: come si pensa di rispondere a questa esigenza con un impegno di professionalità e di intervento tecnico che garantisca su questo versante?

ELIO VITO. Vorrei preliminarmente rivolgere un non formale ringraziamento all'onorevole Paissan per la sua relazione ed anche per l'opera di copromozione che ha svolto con altri colleghi di altra parte politica (l'onorevole Romani, l'onorevole Landolfi, l'onorevole Follini), nel sollecitare nelle settimane scorse il documento della Commissione sul pluralismo, che ha poi dato origine a questo dibattito ed anche alla direttiva della RAI. Questo elemento è importante perché da questa vicenda credo che innanzitutto dobbiamo riprendere una riflessione sul rapporto complessivo tra il Parlamento e quindi questa Commissione e la RAI.

Questo aspetto è stato assolutamente sottovalutato. Il fatto stesso che questa Commissione sia dovuta ricorrere a quel documento, approvato alla quasi unanimità, e che il consiglio di amministrazione della RAI abbia dovuto emanare una direttiva su qualcosa che deve costituire per legge il presupposto del servizio pubblico dimostra che evidentemente si è determinata una situazione di tale gravità per cui tutte le componenti del Parlamento hanno avvertito l'esigenza di assumere un atteggiamento anche molto severo e grave nei confronti dell'azienda pubblica. Rispetto a tale atteggiamento, però, l'audizione che stiamo svolgendo con i direttori - che ringraziamo per la cortesia e la disponibilità - rischia di non evidenziare con chiarezza le preoccupazioni del Parlamento e della Commissione e i compiti ed i doveri dell'azienda. Ogni volta che questa Commissione si pronuncia, approva documenti (e lo fa all'unanimità), investe materie per le quali la RAI è tenuta a compiere il proprio dovere, il proprio servizio, si parla di ingerenza dei partiti, si parla quasi di un fuor d'opera che la Commissione ed il Parlamento compie rispetto all'autonomia gestionale dell'azienda o rispetto all'autonomia giornalistica dei direttori. Sappiamo tutti, presidente, le reazioni che hanno suscitato le proposte emendative presentate al disegno di legge di conversione del decreto salva-RAI. Sappiamo tutti, presidente, al di là del merito degli emendamenti, che volevano semplicemente aumentare i poteri di controllo e di vigilanza della Commissione, quali sono state le reazioni scomposte del consiglio di amministrazione della RAI addirittura nei confronti di un atto legislativo del Parlamento. Questo è il punto rispetto al quale il "lasciateci lavorare" (che tra l'altro è stato superficialmente rappresentato dai giornali, perché in realtà non era questo il tono dei direttori) rischia di mettere la Commissione nella condizione di stare quasi a giustificarsi di aver approvato una direttiva sul pluralismo: stiamo qui quasi a scusarci con i direttori se qualcuno utilizza il cronometro per calcolare quanti minuti e secondi devono essere riservati ai partiti.

Ma la RAI è soggetta ad un controllo del Parlamento, di questa Commissione, per varie ragioni: perché è concessionaria di un servizio pubblico, perché esiste un canone e perché i Presidenti delle Camere nominano i membri del consiglio di amministrazione. Certo, questa è una procedura anomala, che a noi non piace, ma o si tratta di una procedura che rafforza il potere di controllo dell'organo parlamentare nei confronti dell'azienda oppure non ha alcuna giustificazione, perché la si dovrebbe intendere come istitutrice di un rapporto personale tra i Presidenti delle due Camere ed il consiglio di amministrazione. Ma non è e non può essere così, e sappiamo che, giustamente, i Presidenti delle Camere non vogliono intenderla così. Allora, non vedo cos'altro possa significare la nomina del consiglio di amministrazione da parte dei Presidenti delle Camere se non il dovere di aumentare il potere di controllo e di indirizzo di questa Commissione. Rispetto ad esso, l'insofferenza più volte manifestata dall'azienda risulta francamente inaccettabile.

Allora, se ci si richiama giustamente alla necessità di superare questo modello (da parte sia del potere politico sia dell'azienda) noi siamo d'accordo: è giusto che la nomina del consiglio di amministrazione non sia più di competenza dei Presidenti delle Camere, è giusto che non vi sia più la lottizzazione dei partiti nelle scelte interne dell'azienda, è anche giusto che non vi siano tentativi dei partiti di mettere il bavaglio o di esercitare un controllo politico sull'informazione attraverso le richieste di monitoraggio. Tutto questo è giusto, ma come si può cambiare una situazione in corsa? Questa RAI, questo consiglio di amministrazione e questi direttori di rete e di testata sono stati nominati in base a questo criterio. Perciò noi, pur auspicando che cambino il rapporto tra Parlamento e RAI e quello tra politica e informazione, abbiamo l'obbligo di fare in modo che, in base a questi criteri, i nostri compiti di controllo siano rafforzati e che, rispetto ad essi, l'azienda non mostri insofferenza, bensì il rispetto che è tenuta a mostrare.

Immaginavo che i direttori di testata considerassero come un elemento di garanzia della loro autonomia - ma mi pare che, tranne qualche eccezione, su questo non abbiamo raggiunto un'intesa - la delibera della Commissione di vigilanza sul pluralismo. O vi è questo oppure vi è l'egemonia del partito di maggioranza. Quindi, l'insofferenza rispetto alla richiesta contenuta nella delibera sul pluralismo e la stessa superficialità della direttiva del consiglio di amministrazione rischiano di nascondere questo equivoco. O il rapporto con la Commissione di vigilanza viene vissuto dai direttori di testata e di rete come un elemento di garanzia per la loro autonomia rispetto ai partiti o, evidentemente, si vuole rifiutare il rapporto con la Commissione stessa, perché si ritiene che siano i partiti a chiedere la spartizione dei minuti e dei secondi delle interviste e si sa che, rifiutando questo rapporto istituzionalizzato, prevale un altro tipo di rapporto, cioè quello in base al quale si attua un certo tipo di costituzione materiale, di criteri di scelta e della stessa composizione degli organismi dell'azienda. Questo è il nodo rispetto al quale abbiamo il dovere, presidente, di difendere, essendone orgogliosi, il lavoro compiuto.

Mi è dispiaciuto sentire certe affermazioni da parte di alcuni autorevoli colleghi della Commissione, perché evidentemente non ci siamo adoperati abbastanza per far comprendere il significato di quel lavoro: vi è stata una certa ingenerosità nei confronti del relatore e anche del presidente, ma mentre nei confronti di quest'ultimo può essere giustificata per pregiudizi politici (che egli non merita), nei confronti del relatore risulta francamente incomprensibile. Allora, o è la difesa da parte del partito di maggioranza relativo delle prerogative di potere che, grazie alla protezione politica, esso ha nei confronti dell'azienda, o altrimenti risulta francamente inspiegabile sentir dire "se fossi stato presente non avrei votato a favore di quel documento o non lo avrei fatto votare" oppure che fra la relazione e il documento della RAI si preferisce quasi quest'ultimo, e quindi ci si riconosce più nel documento della RAI che nella relazione della Commissione. Sono elementi di preoccupazione di cui dobbiamo farci carico tutti, perché significa che non riusciamo ad intendere, e a far intendere all'esterno, il lavoro che stiamo facendo.

Concludo con un esempio, anche se è sempre spiacevole fare esempi specifici e concreti. Si è osservato giustamente che, nel quadro di una realtà inadeguata e da superare, ma che purtroppo è la realtà con cui siamo tenuti a fare i conti, il monitoraggio è un indicatore insufficiente. D'accordo, ma qual è l'altro indicatore che ci proponete? In assenza di altri indicatori, abbiamo il dovere di attenerci all'indicatore del monitoraggio, pur sapendo che è inadeguato e che deve essere reso più raffinato dal punto di vista qualitativo; tuttavia rimane un indicatore che non possiamo abbandonare in assenza di indicatori alternativi. Mi rendo conto che può sembrare arcaica o partitica la richiesta di vedere parcellizzata l'informazione, ma non è così: è che purtroppo siamo costretti a richiamarci a questi elementi, soprattutto quando si verificano episodi spiacevoli, presidente, come quelli di ieri sera. Tra le 20 e le 20,30, infatti, il Governo è stato battuto alla Camera. Tutti abbiamo visto le edizioni serali dei telegiornali (lo ricordo per dire che, se non si ricorre al monitoraggio, a qualcosa bisogna pur ricorrere): vi sono stati notiziari serali come quello del TG3 delle 22,30 (non ho nulla di personale nei confronti della direttrice Annunziata) che altro che Telekabul! E' stata semplicemente la lettura del comunicato di palazzo Chigi, che rassicurava gli elettori dell'Ulivo sulla scarsa importanza del decreto in questione, perché la fusione della STET sarebbe avvenuta comunque e perché, per tutti i problemi di dettaglio - non si spiegava che erano i 14 mila miliardi dell'IRI - di lì a poche ore il nuovo consiglio di amministrazione avrebbe provveduto. Se questa non è informazione di regime, cos'è? Due ore dopo, infatti, sarebbe stato ampiamente possibile fare un servizio completo, intervistando esponenti politici, chiedendo il significato del voto, dell'atteggiamento di rifondazione comunista e anche delle assenze. Invece, si è data semplicemente la velina di palazzo Chigi per rassicurare l'elettorato e per offrire la versione di regime su un episodio che invece dava la possibilità di un'informazione politica corretta e che non doveva sottostare ai monitoraggi cronometrici.

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Vito, ma le ricordo il nostro cronometro.

ELIO VITO. Sto finendo. Tutto questo rafforza la nostra preoccupazione e il nostro dovere di esercitare il ruolo ed i compiti ai quali siamo chiamati in nome di tutto il Parlamento, anche per meglio tutelare il lavoro della RAI.

PAOLO RAFFAELLI. Immediatamente dopo il precedente incontro tra la Commissione e i direttori dei telegiornali un collega della carta stampata ha scritto un articolo su un dialogo tra sordi tra parlamentari e direttori di telegiornali. Non credo che questa sia una valutazione corretta, ma se la si dà vuol dire che ha un fondamento. Si confrontano da una parte le sensibilità della politica, che tendono a ridurre le riflessioni sul pluralismo a elementi di valutazione quantitativa e qualitativa sulla rappresentanza politica, e dall'altra una valutazione diversa del pluralismo collegata a una visione che potremmo definire - non so se il collega Paissan mi passerà l'espressione - della "pluralità dei pluralismi". Mi sembra che, se vi è una base innovativa nella sua proposta di lavoro iniziale, è proprio questa: spostare l'asse della nostra attenzione da una visione puramente politicistica degli equilibri, dei rapporti e degli elementi di valutazione verso una vicenda più complessa e più rispettosa delle ricchezze della realtà e della società. E' questa la ragione per cui giudico la proposta del collega Paissan come una piattaforma avanzata e mi auguro che il dibattito, nel suo prosieguo e nelle sue conclusioni, si attenga ad essa, ai suoi punti di fondo.

Credo, infatti, che ci consenta in qualche modo di uscire dalle secche di un rischio che vedo delinearsi: la richiesta di codici autoritativi incompatibili con le autonomie professionali e la definizione di quaderni di priorità che rappresenterebbero in qualche modo dei codici di censura. Non credo, collega Vito, che in questa posizione vi sia insofferenza rispetto alle richieste di pluralismo: c'è, semmai (ma questa è una mia debolezza caratteriale), a questo punto del dibattito, un'insofferenza rispetto a espressioni del tipo "dobbiamo farci carico di far comprendere il significato di...", che partono dal presupposto che vi è qualcuno che capisce e illumina e qualcun altro che invece, essendo un po' ottuso, fatica ad essere illuminato.

Credo che il problema sia completamente diverso e che con i direttori delle testate possiamo affrontarlo con serenità. Mi riferisco alla definizione del codice di priorità, del codice di valore delle informazioni, rispetto al quale non vi è dubbio che le priorità della politica saranno sempre - guai se non fosse così - diverse in termini di valutazione rispetto alle priorità di chi l'informazione la fa giorno per giorno. L'importante è che questa diversità, che è nei fatti, non sia considerata come un alibi reciproco: da una parte dai politici, per ingerirsi costantemente, dall'altra dagli operatori della professione per affiggere in qualche modo il manifesto dell'autonomia come una difesa da ogni elemento di critica, sia pure legittima, rispetto a eventuali distorsioni.

Ritengo che il problema sia quello, antico nella nostra professione, della graduatoria di ciò che interessa e di ciò che è importante. Su questo vorrei tentare una distinzione. Gli ordini di graduatoria non possono essere codificati: sono l'anima del mestiere di giornalista e sottoporli a un codice vincolante vorrebbe dire cancellare l'essenza dell'autonomia professionale. In questo mi faccio portavoce anche di una tesi del collega Giulietti, che avrebbe voluto esprimerla di persona ma non ha potuto farlo essendo impegnato in un altro dibattito parlamentare: ma poiché su questo la pensiamo alla stessa maniera, parlo anche a nome suo. Sostengo che, sotto questo profilo, la logica dei codici vincolanti non regge. Credo che sarebbe sbagliata in punto di democrazia e che sarebbe anche impraticabile, a meno di non individuare soggetti che hanno i titoli per dettare le leggi e per diventare censori. Non vi è un altro termine: ci si può arrampicare sugli specchi, si possono usare le ventose come le raganelle, ma questa è censura e non altro.

Vi è un unico punto, forse, su cui sono d'accordo con il collega Vito: è necessario mantenere funzionante, invece, una strumentazione di controllo e di vigilanza, che sia anche uno strumento critico che estenda la consapevolezza su ciò che funziona e ciò che non funziona o su ciò che funziona in maniera opinabile (che è la terza via tra le due cose). Sotto questo profilo sono convinto che il monitoraggio debba esserci, ma anche che il canone non sia un elemento discriminante: credo, infatti, che il monitoraggio debba essere globale. Uno dei limiti del funzionamento dei meccanismi di monitoraggio sull'informazione in questo paese è che si vigila soltanto in una direzione. Non è sufficiente la valutazione del fatto che si vigila su un soggetto che percepisce un canone, perché questo in sostanza significa soltanto che solo coloro che i cittadini finanziano hanno il dovere di rispettare un meccanismo di funzionalità di regole democratiche. Credo che sotto questo profilo si ponga un problema da affrontare e da risolvere, ritenendo che il monitoraggio debba essere globale e attenere al complesso del sistema informativo del paese in maniera più sofisticata e più puntuale. Niente codici imposti, dunque, ma è evidente - lo dicevo all'inizio - che questo non può essere un alibi. Credo che abbiamo bisogno, consentitemi il termine, di acquisire una nuova tendenziosità nel senso di adesione alla tendenza, alla completezza del reale ed alla restituzione massima possibile della sua ricchezza e complessità. Ad esempio, una delle considerazioni che hanno molta fortuna nelle redazioni è la seguente: "Questo argomento non interessa, quindi ce ne occupiamo poco; questo argomento interessa: in apertura"; si tratta di una testimonianza di resa della professione rispetto al modo di gestire la complessità del reale e di percepirlo da parte degli utenti e dell'audience. A mio avviso, invece, l'unico discrimine che possa pesare in una redazione è il seguente: "Questo argomento non è importante", che è diverso dall'altro: "Questo argomento non interessa" e che implica la responsabilità di una scelta (questo è importante, questo non lo è). Sebbene provenga dalla professione giornalistica, mi occupo relativamente poco di problemi dell'informazione nello svolgimento del mio lavoro di parlamentare; seguo invece molto, quotidianamente, le questioni relative all'industria ed alle attività produttive. Mi colpisce moltissimo il modo tutto sommato marginalizzante se non, per certi versi, completamente tangenziale, con cui viene affrontato il tema - oggi cruciale - del rapporto fra il globale ed il locale, fra globalizzazione dell'economia e marginalizzazione delle realtà locali in tale complesso. Mi rendo conto che, detto così, sembra il contrario della professione giornalistica (che significa? che vuol dire? come si fa il titolo?); verissimo, però è anche vero che rispetto a questo tema, poi, cambia il modo di essere di tutte le comunità locali del paese, sia quelle grandi metropolitane sia quelle piccole periferiche. Città di 100 mila, 200 mila abitanti, un milione di abitanti che fino a ieri, ad esempio, misuravano il 100 per cento delle proprie possibilità di sopravvivenza sull'industria pubblica e, quindi, sul meccanismo di contrattazione permanente fra politica ed economia, oggi vivono sul 50 per cento di industria multinazionale (per cui non si sa chi risponde), e sul 50 per cento di rapporti con la finanza (idem: non si sa chi risponde). Ritengo che questo sia uno dei grandi temi della contemporaneità, relativo al modo in cui cambia il paese, che è completamente posto a margine rispetto al tema concernente il modo in cui non cambia la politica del paese. Ad esempio, colgo il prevalere della valutazione delle differenze virtuali - e mi avvio a concludere, presidente, ringraziandola per i secondi in più che mi concede senza richiamarmi - e sostanzialmente ininfluenti delle facce e dei segni della politica rispetto ad alcuni mutamenti profondi che si stanno verificando nel tessuto sociale ed economico del paese.

Mi sono soffermato su tale aspetto perché esso rappresenta una parte fondamentale del mio lavoro attuale ma anche perché avverto, ad esempio, che questo è uno dei punti in cui maggiormente si marca, in sede sia locale sia nazionale, la differenza fra ciò che interessa e ciò che è importante. Sono convinto che l'intera tematica, solo parzialmente economica ma in larga misura sociale e culturale, possa essere fortemente interessante laddove venga considerata importante e, quindi, tale da essere affrontata con le strumentazioni informative che si dedicano agli argomenti che interessano.

Concludo dicendo che è questo lo sforzo da compiere: individuazione di un modello nuovo di pluralità dei pluralismi che il collega Paissan ha introdotto all'interno del documento iniziale; a mio avviso, esso richiede un surplus di professionalità, di responsabilità e di scelta nonché - non trovo un altro termine - di discrezionalità. Ritengo che sia fondamentale, nell'esercizio della professione di giornalista, soprattutto nell'ambito del servizio pubblico, la responsabilità della discrezionalità della scelta; è una responsabilità cui qualche volta la politica abdica, ma sarebbe gravissimo che vi abdicasse anche la professione dell'informatore.

PRESIDENTE. La ringrazio. Nel dare la parola all'onorevole Bosco, faccio presente che l'onorevole Paissan ha chiesto di prendere successivamente la parola per un breve intervento.

RINALDO BOSCO. Presidente, avevo paura che anche lei mi escludesse come già hanno fatto i nostri direttori: infatti, sappiamo come la lega sia...

PRESIDENTE. Onorevole Bosco, semplicemente non si era iscritto a parlare nel termine fissato.

RINALDO BOSCO. Gli impegni che abbiamo sono numerosi, purtroppo...

PRESIDENTE. Era sufficiente che lei si rivolgesse al suo capogruppo, onorevole Bosco.

RINALDO BOSCO. Senza avere la presunzione di essere Catone, mi trovo sempre a dire le solite cose come se stessimo svolgendo una battaglia contro i mulini a vento. I nostri direttori sono vivi e palpabili, ma quando ci si avvicina diventano virtuali, spariscono; ogni nostra richiesta diventa evanescente e tutto continua così come è andato avanti fino ad ora. Nemmeno ai tempi del "ribaltone" - Presidente del Consiglio era il Cavaliere - siamo stati così dimenticati; la nostra voce non esiste. Credo che il problema sia non tanto relativo all'osservatorio di Pavia, al quale applicare coefficienti per verificare se veniamo mandati in onda in prima o in seconda serata, quanto relativo al fatto di esserci, perché effettivamente la lega non c'è.

Vorrei sapere dal direttore Annunziata se, dopo le serate dedicate all'Ulivo ed al Polo, ve ne sarà una per la lega; vorrei sapere dai direttori se potremo avere anche noi il piacere di esprimere le nostre idee nelle interviste, visto che ogni volta ci si pronuncia a favore di una maggioranza che è finta (quando ascolto Casini mi sembra che al suo posto vi sia una stampella, visto che egli non è certamente un esponente dell'opposizione) e visto che la vera opposizione, quella che conduce la battaglia in aula, non appare. Noi non ci siamo; cari signori, ho l'impressione che voi stiate seguendo le orme delle televisioni di Milosevic: voi siete un organo di Stato, di partito. Noi non ci siamo. Credo, invece, che voi dobbiate tenere conto della nostra forza politica che rappresenta, dopotutto, oltre il 10 per cento dei cittadini che guardano la televisione e che pagano il canone (mi auguro che lo facciano in numero sempre minore, perché la nostra è una televisione non competitiva, che diffonde unicamente le agenzie di Stato, come ricordava un collega intervenuto precedentemente).

Ebbene, ritengo che il sistema debba essere cambiato. A mio avviso (e mi riferisco anche a quanto ho letto nella relazione del presidente Siciliano), non si può fare informazione solamente per quanto riguarda l'ambito della Costituzione; chi ha idee nuove da proporre, da portare avanti, perché deve essere oscurato? Perché non deve essere rappresentato chi la pensa in maniera differente? Sono del parere che ciò debba essere fatto anche per quel che concerne le emittenti private; l'informazione è pubblica non perché fornita da un'azienda pubblica ma perché rivolta a tutti e, quindi, tutti debbono assoggettarsi alle regole che in una democrazia quale vogliamo il nostro sistema sia debbono essere fissate. Se poi la RAI o le emittenti private vogliono assumere Raffaella Carrà o Pippo Baudo, sono affari loro; però, l'informazione deve essere chiara e sottoposta a regole che rispettino la pluralità delle idee e dell'informazione.

MAURO PAISSAN. Ho già parlato a lungo e quindi ruberò pochissimi minuti ai colleghi. Spero che le risposte che saranno fornite oggi dai direttori dei telegiornali superino il carattere per me un po' deludente dei loro interventi svolti nella precedente seduta; mi riferisco al loro atteggiamento, a quello più scontato del "lasciateci lavorare": questo è stato il contenuto prevalente degli interventi di alcuni direttori (non di tutti per la verità). Esiste una responsabilità nostra, in quanto Parlamento, in quanto Commissione di vigilanza, di lasciarvi lavorare ma di contribuire anche, nel nostro piccolo, a farvi lavorare meglio, richiamando non tanto voi, bensì la concessionaria del servizio pubblico, a taluni valori ed indirizzi per rafforzare il carattere pubblico della comunicazione della RAI.

Sotto questo profilo non sono d'accordo con i colleghi che privilegiano l'aspetto del controllo, della vigilanza, cioè l'aspetto di repressione a posteriori da parte dell'intervento del Parlamento. Io preferisco la fase dell'indirizzo.

PRESIDENTE. E' un po' forte...

MAURO PAISSAN. Il controllo, la vigilanza sono appunto atti a posteriori che richiamano un po' la censura, il rilievo, la critica, mentre la parte prevalente del nostro impegno dovrebbe essere, a mio avviso, quella dell'intervento preventivo. Capisco l'atteggiamento di fastidio, una certa intolleranza verso la presenza del Parlamento, che può essere considerata incombente, sull'attività informativa e professionale; ma a questo riguardo, un po' scherzosamente visto che si tratta anche di vecchi colleghi, dico che se hanno voluto la bicicletta debbono pedalare. Quando avete ricercato e voluto la direzione, o la conferma alla direzione, di una testata del servizio pubblico, sapevate di cosa si trattava e che ciò implicava compiti, doveri ed impegni diversi da quelli propri della direzione di una testata autogestita o appartenente ad un editore privato. Lo dico anche in riferimento ad alcune affermazioni - che non ho apprezzato - di qualcuno fra i direttori circa proprie opzioni che considero di carattere ideologico. Cito - ma ve ne sarebbero altre - quella che ha suscitato più discussione, concernente i metalmeccanici; è la classica affermazione di tipo ideologico: io considero residuale, dal punto di vista sociale, un certo settore. Rispetto tale affermazione, nel senso che si tratta di una delle tante considerazioni che si possono fare sulla società italiana e sulla sua evoluzione sociale; non accetto e non accetterei - non è un giudizio, perché non sono in grado di valutare - che questa posizione si traducesse in una conseguente scelta informativa. Io posso infatti considerare parimenti residuale un partito politico; posso considerare alleanza nazionale un reperto archeologico di un'epoca passata: posso considerarlo tale, ma non è legittimo che traduca il mio orientamento in una scelta di sottovalutazione, ad esempio, di quel partito. Per i partiti non si accetterebbe un'affermazione del genere, ma per un settore sociale sì: ebbene, considero il fatto particolarmente inaccettabile perché il riferimento è a centinaia di migliaia di persone che producono notizia sia perché scendono in piazza sia perché determinano una dialettica politica addirittura col Governo e la Confindustria. Si tratta, dunque, di notizie importanti da dare e la mia concezione da giornalista dell'articolazione sociale del paese non deve intervenire nell'informazione da servizio pubblico che rendo. In un altro contesto, in un'altra testata, su un altro mezzo di comunicazione sarei liberissimo di fare quel che ritenessi di fare.

E' soltanto un esempio, che potrebbe però riversarsi sul resto della realtà politica, sociale e culturale perché lo stesso atteggiamento si può esprimere attraverso un filone culturale presente nel paese. Qui a mio avviso sta la differenza che connota l'attività giornalistica ed informativa, collega Raffaelli, svolta nel servizio pubblico. Se un giornalista vuole diventare direttore di una testata pubblica deve essere consapevole anche dei limiti, anzi direi delle caratteristiche, di un'attività professionale di tipo diverso.

In conclusione, vorrei porre ai direttori alcune sintetiche domande. La prima si riferisce ad un'affermazione del direttore Rizzo Nervo; torno sull'argomento delle assunzioni perché vorrei sapere se i direttori abbiano avuto un freno, un ostacolo nella loro attività dalla natura della composizione dei corpi redazionali. Il direttore Rizzo Nervo diceva: se fossero operate assunzioni migliori anche il servizio pubblico sarebbe professionalmente migliore. Avete incontrato un problema di composizione di corpi redazionali nella vostra iniziativa professionale?

La seconda domanda riguarda le pressioni e le proteste: sono note quelle di esponenti politici e partiti, ma voglio chiedervi se vi sono analoghe pressioni da parte di altri settori sociali, sindacali, imprenditoriali, economici, aziendali o di altri poteri. In sostanza, vi chiedo se sentite "il fiato sul collo" solo dei politici e dei partiti, o anche di altri poteri della società.

La terza domanda riguarda un argomento già introdotto, sul quale vi prego di intervenire nuovamente, quello del bipartitismo e del bipolarismo. Vi è una vostra tendenza prevalente alla lettura della politica italiana secondo uno schema bipartitico, che non corrisponde alla natura del nostro sistema, che è di tipo bipolare, almeno finora. Vi domando quindi come intendete risolvere il problema di dare conto delle coalizioni ma nel contempo anche delle forze che le compongono.

FRANCESCO SERVELLO. Signor presidente, sull'ordine dei lavori: francamente sono sorpreso per l'andamento di questa seduta, perché come membri della commissione deputati e senatori abbiamo ascoltato con interesse il relatore ed abbiamo ricevuto il suo documento, su cui si sta discutendo, ma ora continuiamo ad attendere di poter parlare mentre il relatore si è nuovamente inserito nel dibattito. Francamente questo è inconsueto in qualsiasi aula parlamentare: il relatore in quanto tale ha diritto di intervenire (come notava Falomi nella precedente seduta, abbiamo innovato creando questa figura per il nostro dibattito), ma non può inserirsi continuamente nel dibattito e magari avere anche alla fine il diritto di replica. Si mettono così in coda i peones della Commissione, il che francamente non mi garba, per cui spero che nelle successive audizioni si possa normalizzare questo tipo di procedura.

PRESIDENTE. Senatore Servello, colgo lo spirito, spero costruttivo, del suo intervento, ma le devo far rilevare che, per previsione regolamentare,il relatore ha diritto di intervenire ogni qual volta chieda la parola: questo accade in tutte le Commissioni. Non mi sembra, comunque, una questione su cui si debba aprire un caso politico: con la posizione della sua questione, fra l'altro, ha già portato via cinque minuti alla nostra discussione.

FRANCESCO SERVELLO. Se avverto certi problemi, ritengo giusto farli presenti!

PRESIDENTE. Evidentemente è la sua esperienza parlamentare che le detta questo comportamento.

Proseguiamo il nostro dibattito.

STEFANO PASSIGLI. Posso assicurare il presidente che non mi sento un peone: ritengo anzi che sia stata utile, anche se forse irrituale, l'ulteriore intervento di Paissan nella discussione, perché ha confortato un'impressione che avevo già avuto leggendo la relazione e verificando i consensi che essa ha incontrato in numerosi interventi.

Della relazione Paissan, ho apprezzato la misura, l'analiticità, l'articolazione ma ho qualche dubbio sulla sua impostazione di fondo, che credo vada nella direzione di una lettura dei nostri compiti (parlo di compiti piuttosto che di poteri per non ancorarmi ad una lettura formale delle funzioni di questa Commissione) che mi sembra discutibile. Veniva giustamente osservato che dovremmo enfatizzare di più i compiti di indirizzo e di direttiva piuttosto che quelli di controllo e di vigilanza: su questo sono senz'altro d'accordo. Tuttavia, anche nell'interpretare i poteri di indirizzo e di direttiva, dobbiamo intenderci molto bene su quale sia la funzione della nostra Commissione: vi è stata una tendenza, per esempio da parte della presidenza, non nei lavori della Commissione ma in sede di proposta, a configurare un ritorno ad un ruolo molto pervasivo della Commissione nella nomina o nella revoca del consiglio di amministrazione. Questa lettura del presidente posso in qualche modo rinvenirla anche nella relazione del vicepresidente, perché quando si tende a definire il pluralismo (come ha fatto Paissan) in maniera molto articolata, alla fine si tende comunque a scivolare verso il rischio di tradurre il pluralismo in quote partitiche (inevitabilmente, essendo questo un organismo politico e parlamentare). Si rischia quindi di scivolare verso una visione parcellizzata del pluralismo, lungo linee di appartenenza, quindi verso un manuale Cencelli dell'informazione televisiva. Questo è ovviamente il rischio estremo e non credo che rientri nelle intenzioni di Paissan, ma si può però scivolare in questa direzione, soprattutto se essa trova conforto in una visione espansiva dei compiti della Commissione.

Non credo, quindi, che gli indirizzi possano essere vincolanti: si può parlare di direttive per riaffermare valori, procedure, enunciazioni di punti cui ricondurre continuamente il controllo su come viene svolta l'attività dei direttori delle testate, ma non certo di quote. Mi sembra, invece, che sia questo il rischio insito in molti interventi, in molte letture della relazione Paissan e non vorrei che ciò si traducesse nel documento finale. Sono quindi indotto ad enunciare una perplessità ancora più radicale su come intendiamo il concetto di pluralismo: il terreno è minato, perché la parola è abusata, può voler dire tante cose e, appena si esce dalle definizioni giuridiche precise, può significare tutto e nulla.

Mi ha colpito, nell'ambito delle relazioni dei direttori, un riferimento di Lucia Annunziata alla necessità di tenere presente la componente sistemica nella quale si muove l'informazione televisiva. A me sembra che il pluralismo abbia un senso se lo concepiamo in presenza, se non di una cultura dominante, almeno di una cultura politica nazionale ampiamente condivisa, che poi significa articolazioni in forze politiche diverse ma con un forte senso di cultura politica comune che certi sistemi politici hanno; ha senso completamente diverso se ci muoviamo in culture politiche frammentate, con scontri ancora abbastanza forti fra subculture. Oggi non siamo più alla guerra delle ideologie, alle subculture ideologiche che questo paese ha conosciuto in certi momenti, ma credo che siamo ancora ben lontani dall'avere un corpo di valori e comportamenti ben definito e condiviso, che poi è alla base dei sistemi maggioritari.

Probabilmente abbiamo adottato alcuni aspetti della cultura del sistema maggioritario, dimenticandoci altri aspetti istituzionali: su questo spero che la Commissione porrà mano. Sicuramente, però, nel nostro paese, non abbiamo ancora una cultura politica del maggioritario: forse la stiamo costruendo, visto che qualche tempo fa i confronti in questa stessa Commissione erano ben più accesi, ma ancora non ci siamo. In questo contesto, abbiamo, da un lato, la possibilità di considerare il pluralismo come un processo nella direzione della formazione di una cultura omogenea, in cui il pluralismo è l'apporto delle varie componenti alla creazione di una cultura comune e di un patrimonio di valori politici, che comprende l'accettazione di procedure comuni, eccetera; oppure, dall'altro lato, il pluralismo considerato come sostanza è la difesa di tutte le diverse espressioni di minoranza che esistono in una società.

Un conto è valorizzare l'apporto alla creazione di culture comuni, il che comporta di ignorare, in taluni casi, certe minoranze, come inevitabilmente avviene con le scelte di chi fa informazione. Noi tutti saremmo disposti ad affermare che il New York Times è un grandissimo giornale, ed esso porta in testata l'affermazione All the news that fit to print, per la quale, appunto, le notizie non sono tutte uguali e si pesano diversamente in redazione per compiere delle scelte. Nessuno sosterrebbe, però, che il New York Times è un giornale di parte: viene anzi normalmente considerato come uno dei grandi giornali di libera informazione. Un altro conto è, invece, intendere il pluralismo come una sostanza assoluta, per cui devono essere difese tutte le posizioni minoritarie che esistono: compito del servizio pubblico, allora, è darsi un manuale Cencelli ed applicarlo.

A mio avviso, va considerata appunto la componente sistemica (facevo per questo riferimento ad un'affermazione di Lucia Annunziata). Se consideriamo il contesto in cui ci troviamo (non voglio ripetere l'abusatissima frase: "Fatta l'Italia dobbiamo fare gli italiani"), è vero che in una cultura del maggioritario vi è la necessitò di sottolineare punti comuni e di non dare troppo spazio alle divergenze. Un grande costituzionalista inglese, Bagehot, affermava che ci si può permettere di dissentire perché si è fondamentalmente uniti: questa fondamentale unità, in Italia, ancora non l'abbiamo realizzata affatto. Il nostro è un paese con comportamenti violentemente contrapposti, di illegalità diffuse, che trovano forti sostegni sociali (basti pensare all'evasione fiscale). In questo contesto, il pluralismo può essere inteso come difesa delle posizioni sostantive, quindi come diritto di tribuna e di espressione di tutte le posizioni che appaiano anche estremamente minoritarie, sulla base di una allocazione il più possibile quantitativamente esatta: non credo che sia questa la funzione del servizio pubblico.

Se questo è il caso, ovviamente i margini di discrezionalità di chi fa informazione sono più ampi di quelli che la stessa relazione Paissan vorrebbe riconoscere, indipendentemente dalla professionalità, proprio per l'assegnazione di un compito al servizio pubblico. Ed allora, il compito di indirizzo della nostra Commissione è il controllo sul rispetto delle grandi regole, non la verifica che non sia stata conculcata alcuna individualità, o voce. Semmai, se si può muovere un rimprovero ai direttori, non credo sia quello di non dare voce a mille diversità e appartenenze, ma quello di essere troppo italocentrici, con un occhio troppo continuamente attento alla politica del Palazzo, cioè alla politica interna: mi sembra, però, che la relazione possa spingerli ancor più in questa direzione. Se vedo una grande mancanza comune alle varie testate, è nella sottorappresentazione degli avvenimenti internazionali, sistematica rispetto ad altri paesi (e questo è vero anche per la stampa italiana).

Avrei quindi qualche riserva nei confronti della relazione, non del suo spirito o dei suoi obiettivi, ma di alcune sue formulazioni: credo, soprattutto, che non ne vada sottolineata la tendenza (che vedo invece implicita, per lo meno nella lettura che ne è stata data da molti interventi) a scivolare verso il manuale allocativo di quote. A questo dobbiamo stare molto attenti.

RICCARDO DE CORATO. Vorrei ricordare a me stesso i motivi per i quali la Commissione ha disposto l'audizione dei direttori di testata ed ha attribuire all'onorevole Paissan l'incarico di predisporre una proposta di direttiva (considerato che l'unica, reale direttiva della quale si possa parlare in questo momento è, a mio avviso, proprio quella illustrata dal relatore).

Il dato comunemente accertato è che in RAI si registra un deficit di pluralismo, che va commisurato a seconda delle varie testate ma che comunque esiste, così come tra l'altro attestano il Presidente della Repubblica, il Garante per l'editoria e, non ultima, questa Commissione che, in modo quasi unanime, ha approvato un documento - cosa che non era mai accaduta negli ultimi tre anni, nonostante gli attacchi portati in passato alla gestione Moratti - dal quale si desume come sia proprio questo il dato dal quale partire. Da parte dell'azienda e dei direttori di testata la risposta all'esigenza sottesa al problema è consistita in un documento di sei paginette che, al massimo, possono essere considerato un saggio, mentre avrebbe dovuto trattarsi di una direttiva non generica. In realtà, ci siamo trovati di fronte ad una serie di dati scontati, di affermazioni che anche un bambino della quinta elementare avrebbe potuto mettere insieme: niente di più!

Poco fa l'onorevole Paissan ha parlato di nervosismo in alcuni di voi; di fastidio, ha invece parlato il presidente della Commissione in alcune interviste rilasciate questa mattina. In tale contesto, vorremmo che ci indicaste, nella nostra funzione di membri di Commissione parlamentare di vigilanza su un'azienda di Stato, quali siano i termini di paragone ai quali ritenete si debba fare riferimento in materia di pluralismo. Sorgi, per esempio, ha escluso che il parametro possa essere quello della quantificazione temporale, ma non ci ha indicato altri elementi. Quanto alla buona fede, potrei citare alcuni esempi che dimostrano come non ci si sia attenuti a tale principio. Penso, per esempio, alla questione riguardante i vicedirettori della sua testata: non intendo soffermarmi in modo specifico su questo argomento, anche perché tutti conosciamo benissimo il nome di coloro i quali hanno pagato il prezzo dell'omogeneizzazione della testata ai vincitori delle ultime elezioni. Addirittura, il 3 gennaio scorso il TG1 delle 13,30 ha fatto un peana a l'Unità, annunciando che l'edizione del giorno successivo sarebbe stata messa in vendita insieme alla videocassetta di un film di Marilyn Monroe.

FRANCESCO SERVELLO. Il peana era per Marilyn Monroe?

RICCARDO DE CORATO. Il peana era per l'Unità; se fosse stato riferito a Marilyn Monroe credo che nessuno avrebbe avuto da ridire (Commenti).

E che dire poi delle testate regionali? Mi dispiace che sia andato via il mio amico Bosco, al quale avrei voluto ricordare che la testata regionale della Lombardia ha addirittura celebrato il compleanno dell'onorevole Bossi, trasmettendo una serie di immagini sull'avvenimento. Mi auguro che anche la testata regionale della Puglia celebri il compleanno di D'Alema e che il compleanno di Fini sia ricordato dai TG regionali del Lazio o dell'Emilia Romagna!

Quanto alla professionalità, non bisogna dimenticare che oggi sono parcheggiati in RAI numerosi direttori di giornali. Sulla professionalità - non sulla sua, direttore Sorgi - potremmo discutere a lungo. Sta di fatto che, almeno per quanto ci riguarda, i paradigmi ai quali fare riferimento non possono essere né la buona fede né la professionalità.

Da parte vostra è stato rivolto un attacco, nemmeno tanto sotterraneo, all'Osservatorio di Pavia. Vorrei ricordare che l'intervento dell'Osservatorio fu invocato con la consapevolezza della estrema neutralità di questo istituto. Intendo dire che buona fede e professionalità possono anche essere parametri a cui riferirsi, ma non certo gli unici. Non è certo nostra intenzione chiedere, riprendendo il modello della BBC, la predisposizione di un codice per le interviste. Credo che, se avanzassimo un'ipotesi di questo genere, assisteremmo ad una sollevazione popolare dei consigli di amministrazione e dell'USIGRAI. Del resto, ad una rivolta popolare abbiamo assistito quando il Parlamento, su impulso di questa Commissione, ha votato un decreto-legge finalizzato ad attribuire a quest'ultima ulteriori poteri. Abbiamo tutti assistito alle recriminazioni e visto i siluri lanciati nel momento in cui il Parlamento era impegnato nell'esame del provvedimento, a fine dicembre: si è trattato di una serie di operazioni finalizzate all'unico scopo di impedire che il Parlamento potesse, attraverso questa Commissione, intervenire su alcune questioni interne alla RAI.

Annunziata ha sostenuto che in RAI si riscontra un livello di forte qualificazione del personale. Non posso non ricordare come le assunzioni in RAI, per cinquant'anni, siano state condizionate da via del Corso, da piazza del Gesù o da Botteghe Oscure. Oggi un nuovo direttore di testata deve quindi fare i conti con redazioni qualificate fortemente in una certa direzione. Per cinquant'anni, infatti, si è proceduto in questo modo ed i concorsi sono stati rarissimi.

Ho idee molto diverse da quelle di Paissan sulla questione dei metalmeccanici. Sono eletto a Milano e so benissimo che quella dei metalmeccanici è una categoria che oggi non determina più grossi sconvolgimenti nel paese, non essendo più una realtà forte come lo era quindici anni fa. Si tratta, quindi, di una realtà che va misurata per quella che è, evitando sia di attribuirgli un significato superiore a quello reale sia di squalificarla. Sotto questo profilo, considero perfetto il ragionamento dell'Annunziata. Quindici anni fa i metalmeccanici erano una categoria forte, non perché bloccasse i convogli ferroviari o le autostrade ma perché rappresentava una realtà del paese che oggi non esiste più. Certo, mi rendo conto della difficoltà di creare spazio per queste tesi in una redazione strutturata in un certo modo (non intendo certo richiamare riferimenti a Telekabul)...

In definitiva, avreste dovuto esprimere la vostra valutazione sui contenuti di una relazione dalla quale prenderanno corpo precise direttive.

Annunziata ha sostenuto che i dati Auditel sono una cosa terribile. Mi rendo conto della difficoltà di realizzare una trasmissione quando, dopo poche ore dalla sua messa in onda, si sa che saranno comunicati i dati di ascolto. Dal canto suo, però, la RAI dovrebbe rendersi conto che rastrella 1500 miliardi di pubblicità sul mercato e chiede 2500 miliardi di canone, oltre a continui ripianamenti di bilancio. E' evidente che in tali condizioni il direttore di testata incontra grosse difficoltà. Il problema vero è che questa azienda chiede molto ai cittadini italiani in termini monetari.

Quanto alle redazioni regionali, consegnerò al dottor Rizzo Nervo il testo di un'interrogazione parlamentare sottoscritta da 48 senatori del Polo con riferimento alla redazione della Basilicata. Il problema delle testate regionali è molto grave perché, mentre i TG nazionali devono fare i conti con un monitoraggio settimanale, nelle redazioni regionali accade di tutto proprio perché non vi è alcun controllo su ciò che accade. Si comprende perfettamente, ad esempio, quali siano i servizi prodotti dalla testata regionale e successivamente riversati sulle reti nazionali. Tali servizi sono infatti ispirati alla chiara impostazione del PDS e dell'Ulivo, in molti casi a quella di rifondazione. Il dottor Rizzo Nervo dovrebbe preoccuparsi molto più approfonditamente di questa situazione.

In Lombardia, forza Italia ha istituito un proprio osservatorio sul TG regionale. Ritengo però che tutta la situazione delle venti redazioni regionali sia pesantemente squilibrata. Per averne un'idea, basterebbe limitarsi alle segnalazioni ed alle denunce contenute nelle interrogazioni parlamentari, che rivelano una situazione particolarmente squilibrata. Stia molto attento, dottor Rizzo Nervo, perché sulle redazioni regionali non viene esercitato alcun controllo, non solo da parte nostra ma anche da parte sua! Mi rendo conto che la realtà regionale è molto vasta e che quindi è difficile esercitare un controllo. Anche in questo caso, però, va valutato con attenzione il criterio del minutaggio, con particolare riferimento a realtà politicamente sclerotizzate. A Milano, ad esempio, la lega rappresenta soltanto l'8-9 per cento ma dispone di spazi amplissimi rispetto al suo livello di rappresentanza. Non sto parlando del nord-est né della situazione delle valli bergamasche: parlo di Milano città dove la lega - ripeto - a fronte di una percentuale di voti modesta si vede assicurato un ampio spazio. Tra breve si svolgeranno le votazioni per la elezione del nuovo sindaco di Milano, che vedranno scomparire una certa realtà della lega; eppure, il TGR della Lombardia non ha ancora chiaro questo dato! Ho già detto, tra l'altro, che in occasione del compleanno di Bossi sono state effettuate riprese per due-tre minuti! Occorre, in definitiva, prestare molta attenzione alla situazione riscontrabile in ambito regionale e dare la giusta importanza alle interrogazioni parlamentari ad essa riferite.

PRESIDENTE. Il discorso sul monitoraggio, nella prospettiva della predisposizione degli indirizzi che dovranno essere forniti da questa Commissione, dovrà riguardare anche il Giornale radio.

PIERGIORGIO BERGONZI. Credo che quando si parla di pluralismo - vi ha fatto un cenno il dottor Sorgi nella sua introduzione - si debbano fare i conti con un concetto molto ampio, che non riguarda soltanto la RAI ma tutto il sistema di informazione del nostro paese e che ha a che fare direttamente con la democrazia, dal momento che oggi i mezzi di informazione, soprattutto la televisione, determinano modi di pensare e orientamenti culturali. Quindi, credo che questa Commissione di vigilanza e di indirizzo non debba nascondersi dietro la facile motivazione che a noi spetta interessarci del pluralismo nel servizio pubblico e basta. Se così fosse, infatti, lo faremmo in modo parziale e sbagliato, parlando del pluralismo nel servizio pubblico televisivo in modo strumentale e magari esclusivamente in termini di minutaggio. Credo che questo costituisca il modo più sbagliato per affrontare il problema.

Già alcuni direttori, nella loro introduzione, hanno parlato del cambiamento radicale che si è verificato - lo ha citato anche il collega Paissan - nel sistema dell'informazione del nostro paese nel momento in cui si è passati dal monopolio pubblico ad un sistema misto pubblico e privato. Oggi siamo di fronte a due monopoli, e quindi il primo problema che si pone nel nostro paese è quello del pluralismo della proprietà: questo è il primo, grande problema, che poi influenza l'altro tipo di pluralismo. Credo che, da questo punto di vista, fino a quando non avremo dato una risposta al primo problema, cioè quello del pluralismo della proprietà - consentitemi di ricordare che finora il Parlamento ha dato una risposta profondamente sbagliata con l'ultima legge che ha votato -, ci troveremo sempre in enormi difficoltà a determinare un pluralismo dell'informazione che sia davvero tale.

Ho fatto questa premessa perché ritengo che altrimenti affronteremmo il tema del pluralismo in termini sbagliati. E' vero, per esempio, che il sistema informativo pubblico ha doveri di pluralismo qualitativamente diversi da quelli del sistema informativo privato, ma la legge Mammì prevede il pluralismo di tutta l'informazione, e non soltanto del servizio pubblico. Voglio fare un'ipotesi assurda, presidente: se, nel nostro paese, il sistema dell'informazione pubblico fosse di dimensioni molto minori rispetto ad ora, e quindi non fosse in grado di farsi carico, in una certa misura, dei limiti e dell'anomalia del pluralismo proprietario del nostro paese - perché questo fa oggi il nostro sistema di informazione pubblica - cosa accadrebbe? Da quattro a cinque anni a questa parte il servizio pubblico, per garantire un valore generale quale il pluralismo, un valore fondamentale di democrazia, deve farsi carico di qualcosa di cui non doveva farsi carico precedentemente, e cioè dell'anomalia del pluralismo proprietario: questa è la questione fondamentale. Esso deve farsi carico del pluralismo che viene a mancare altrove.

PRESIDENTE. Qui non c'è Emilio Fede...

PIERGIORGIO BERGONZI. Lo so, presidente, ma perché qui ci devono essere i direttori dei telegiornali del servizio pubblico - e io capisco le loro difficoltà - mentre nessuna autorità si prende la briga di parlare di pluralismo ai vari Emilio Fede e ai vari Liguori? Non è una questione di democrazia, questa? Questo è il problema! E perché il garante per l'editoria in campagna elettorale manda lettere solo al servizio informativo pubblico? Ha sbagliato, ha tutti i suoi limiti, non è un sistema pluralistico come lo voglio io, perché lo vorrei completamente diverso (la prima contestazione che rivolgo è al modo lottizzatorio in cui si è formato, per quanto riguarda le nomine e altro, il sistema pubblico). Noi dobbiamo ascoltare in questa sede i direttori dei telegiornali della RAI: e gli altri? Vista l'entità del sistema informativo privato di oggi, gli altri potrebbero vanificare, e lo fanno in larga misura, anche l'operazione pluralista del servizio informativo pubblico. Ripeto: perché il garante per l'editoria, che ha richiamato in così larga misura il servizio informativo pubblico in campagna elettorale - avendo in buona parte ragione - non ha fatto altrettanto nei confronti del sistema informativo privato, pur essendoci mille ragioni per farlo?

PRESIDENTE. Chiedo scusa, ma è una questione di competenze. Il garante per l'editoria e la radiodiffusione avvisa la nostra Commissione per quanto riguarda il servizio pubblico. Non sappiamo se non l'ha fatto.

PIERGIORGIO BERGONZI. Lo sappiamo, presidente. Sappiamo quello che ha fatto per il servizio pubblico, ma ci risulta che non è successo niente per il servizio privato.

PRESIDENTE. Ma non è tenuto a comunicarcelo.

PIERGIORGIO BERGONZI. Ho capito, presidente, ma se avesse compiuto un'azione efficace sarebbe risultato. Cerchiamo di verificare se sia stato fatto o meno, ma ne dubito: comunque, avrei piacere di essere smentito.

Credo, dunque, che dobbiamo partire da questa situazione. Non condivido molte delle osservazioni dei direttori, soprattutto per quanto si riferisce ad una sorta di rifiuto aprioristico - uso un brutto termine - nei confronti di un controllo, o meglio di una verifica. Non le condivido perché sono sbagliate dal punto di vista generale: loro operano in un servizio pubblico - ma, secondo me, questo dovrebbe valere anche per il servizio privato - e ho l'impressione che la mancanza di verifiche e di controlli vada anche a loro danno.

Pur non condividendo, perciò, queste posizioni, se mi metto nei loro panni, e in quelli di chi dice che una legge che vale per tutti prevede il pluralismo dell'informazione, mi domanderei: perché dovrei sottomettermi a queste verifiche mentre altri non devono farlo? Si pone una questione di professionalità. Queste questioni di principio fondamentali sono nate perché alla radice vi è l'anomalia di cui ho parlato prima. Ogni giornalista ha le sue idee e il suo modo di pensare e una sua concezione della società: ha idee politiche, culturali, sull'evolversi della realtà. Inevitabilmente, ognuno, nel migliore dei casi (cioè al di fuori delle lottizzazioni politiche, di partito), nello svolgimento della sua professione, per quanto si sforzi di essere il più professionale e il più obiettivo possibile, rischia di trasmettere il suo pensiero, la sua opinione, e spesso li trasmette. Mi sembra che l'esempio portato dalla dottoressa Annunziata sia calzante: ha avuto l'onestà di dire con tutta chiarezza come la pensava sui metalmeccanici. E' un'idea che io non condivido assolutamente, perché se i metalmeccanici fossero una categoria così marginale non si capirebbero le grandi difficoltà nel concludere il contratto di lavoro. Non gli si vuol dare una briciola di stipendio in più, e questa è una contraddizione forte nel complesso della nostra società: è il segno che su quel contratto si gioca una partita politica ed economica decisiva da parte di forze economiche - il padronato - potenti nel nostro paese. Ma non voglio entrare nel merito di questo problema.

PRESIDENTE. Anche perché dovrebbe concludere.

PIERGIORGIO BERGONZI. Va bene, presidente, mi conceda ancora pochi minuti. La dottoressa Annunziata ha avuto l'onestà di dire la sua opinione. Ma essa non può essere l'opinione che ispira una programmazione della RAI: vi sono opinioni diverse in materia. Ecco allora la necessità del controllo e della verifica.

I partiti: credo che non dobbiamo avere la preoccupazione di rispondere al minutaggio per i partiti prima di tutto; dobbiamo avere la consapevolezza che dobbiamo rispondere ai diritti del telespettatore, del cittadino, al suo diritto di democrazia. Questo significa presentare nel modo più obiettivo e pluralistico possibile le varie realtà. E i partiti, in base alla nostra Costituzione, se non in base alla nostra realtà oggettiva, sono ciò che più rappresenta il modo di pensare della grande maggioranza dei cittadini del nostro paese. E' questa la ragione per cui si pone la questione dei partiti, delle forze politiche intese in questo senso.

Ritengo che la massima pluralità debba manifestarsi nell'informazione radiotelevisiva pubblica e privata, e in primo luogo in quella pubblica. Ma qui ho sentito tendenze che vanno in un'altra direzione: quella di parlare, più che di pluralismo, di bipolarismo dell'informazione. Credo, invece, che fin quando vi sarà, come vi è, grande pluralità nella nostra società, essa debba essere rappresentata in tutte le sue possibili istanze.

Per accogliere l'invito del presidente, mi riservo d'intervenire nel corso della discussione generale che suppongo si svolgerà.

PRESIDENTE. Vi è anche l'audizione di questa sera.

PIERGIORGIO BERGONZI. Vi è una proposta che voglio avanzare. Credo che i controlli e le verifiche dell'osservatorio di Pavia debbano essere fatti ma debbano essere più qualificati, senza essere svolti in maniera strumentale, o col bilancino, di settimana in settimana. Credo, per esempio, che dobbiamo valutare - facendo la richiesta all'osservatorio di Pavia - quale sia la metodologia che porta a stabilire un dato spesso non valutato sufficientemente, cioè l'indice di favore o di sfavore delle trasmissioni in cui si parla di una o dell'altra forza politica. Inoltre, un elemento fondamentale che manca nei dati dell'osservatorio di Pavia è il collegamento fra lo share delle varie trasmissioni e il minutaggio dedicato alle varie forze e alle varie componenti. Lo abbiamo detto mille volte: ha un valore diverso dedicare uno spazio ad una forza politica nel TG delle 20, o comunque nel TG1, che ha un'audience di un certo tipo piuttosto che a mezzanotte o in un TG con un'audience inferiore. Credo che i dati dell'osservatorio di Pavia siano troppo rozzi per riuscire a stabilire se esista o meno un pluralismo effettivo. Non desidero un pluralismo fatto soltanto di dati e di numeri, perché occorre innanzitutto professionalità, ma anche al giornalista...

PRESIDENTE. La prego di concludere, senatore Bergonzi.

PIERGIORGIO BERGONZI. Serve come elemento, diciamo così, di determinazione oggettiva. Non vedo quali altri elementi di determinazione oggettiva possano esservi; cerchiamo di utilizzarlo nel modo migliore e più intelligente ed in modo tale che possa conciliarsi nella misura più ampia possibile con la professionalità del giornalista: anzi, in maniera tale da costituire un incentivo.

Avviandomi davvero alla conclusione, desidero esprimere alcune osservazioni su rifondazione comunista. Vi prego di perdonarmi, ma sembra davvero che questo partito sia diventato il padrone della RAI TV in Italia; rispetto al passato vi è una piccola differenza: allora esisteva nei suoi confronti una discriminazione esplicita, mentre adesso è un po' meno discriminato. Se però leggiamo i dati relativi, vediamo che lo spazio destinato al partito non è quello che ad esso spetta, ma corrisponde a quello dedicato ad esempio alla lega. Credo che a rifondazione comunista, come a tutte le altre forze politiche, debba essere riconosciuto uno spazio per quel che tale formazione rappresenta davvero nella società. Quindi, raccolgo la provocazione (che a mio avviso non è tale) del dottor Sorgi, il quale chiede: cosa dobbiamo fare: dobbiamo rappresentare le forze in maniera proporzionale? Io credo proprio di sì, ma non nel senso di dar conto dei minuti; l'informazione radiotelevisiva deve rappresentare nel modo più diffuso possibile le diverse realtà esistenti nella società. Sotto tale profilo, credo che, anziché rappresentare le diverse forze politiche e sociali secondo i criteri del palazzo, le si debba rappresentare sulla base del consenso che hanno nel paese, secondo ciò che esse rappresentano nel paese.

PRESIDENTE. Dico al senatore Bergonzi - e vale per tutti - che ovviamente nel documento di indirizzo nulla impedirà alla Commissione di chiedere alla RAI, per quanto riguarda l'osservatorio di Pavia, di prevedere una diversa ripartizione del rilevamento dei dati, ad esempio per fasce orarie. Comunque, il punto sarà esaminato nel corso della discussione generale.

FRANCESCO SERVELLO. Desidero fare innanzitutto riferimento all'analisi storico politica compiuta nella precedente seduta dalla dottoressa Lucia Annunziata, quando ha sostenuto che siamo in una fase di transizione politico costituzionale (così credo di aver capito) dallo Stato etico allo Stato dei cittadini. Posso anche ritrovarmi in tale analisi, sia pure per linee molto generali. La mia domanda è la seguente. Voi ritenete, come direttori, che la RAI sia aperta a tale transizione? Che sia adeguata nella capacità professionale, nell'apertura culturale o che sia, viceversa, ferma? Il quotidiano l'Unità, uno dei giornali che fanno capo alla maggioranza di Governo, ha titolato: "I direttori dei TG: ci volete ingessare" (il rilievo era rivolto a noi). Io però mi domando se non sia un po' ingessata la RAI dal punto di vista culturale. Do ragione, anche se non voglio comprometterla, alla dottoressa Annunziata per quel che ha detto nella precedente seduta e che colleghi qui presenti hanno fatto finta di non capire. La giornalista non si è pronunciata contro i metalmeccanici, ci mancherebbe altro! E' troppo intelligente per commettere un errore di questo tipo; ha voluto esemplificare come molte volte ci si trovi nella difficoltà di compiere talune scelte e, soprattutto, di graduarle secondo principi di priorità. Ad esempio, se ho scarsa conoscenza di un problema, in un determinato momento non ne avverto tutta l'importanza e mi sento spinto da una redazione che la pensa in modo esattamente contrario, magari anche con ragione o con una parte di ragione.

Io penso che voi, cari direttori, siate in stato d'assedio non tanto in ragione delle vostre convinzioni - che rispetto - ma a causa del personale giornalistico, politico, che fa parte delle vostre strutture e che è stato "selezionato" secondo determinati criteri (che non voglio ora definire) nel corso di molti anni, come da parecchie parti è stato già osservato. Ecco quindi perché do ancora ragione a Lucia Annunziata quando, sbagliando, programma delle serate per l'Ulivo e per il Polo. Ripeto, a mio avviso ciò è sbagliato. Cosa è successo qualche giorno fa? Una serata intera dedicata all'Ulivo, dicevo: ma può essere pluralista una trasmissione in cui uno degli attori principali è il giornalista Mannoni, del quale conosciamo bene il tipo di cultura politica, le partecipazioni politiche, le frequentazioni e quant'altro? E' arrivato al punto di citare la chiesa nella quale va a ricevere la Comunione il Presidente Prodi: mi sembra un po' troppo, in una situazione di questa natura! Una volta si apponevano targhe alla casa natale di Verdi o di Alessandro Manzoni; ripeto, mi sembra un po' troppo!

Mi rivolgo al dottor Sorgi: la questione della professionalità va difesa, come faccio io (ho celebrato il cinquantesimo anniversario della mia professione di giornalista, ricevendo fra l'altro una medaglia d'oro, non so quanto meritata). Però la non professionalità alle volte è rappresentata dal fatto che, per spinte interne, sono compiute alcune scelte ed effettuati taluni interventi. Quante volte ho visto un giornalista che di fronte, all'onorevole Fini, ad esempio, insinua, spinge, intervista in maniera non sempre non dico anodina, ma obiettiva! L'altra sera ad alcuni giornalisti ho replicato: "Ma insomma, debbo dire per forza quello che voi volete?"; ecco, la professionalità trova un limite nella propria "cultura".

Occorre pertanto uscire da questo accerchiamento, e non certo con il pluralismo del senatore Bergonzi, che è quello non solo di Fidel Castro che dovrebbe apparire tutti i giorni sugli schermi...

FRANCESCO DE CORATO. O di Marcos.

FRANCESCO SERVELLO. O di Marcos. Il senatore Bergonzi ha chiesto al presidente della RAI - l'ho letto su La Stampa di Torino - la sospensione della messa in onda della trasmissione radiofonica La voce dei vinti (prima rete), costruita sulle testimonianze. Ebbene, non si vogliono neppure le testimonianze di un certo periodo storico, che io penso siano da diffondere per informazione della gente, dei giovani, per far sapere cosa è successo in un certa epoca, che può essere presentata in un modo o nell'altro. Ma voler impedire anche questo significa che, da parte di qualcuno, si vuole dar vita ad un pluralismo unilaterale, per non dire qualcosa di peggio.

Dunque, fino a quando non si uscirà dalla logica delle assunzioni operate dai vertici e non si stabiliranno criteri di selezione attraverso concorsi non vi sarà niente da fare: la RAI è questa, continuerà ad essere questa, interverremo in maniera pesante per questa o quella trasmissione (che magari sarà scandalosa dal punto di vista dell'informazione politica); però, la vita là dentro è così! Non si sta cambiando assolutamente nulla, neppure in termini di collaboratori, di selezione dei servizi, di appalti! Permangono le stesse logiche! Lo dirò al presidente ed al direttore generale, farò nomi precisi, quando sarà possibile, il che non vuol dire che non si possa far nulla. E mi permetto di far presente che non ci rivolgiamo unicamente alla buona volontà; certo, la buona volontà di ognuno di voi può anche portare a risultati apprezzabili, però le scelte quotidiane molte volte sono influenzate da chi, in quel momento, è l'operatore, e ciò anche nel modo di presentare le notizie. Mi riferisco pure alle trasmissioni regionali, che assumono importanza eccezionale in quanto con l'avvento del sistema uninominale intere aree di province non vengono affatto servite. Normalmente è facile fare la cronaca - anche distorta - del capoluogo; ma tutto il resto è ignorato in un panorama dell'etere che non è più quello di cinque o dieci anni fa, stante la scomparsa progressiva e continua delle vecchie realtà radiofoniche e televisive: di conseguenza, il servizio della terza rete regionale è estremamente importante.

Mi avvio alla conclusione. Noi riteniamo che occorrerebbe un processo di formazione interna di una cultura pluralista; questo è il punto: la professionalità, inserita però in una spinta che deve essere oggetto all'interno della RAI di preoccupazione ed impegno.

Quanto all'insieme dell'impegno istituzionale e sociale, mi auguro che voi vi dirigiate nella direzione - da parecchie parti sottolineata - di un maggiore rispetto delle minoranze etniche, politiche, sociali, religiose, cioè di tutti i valori che riguardano il cittadino nella sua complessità. E' un lavoro molto imponente, ma penso che valga la pena di difendere il servizio pubblico se si fa carico, in una fase così complessa della transizione politica e costituzionale, di questi problemi che non sono della Commissione, bensì dell'intero paese.

ANTONIO FALOMI. Ritengo che lo scopo dell' audizione, così come quello delle discussioni che dovremo affrontare sul tema del pluralismo, non sia di arrivare alla definizione di regole e prescrizioni circa il comportamento dei direttori di rete o di testata, dei giornalisti del servizio pubblico radiotelevisivo nel confezionare il prodotto di cui sono responsabili. Non credo neppure che il nostro compito - come invece mi è parso di rilevare in molti interventi - sia quello di proporre in questa sede una concezione del pluralismo inteso come ripartizione aritmetica del tempo fra i diversi punti di vista sia politici sia sociali sia culturali (anche se in questa Commissione mi sembra che vi sia una maggiore attenzione sull'aspetto politico partitico che non sul pluralismo in senso ampio, sul quale si deve invece ragionare). Sotto tale profilo trovo anche fuorviante il modo in cui spesso vengono letti i dati forniti dall'osservatorio di Pavia. Quel tipo di rilevazione, che è quantitativa, ha dei limiti, anche se viene compiuto lo sforzo di indicare - oltre ai tempi - il grado di favore o di sfavore con cui le diverse forze politiche sono trattate nei telegiornali, nei notiziari e nelle altre trasmissioni. E' chiaro, però, che se riducessimo la lettura del pluralismo a quel tipo di dati, commetteremmo errori di valutazione molto seri e ci spingeremmo verso una concezione del pluralismo che è di tipo, come dicevo, aritmetico e lottizzatorio dei tempi dell'informazione. Fra l'altro, da questo punto di vista, la nostra Commissione non ha censurato la RAI per deficit di pluralismo, come qui è stato detto, perché il documento che abbiamo approvato prendeva atto dell'esistenza di diversi punti di vista sulla questione del pluralismo della RAI e, al di là delle differenti valutazioni delle diverse componenti della Commissione, indicava principi e valori cui l'informazione dovrebbe riferirsi.

Questa lettura, però, è fuorviante perché intanto va effettuata non settimana per settimana, o mese per mese, ma su un lungo periodo, ed inoltre perché, in realtà, non sono i partiti che determinano il tempo di trasmissione, ma le notizie che determinano il modo in cui i partiti vengono rappresentati: questo è il problema che mi sembra fondamentale. Il punto di partenza non è garantire ai partiti o a qualunque altra formazione sociale un tempo predeterminato, a meno che non si sia in campagna elettorale, quando valgono regole particolari: bisogna dunque partire non dai tempi assegnati ai partiti ma dalle notizie in genere. Se potessi dare un suggerimento, direi che l'osservatorio di Pavia dovrebbe cominciare a fornire dati diversi da quelli attuali, per esempio su quali sono le notizie che vengono date, su quale peso hanno le notizie di politica rispetto a quelle di natura sindacale, o internazionale. Altrimenti, si finisce per dare una visione fuorviante del pluralismo e per costruire campagne, a mio avviso infondate, su un deficit di pluralismo che francamente, anche limitandomi ai dati dell'osservatorio di Pavia in un certo periodo di tempo, non ravviso nei termini in cui la questione è stata qui rappresentata.

Se peraltro si ha questa visione un po' spartitoria del tempo dei partiti, è ovvio che si finisce, scendendo per i rami, a chiedere la spartizione dei direttori, dei vicedirettori, dei redattori e si torna a quel vecchio modo di gestione della RAI caratterizzato da una fortissima interferenza dei partiti nella vita del servizio pubblico radiotelevisivo. Credo, invece, che il problema sia non definire regole e prescrizioni, che giustamente preoccupano i direttori, ma chiarire fra noi e nel rapporto con il servizio pubblico i principi ed i valori di riferimento a cui l'informazione giornalistica del servizio pubblico (e a mio avviso non soltanto del servizio pubblico) dovrebbe ispirarsi. Faremo un lavoro utile in Commissione se, per esempio, crescerà in tutti la consapevolezza che esiste il diritto di chi informa ma anche il diritto di chi viene informato, se crescerà la consapevolezza che la libertà di informazione non è assoluta e indiscriminata ma incontra nel pluralismo un limite. La consapevolezza di questi valori non è traducibile in regole, o in prescrizioni: è semplicemente un sistema di punti di riferimento di ordine molto generale che deve improntare l'informazione. Come Commissione di vigilanza possiamo naturalmente intervenire quando vediamo lesi questi principi e valori nel comportamento concreto, ma francamente non firmerei né voterei alcun documento della Commissione che si proponesse una sorta di codice...

PRESIDENTE. Non sia così definitivo!

ANTONIO FALOMI. Ripeto, forse sarò un po' antipatico e noioso ma mi sforzo di evitare che la Commissione diventi uno strumento di interferenza permanente e quotidiana nella vita del servizio pubblico radiotelevisivo, poiché a me preme soprattutto che questa Commissione indichi indirizzi generali in ordine al principio del pluralismo, alle finalità che la legge le assegna, e non intervenga nella gestione quotidiana dell'azienda.

Credo quindi che un corretto pluralismo non possa essere misurabile nei termini cui pure in questa sede si è fatto riferimento. La trattazione di ogni evento, di ogni notizia chiama in causa dei valori, degli interessi, delle opinioni: si tratta di chiedere una rappresentazione equilibrata di questo insieme di valori, interessi, opinioni determinati da una notizia o da un fatto, distinguendo naturalmente i fatti dalle opinioni. Credo che questa sia l'essenza del pluralismo: in tal senso, per esempio, rispetto alla polemica sui metalmeccanici, vorrei spezzare una lancia in favore della dottoressa Annunziata...

FRANCESCO SERVELLO. Anche tu?

PRESIDENTE. Potremmo essere maliziosi, dal punto di vista politico!

ANTONIO FALOMI. Il punto è questo: se si pretende di rappresentare la vertenza dei metalmeccanici assumendo un punto di vista ideologico come quello che si aveva negli anni settanta, che determinava un forte impatto politico di quel tipo di vertenze, a mio avviso si compie un'operazione non corretta. La visione ideologica dei metalmeccanici è ormai marginale, residuale: certamente questo non vuol dire che la loro vertenza non chiami in causa interessi, valori di migliaia di lavoratori e di imprese, che ovviamente meritano di essere rappresentate dal servizio pubblico radiotelevisivo. Si tratta però, appunto, più che di spartire tempi, di rappresentare, nella scelta delle notizie e nel modo di informare, questo insieme di valori e di punti di riferimento, il che naturalmente non sempre significa dare la voce a tutti su un singolo problema, né che il giornalista rinunci al proprio punto di vista. Naturalmente, i giornalisti hanno un proprio punto di vista, ma il problema è se abbiamo l'equilibrio e la professionalità che consente di dare un'informazione obiettiva e completa a partire dalla notizia e da quello che essa rappresenta. Credo che questo si debba fare.

PRESIDENTE. Ascoltiamo ora le repliche dei direttori, a partire dalla dottoressa Annunziata, potremmo dire per ovvie ragioni di palinsesto.

Voglio però aggiungere una domanda, non prima di aver detto alla stessa Annunziata una cosa che spero venga accolta con simpatia: lei concluse la sua prima trasmissione di Prima serata auspicando di non essere processata dalla Commissione parlamentare di vigilanza per gli applausi sollecitati a Bologna (mi riferisco al collegamento di Mannoni); spero quindi che questa sera possa dire che il processo non vi è stato, perché non vorremmo dare al paese un'immagine diversa da quella reale!

Passando ad un'altra questione, più importante di una battuta, tenterò di riassumere nella mia domanda, ovviamente in maniera soggettiva, nei limiti della sua possibile parzialità, quanto mi sembra essere emerso con maggior forza dal dibattito: quali differenze vedete fra obblighi e doveri di informare? A me sembra che i doveri siano vincoli morali che attengono alla deontologia del giornalista in generale, mentre gli obblighi sono vincoli anche giuridici che riguardano i giornalisti del servizio pubblico. Su questo mi piacerebbe conoscere la vostra opinione, anche per ricevere un contributo alla redazione di un documento di indirizzo.

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Ringrazio i colleghi per avermi lasciato la parola per prima: questa sera, d'altronde, condurrò la trasmissione sul Polo, per cui domani mi piacerebbe rivedervi, o almeno risentirvi.

Onorevole Vito, non credo che vi sia stata insofferenza nei confronti della Commissione: parlo per me, ma credo di conoscere bene anche i miei colleghi, ai quali sono legata dall'amicizia e dalla frequentazione quotidiana. Devo anzi dire di essere rimasta davvero sorpresa dalla resa finale di un dibattito che francamente avevo considerato molto alto, per i contributi offerti: io, per esempio, non a caso ho richiamato la questione della trasformazione della forma dello Stato, poiché mi sembrava un modo per allargare il dibattito sul pluralismo posto dalla relazione di Paissan, e non per sfuggirlo.

Non vi è dunque insofferenza, ma vi è sofferenza. Sono una persona che dice sempre quello che pensa, anche a costo di attirarsi molti rimproveri, giusti o sbagliati: ebbene, in questo caso, devo confessare una forma di sofferenza a stare qui dentro, non per via degli appunti che ci rivolgete, che considero doverosi e giusti, perché i giornalisti, come voi peraltro, sono persone pubbliche che in quanto tali possono essere giudicate, ma perché qui dentro siamo stati parte di un fenomeno di mancanza di comunicazione. La RAI e il giornalismo che voi rappresentate non è la RAI e il giornalismo in cui io mi ritrovo tutti i giorni. Faccio questo discorso perché ritengo che, se davvero vogliamo andare avanti reciprocamente nella forma di comunicazione avviata (è la mia prima esperienza, mentre probabilmente alcuni di voi avranno partecipato a molte altre Commissioni parlamentari di vigilanza), forse il modo migliore per approfondire il dialogo è capirsi bene nello specifico di quello che si fa.

Ho quindi particolarmente apprezzato le curiosità dell'onorevole Romani, che ha chiesto cosa sia, al di là delle volontà individuali, che rende impossibile il pluralismo. Altri hanno risposto alla domanda, in una maniera o nell'altra, per esempio il senatore Servello. In fondo, per uscire da questa domanda, si tende a dire che la ragione risiede nel fatto che la RAI è sfasciata, per effetto di ere geologiche di lottizzazione, per cui in qualche modo la RAI è un piccolo fortino di non cambiamento...

PRESIDENTE. Ma lei vorrebbe libertà di licenziamento?

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Non voglio libertà di licenziamento ma voglio sicuramente l'introduzione in un servizio pubblico degli stessi metodi che si usano dappertutto, quindi un corretto sistema di valutazione del lavoro di tutti, e non semplicemente una totale burocratizzazione da azienda pubblica.

La mia sofferenza consiste nell'osservare che voi, in qualche modo, quando parlate della RAI, non rappresentate la mia esperienza nell'azienda né il modo di fare giornalismo al suo interno. E' vero che la RAI è una grande stratificazione di materie ma, in primo luogo, è difficile giudicare un mestiere come il giornalismo (lei lo sa, senatore Servello): non produciamo tondini, ma una cosa difficilmente quantificabile, che è l'opinione, attraverso il più sensibile degli strumenti, che è la mente umana. E' molto difficile cercare di definire regole per un prodotto essenzialmente così volatile ed indefinito come la somma di tante individualità umane...

PAOLO ROMANI. Pensavo che produceste notizie!

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. La notizia è il prodotto finale della valutazione e della professionalità di un essere umano. Le notizie non sono ponti, che sarebbe facile controllare eseguendo un semplice calcolo, né tondini, cioè oggetti che debbono avere un certo peso e la cui produzione potrebbe essere agevolmente quantificata.

Ovviamente, la RAI è anche ciò che si deduce dalle vostre indicazioni: mi riferisco al discorso in ordine alla stratificazione di diverse ere di prodotto geologico di vario tipo. Non credo, però, che la RAI si trovi nella condizione configurata in questa sede. Va infatti considerato che l'azienda - si tratta di un dato che probabilmente sottovalutate - sta attraversando un periodo di cambiamenti (e non mi riferisco soltanto all'attuale situazione). Pensate soltanto a cosa può significare per la forza lavoro di un'azienda, il cui status è già di per sé mal definito, il continuo avvicendarsi di direttori e di consigli di amministrazione al quale abbiamo assistito negli ultimi quattro anni.

La RAI è, in qualche modo, un prodotto strano, talmente strano che noi siamo qui...! Non sono riuscita ancora a spiegare a mio marito, che è americano, in cosa consista l'attività della Commissione di vigilanza e cosa si intenda per servizio pubblico. Quella italiana è dunque un'anomalia che incide moltissimo sul nostro lavoro. Da una parte, la nostra è un'azienda che opera sul mercato e deve ritagliarsi sempre maggiori spazi in tale ambito. Pensiamo, per esempio, all'Auditel. Qualche giorno fa, ho sottolineato, nel corso di una dichiarazione, l'opportunità di sopprimere l'Auditel; in realtà, non sono contraria all'Auditel che, anzi, mi piace. Mi piace sapere quanti giornali si riescono a vendere... Una delle ragioni per le quali si realizza un prodotto è legata alla necessità di capire se lo stesso funziona. Alla fine, il grado di funzionamento e l'affermazione del principio del pluralismo si possono evincere anche dal dato numerico. La mia dichiarazione sull'Auditel, quindi, è stata una provocazione perché - ripeto - a me l'Auditel piace.

Siamo di fronte ad un'anomalia di status (da un lato, servizio pubblico e, dall'altro, sistema inserito in un mercato), con una RAI che è stata notevolmente destabilizzata da una serie di cambiamenti molto forti nelle direttive e nelle direzioni, che hanno reso difficile in RAI far funzionare perfino le cose già a disposizione della stessa RAI (e sono tante!). Ad esempio, stiamo producendo, come TG - quindi, non ricorrendo ad appalti - Prima serata. La scorsa notte ho incontrato un collega della Fininvest il quale mi ha detto: "Caspita, che mezzi che avete!". In realtà, si tratta di mezzi che sono stati a lungo - per così dire - dormienti nella RAI e che sono stati attivati sulla base di un grande sforzo di efficientismo, di razionalizzazione e di massimalizzazione del prodotto.

PRESIDENTE. Sta dicendo che la realizzazione di Prima serata non ha comportando costi aggiuntivi per l'azienda?

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Sì, se si esclude il costo riferito al budget interno. Il dato fondamentale è che non si è fatto ricorso ad alcun appalto. Trasmissioni di questa natura sono di solito immesse in rete. In questo caso, invece, ci siamo fatti carico, come TG, con la stessa forza lavoro e con lo stesso prodotto, di sei edizioni quotidiane più un'altra. Vi chiedo scusa se richiamo esempi di bandiera, ma è chiaro che ognuno è orgoglioso del prodotto che realizza. Quello al quale mi sono riferita è un caso di strutture dormienti, difficilmente gestibili.

Non posso negare che in RAI vi sia stata una lottizzazione; del resto, si tratta di un dato storico. Vi assicuro, tuttavia, che se vi prendeste la briga di verificare tutte le ultime immissioni di personale in RAI, sareste sicuramente più contenti di quanto abbiate dimostrato di essere. I giovani immessi in RAI, dopo attese enormi, sono stati assunti quasi tutti per concorso. Oggi, a mio avviso, il problema è non più quello della lottizzazione, ma quello di un'azienda che sta passando da una fase ad un'altra, e che è molto, molto sbandata nella sua regolamentazione interna ed in alcuni aspetti che fanno emergere evidenti difformità. La RAI è paragonabile ad un edificio del centro di Roma: una casa del Seicento di tre piani, sulla quale sono sovrapposti quattro piani di superfetazione dell'Ottocento, del Novecento e degli anni Sessanta. Si tratta di un'abnormità, il cui vero problema è il funzionamento e la funzionalizzazione. Tra l'altro, vanno considerati i problemi tecnici. E' stato chiesto, per esempio, perché la RAI non sia stata presente a Sarajevo o in altri posti dove si sono verificati determinati avvenimenti. Farò un esempio classico, anche per evitare di rimanere nell'astratto di certi discorsi, qual è quello sulla lottizzazione. Come RAI, onorevole Romani, abbiamo sulla carta (lo posso dire perché lavoriamo molto con il TG3 regionale) la potenzialità della copertura in termini reali di tutto il territorio. Abbiamo nella TGR l'unica vera agenzia televisiva interna, autoprodotta dalla RAI. Perché, però, qualche giorno fa, il TG5 ha trasmesso determinate immagini e noi, nonostante ci fossimo mobilitati ed attrezzati, non abbiamo avuto a disposizione quelle stesse immagini ma altre? Eppure, la Fininvest non ha il nostro stesso livello di copertura...! Va considerato tuttavia che la Fininvest lavora esclusivamente sul mercato, per cui chiamano la televisione locale e, con 500 mila lire (perché è questa la somma che viene elargita), ottengono le immagini del cineamatore che si trovava sul luogo dell'evento e, con una spesa limitatissima, vanno direttamente in onda, con immagini che a volte sono di qualità superiore a quella che riusciamo a garantire noi.

Quanto a Sky news e alla CNN, vi invito ad abbattere un mito che è andato consolidandosi: la CNN non produce alcunché, ma acquista dalla Sky news, che è l'unica vera agenzia internazionale, come sa bene il senatore Gawronski. Non è vero, insomma, che la CNN produca direttamente le sue immagini sul territorio.

La RAI dispone di un grandissimo potenziale - con riferimento soprattutto alla TGR e alle reti nazionali - che tuttavia è legato ad una serie di problemi di tempi burocratici, di sistema e di non razionalizzazione (la classica superfetazione di un grandissimo potenziale!) e non è quindi sfruttato completamente. Vi farò qualche esempio su ciò che a mio avviso è la RAI. Credo che, in questo momento, la RAI abbia anzitutto bisogno di essere conosciuta e, in secondo luogo, abbia bisogno di stabilità. Uno dei grandi problemi che si riscontrano all'interno dell'azienda è legato all'avvicendamento di tre o quattro direttori nel giro di un quadriennio, che ci porta ad avere redazioni - che non sono di parte! - che ricevono continue botte in testa: l'alternarsi dei direttori comporta, infatti, una frequente ridefinizione degli orientamenti, delle scelte e dei ruoli. Vi invito quindi a considerare ciò che è la RAI vera, non quella dell'immaginazione, così come può essere presentata in questa sede.

PRESIDENTE. Mi sembra eccessivo sostenere che noi rappresenteremmo un'immagine falsa della RAI.

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Sto cercando di proporre un discorso molto pratico. Tutti gli esempi, presidente, sono grossolani; penso, in particolare, a quello sui metalmeccanici, che comunque è utile per far comprendere da quanti livelli di sensibilità e da quanti punti di vista può essere caratterizzata la valutazione dello stesso fatto.

Non risponderò a tutte le domande poste, anche per consentire ai colleghi di avere uno spazio adeguato per la loro replica. Vorrei tuttavia puntualizzare un aspetto, che sottopongo alla vostra attenzione a mo' di risposta indiretta. Sotto tale profilo, cercherò di spiegare cosa rappresenta per me il giornalismo. A mio avviso, giornalismo è anzitutto fornire notizie fondate, cioè notizie che possono essere verificate in termini molto pratici: nomi, cognomi, indirizzi, luogo nel quale è avvenuto il fatto, persone presenti (le famose tre regole che molti di voi conoscono). Un ulteriore aspetto che considero fondamentale è il rispetto della persona, che a mio parere si esplicita nel fornire un'informazione tale da non rovini la vita di alcuno, né da un punto di vista pubblico né sotto il profilo psicologico o religioso, nemmeno quando ci si trovi di fronte a vicende che, in base alla morale comune (che è sempre un po' banale), indurrebbero a ritenere che sia possibile rovinare la reputazione di qualcuno, come per esempio si verifica quando una persona sia condannata. Sono del parere, per esempio, che Pacciani sia una persona che non debba essere pubblicamente messa in piazza. Quando è stata diffusa la notizia, peraltro non verificata, di rapporti sessuali tra Pacciani e Lotti, francamente ho cercato di sorvolare, perché ho considerato l'esigenza di tutelare la dignità della persona.

PRESIDENTE. Sul caso Necci ci si è comportati in maniera diversa!

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Non è vero!

PRESIDENTE. Si è saputo addirittura con chi era fidanzata...

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Ognuno si assume le proprie responsabilità. Per quanto mi riguarda, non abbiamo dato questa informazione.

Inoltre, a mio avviso il giornalista deve essere qualcuno che "cerca" (si tratta probabilmente di un'opinione sulla quale non esiste una diffusa concordanza). Il giornalista deve non soltanto essere un riproduttore della realtà, il quale opera nel modo più esatto e corretto possibile, ma anche colui che, per mestiere, deve cercare il posto nel quale la realtà va avanti, il posto rispetto al quale sono riscontrabili buchi nella rete. Ricordo una polemica, risalente agli inizi del Novecento ma trascinatasi negli ambienti intellettuali fino agli anni Cinquanta-Sessanta, sul rapporto tra scrittura e fotografia: si disquisiva su quale delle due manifestazioni fosse maggiormente riconducibile all'arte e, in particolare, se la fotografia potesse essere considerata una forma di arte. Taluni sostenevano che così non potesse essere, rappresentando la fotografia una riproduzione troppo esatta della realtà. Analogo discorso potremmo proporre anche per l'informazione, nonostante non concordi con le posizioni di chi sostiene che la fotografia non sarebbe arte. Il giorno in cui riuscissimo a riprodurre la realtà in maniera perfetta, credo che non saremmo comunque buoni giornalisti. Un buon giornalista è colui il quale, prima di voi - perché noi dobbiamo offrire e richiedere a tutti strumenti di analisi della realtà - vi dice: "Il Polo oggi si è messo d'accordo", oppure:" L'Ulivo oggi si è messo d'accordo", o ancora: "I metalmeccanici si sono messi d'accordo, ma rimangono una categoria residuale perché, all'interno dell'organizzazione mondiale del lavoro, continuano ad essere tali". Questo è il punto! Il giornalista, in definitiva, deve anche "cercare". A tale riguardo commettiamo molti errori, ma penso che tali errori, che vanno pagati, dobbiamo anche cercarli, perché, altrimenti, non svolgeremmo adeguatamente il nostro lavoro.

Il giornalismo ha a che fare con la libertà di opinione e di pensiero. Onorevole Servello, Maurizio Mannoni ha fatto quel che ha fatto e aveva diritto di farlo: questo è Mannoni, questa è la sua opinione, questo è il suo modo di fare giornalismo! A tale riguardo mi attengo alla regola americana che, contrariamente a quanto si sostiene, non è ispirata al fatto di avere giornalisti privi di opinione, ma di avere giornalisti la cui opinione sia trasparente.

PRESIDENTE. Lei, come direttore, condivide che un suo redattore faccia certe cose?

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. No. Ho anche detto in pubblico, scherzando: "Guarda, Maurizio, c'è la Commissione di vigilanza...!". Penso che Maurizio Mannoni, in totale trasparenza, abbia avuto il diritto di fare ciò che ha fatto. Ciò per una ragione molto semplice, per il fatto cioè che egli ha firmato il servizio. Sarebbe stato sbagliato, presidente, se Mannoni avesse ammannito una cosa del genere in maniera diversa, con l'obiettivo cioè di prendere in giro o ingannare gli spettatori.

PRESIDENTE. Chissà cosa sarebbe accaduto se si fosse verificata una situazione al contrario, cioè se un giornalista avesse fatto certe valutazioni con esponenti del Polo!

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Qui non stiamo discutendo...

PRESIDENTE. Stasera non accadrà, immagino...!

LUCIA ANNUNZIATA, Direttore del TG3. Staserà lo farò accadere comunque: questo è sicuro...

Come direttore, debbo cercare di unificare il corpo del mio giornale in una forma che abbia una complessiva identità e trasparenza. Non posso però dire ai miei redattori di avere opinioni diverse dalle loro, sempre a patto che rispettino queste regole e che esprimano una opinione trasparente. Tra i miei notisti politici ce n'è uno molto di destra ed altri molto di sinistra, oltre ad alcuni di centro. Nessuno di loro ha mai avuto da me un rimprovero sul prodotto finale. Ho solo detto loro di cercare ogni giorno la notizia a loro avviso più rilevante ai fini della comprensione dei fatti. Mi attengo a questo principio. Forse queste considerazioni non danno le risposte che volete, però ritengo - anche se il TG3 viene sempre attaccato (non c'è problema) - di non poter essere perfetta. Non vi sarà un momento di perfezione al di là della garanzia costituita dalle tre o quattro regole fondamentali entro le quali, se rispettate, possiamo far entrare l'intero discorso del pluralismo.

Infine, scusate, ma permettetemi una piccola polemica. Mi dispiace che non sia presente Paissan, ma non può richiamare la storia della bicicletta e dirci che abbiamo vinto il concorso, abbiamo voluto l'incarico e adesso ce lo dobbiamo tenere. Penso che chi ci ha affidato l'incarico e noi stessi siamo portatori di una dignità professionale un po' più alta di quella di andare in giro a cercare incarichi.

PRESIDENTE. Salutiamo la dottoressa Annunziata, che si allontana. Do la parola al dottor Sorgi.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Vorrei dire innanzitutto che non mi sono riconosciuto nella rappresentazione che è stata fatta della prima seduta cui abbiamo partecipato in questa Commissione. In particolare, non mi sembra che la conversazione e il confronto tra i direttori dei telegiornali e i componenti della Commissione di vigilanza si siano svolti in un clima nervoso. Non mi pare che qualcuno di noi abbia detto "lasciateci lavorare". Quindi, vi sono sintesi giornalistiche che contengono un elemento di effetto non sempre vicino alla realtà.

PRESIDENTE. La notizia è che giornalisti si lamentano di giornalisti...

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Ho preso nota dei punti fondamentali di tutta una serie di rilievi. Chiedo scusa se ne dimentico qualcuno, ma cerco di fornire risposte il più possibile dettagliate.

Comincio col dire che a me sembra che un dato molto importante di questa discussione sia costituito dai giudizi sulla bontà o meno della misurazione dei tempi effettuata dall'osservatorio di Pavia. Direi anzi, facendo io, questa volta, una sintesi giornalistica forzata, che da questa discussione è emerso anche un piccolo processo all'osservatorio di Pavia. Voglio dire subito che io penso che esso lavori con grande serietà e anche interrogandosi sulla difficoltà di trovare un metodo giusto di misurazione del pluralismo. Ma mi pare che, almeno per questo aspetto, le cose che ho detto sono state raccolte: la semplice misurazione dei tempi non basta a garantire il pluralismo. Aggiungo che mi ha colpito questo aspetto di molti degli interventi perché il documento approvato all'unanimità o quasi dalla Commissione di vigilanza nella seduta, mi sembra, del 19 novembre aveva come dato di partenza l'affermazione dell'osservatorio di Pavia secondo cui la RAI faceva un'informazione non pluralista, sbilanciata, faziosa. In base a ciò, si arrivò all'approvazione del documento, all'intervento del Capo dello Stato, all'intervento dei Presidenti delle Camere, al documento del consiglio di ...

PRESIDENTE. Direttore, il dato di partenza è costituito dalle proteste delle forze politiche e sociali.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Sì, ma se non ricordo male in uno dei primissimi punti del documento si fa riferimento all'osservatorio di Pavia. Mi piace ricordare che nella lettera del Capo dello Stato il riferimento all'osservatorio di Pavia è in termini molto più problematici: laddove la Commissione lo assumeva come uno dei punti importanti di partenza, il Capo dello Stato lo pone in termini problematici, sottolineando come si tratti di un termine di giudizio piuttosto relativo. Non sono io a contestare l'osservatorio di Pavia: mi sembra che vi sia una larga consapevolezza che si tratta di uno strumento parziale. Né posso essere io ad indicare un diverso possibile metodo di misurazione del pluralismo, ritenendo anzi che sia uno dei temi specifici che la Commissione può affrontare e sul quale può esprimere le sue valutazioni.

Ho fatto riferimento alla buona fede e alla professionalità perché mi sembrano due termini importanti: se non si dà per scontato che sono un giornalista di buona fede, tutta questa discussione non ha senso. Se vi è anche il minimo dubbio che io possa essere un imbroglione, non vale neanche la pena di perdere tempo con me.

Questo per quanto riguarda l'osservatorio di Pavia. Torno un attimo indietro e vado ai mezzi tecnici. Vi è stato più di un accenno a questo problema. Dico subito che in questo caso non ritengo che la competenza della Commissione possa arrivare fino a un esame del rapporto tra i mezzi tecnici e la qualità dell'informazione. Per la verità, non ritengo neanche che la qualità dell'informazione possa misurarsi soltanto o soprattutto sui mezzi tecnici. Faccio un esempio per essere chiaro. Noi direttori dei telegiornali ci siamo trovati ieri sera alle prese con un fatto molto controverso: quattro giovani sono stati fermati e tenuti sotto interrogatorio per più di dodici ore, venendo indicati (ma l'indicazione era informale, perché nessuna autorità preposta a questo compito aveva detto che erano veramente loro gli accusati, almeno fino all'ora in cui siamo andati in onda) come gli autori del terribile delitto del cavalcavia. Ma noi dovevamo andare in onda e dire al nostro pubblico se quei giovani erano sospettati di essere i killer dei cavalcavia, se erano quattro ragazzi qualunque, se erano quattro testimoni o se non c'entravano nulla. Naturalmente, in questi casi il dubbio è forte, anche perché adesso le disposizioni di legge sono molto più severe. Inoltre, la folla si era raccolta in piazza davanti al palazzo di giustizia: vi era chiaramente un sentimento di linciaggio, come ci riferivano i nostri inviati sul posto. Quando, alle otto di sera, abbiamo deciso se mandare in onda un servizio chiuso o collegarci in diretta con la piazza, abbiamo compiuto una scelta molto importante e delicata. Siamo stati qui a discutere di pari opportunità, di tempi, di opinioni differenti, di pluralismo inteso soprattutto come rispetto delle minoranze; ma se devo mandare in onda gente che chiede la pena di morte, non ho tanto tempo per trovare qualcosa che bilanci, e comunque so di amplificare un sentimento che tutti ci auguriamo possa essere di una minoranza. Lo dico perché qui si è fatto riferimento alle piazze per Di Pietro e anche per far capire come spesso si faccia informazione politica anche occupandosi di fatti di cronaca. In questi casi il mezzo tecnico sorregge al contrario: comunque, alla fine ho optato per il collegamento, come credo abbiano fatto anche altri. Nelle edizioni della notte tale collegamento si è trasformato in un'autentica traduzione del desiderio di linciaggio. Ma quando si fa una scelta del genere, si fa per forza di cose una scelta parziale. Si obbedisce al dovere di informare, e se non lo si facesse si avrebbe sicuramente la stessa quantità di dubbi, nel segno opposto.

Visto che parliamo di ieri sera, voglio aggiungere che la notizia del Governo battuto alla Camera è arrivata mentre i telegiornali erano in onda: per quanto riguarda quello da me diretto, l'abbiamo immediatamente data come ultima ora, dando lettura delle notizie di agenzia disponibili in quel momento. Ma nelle edizioni di mezza sera e della notte abbiamo capovolto la scaletta, aprendo il telegiornale - anche se a quel punto la notizia che i quattro ragazzi erano sicuramente accusati del delitto del cavalcavia era chiara - con le notizie provenienti dal Parlamento, con il Governo battuto, e direi anche con i forti dubbi che la decisione del Parlamento creava sul processo di privatizzazione e sulla STET.

Ho parlato di responsabilità, discrezionalità, dovere di fare delle scelte. Tutto questo campo è per forza di cose incerto, perché stabilire dei confini è davvero molto difficile. Sono contento che qui vi siano state varie sottolineature alla necessità di estendere il monitoraggio anche al resto del panorama informativo ed anche rispetto alla necessità di occuparsi del problema delle proprietà. In realtà, notare che la RAI, essendo un'azienda pubblica, deve essere sottoposta a vincoli particolari non risolve il problema dell'equilibrio dell'informazione, perché la RAI è forse il più grande strumento d'informazione esistente in Italia, ma nel panorama generale occupa una percentuale che non corrisponde neanche alla metà.

Credo che abbiamo ben presenti i limiti e le caratteristiche del servizio pubblico. Condivido quanto ha detto Lucia Annunziata a proposito delle osservazioni di Paissan; non credo che noi siamo stati chiamati a dirigere testate del servizio pubblico perché la nostra maggiore disponibilità a venir meno ai doveri di un buon giornalista è verificata. Credo che la scelta dei direttori sia stata compiuta in nome del fatto che una buona professionalità è indispensabile anche per affrontare il problema complesso dei limiti e dei doveri del servizio pubblico.

Le assunzioni. Non posso che dare una risposta aziendale. Sono in azienda dal 19 agosto 1996. All'atto dell'assunzione ad ognuno di noi sono consegnati una pianta organica e degli obiettivi, cioè quella che è definita la mission. Ho diretto due testate della RAI. Un punto fermo è che in questo momento le assunzioni sono bloccate. Se il problema delle assunzioni è sollevato con riferimento al fatto che saremmo pieni di giornalisti lottizzati, devo dire che la volontà di riscatto - la mia è una testimonianza sincera - rispetto alle stratificazioni del passato è forte. Se si dipinge la RAI come un posto in cui vi sono soltanto le stratificazioni del passato e in cui il direttore si trova ad usare il bilancino fra le varie provenienze e le varie servitù politiche, devo dire che questo non è.

PRESIDENTE. Lucia Annunziata ha dato questa sensazione con il suo intervento.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. No, ha detto che ha in redazione giornalisti di varie idee politiche.

PRESIDENTE. Ha parlato di resistenze.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Ha parlato di resistenze sul problema dei metalmeccanici, però poi ha detto che nella sua redazione vi sono giornalisti di tutte le idee politiche.

PRESIDENTE. No, ha detto che ce ne sono uno di destra, qualcuno di centro e molti di sinistra. Non ha detto "di tutte le idee politiche".

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Sì, ma ce ne sono di tutte le idee politiche. Magari al TG3 ce ne sono più di sinistra e in altre testate ce ne sono più di destra. Il problema è fare riferimento alla qualità professionale, non alla provenienza politica, perché il riferimento a quest'ultima fa sì che il pluralismo possa diventare un insieme di diverse faziosità, ma questo non è pluralismo.

Per quanto riguarda le proteste e le pressioni politiche e non, devo dirvi che, soprattutto per quanto riguarda il "non", non ho notato una particolare differenza rispetto a mie precedenti esperienze professionali. Oggi, fare il giornalista in una testata importante vuole dire essere soggetto a gruppi di pressione. Pensate alla tragedia del Pendolino: essa coinvolge l'interesse dei viaggiatori, l'interesse delle Ferrovie, l'interesse della casa costruttrice del treno, l'interesse sindacale di una categoria che lavora nelle Ferrovie. In una vicenda di questo genere le pressioni politiche sono il meno. Ma la questione politica della tragedia del Pendolino è assai rilevante: scoprire se si sia verificata per l'una o per l'altra ragione ha una grande importanza. Diciamo le due versioni che sono state date: i sindacati dei macchinisti sostengono che si è verificata per mancanza di personale e carenze nei controlli; l'azienda sostiene che si è verificata perché il personale non accetta che lo sviluppo tecnologico renda meno stringente il controllo umano sulla macchina. Anche in questo caso si esercita una scelta; anche in questo caso, la cosa migliore è mettere al confronto le due tesi, perché entrambe contengono un elemento di paradosso che non è convincente per il pubblico, che poi giudica.

Bipolarismo e bipartitismo. Non posso che ripetere quanto ho detto l'altra volta. Non credo che sia mio compito proporvi di stabilire un metodo per fare in modo di rappresentare il bipolarismo e non il bipartitismo. Sono perfettamente cosciente che viviamo in un sistema che è bipolare ma non bipartitico e che attraversiamo una fase di transizione. Sono inoltre convinto che il ruolo delle minoranze in questa fase è vivace e spesso impegnativo per i due poli. Se, come ha affermato un senatore, si vuole tornare alla rappresentanza proporzionale, cioè al riferimento della forza dei voti, la mia impressione è che la conseguenza sarà che le minoranze avranno meno spazio. Essendo i due poli rappresentati da una o due formazioni consistenti e da un certo numero di formazioni piccole, è chiaro che queste ultime, proporzionalmente, saranno meno rappresentate o, viceversa, che per ogni loro rappresentazione vi sarà un numero piuttosto alto - e legittimo, a quel punto - di rappresentazioni delle forze più grandi.

Si è parlato di troppo italocentrismo, di troppo palazzo: è possibile, nessuno di noi svolge un lavoro perfetto. Probabilmente il fatto che la RAI abbia sede a Roma, che si trovi in una situazione di contiguità con il palazzo può determinare questo; tra noi, nelle riunioni, ci diciamo che il futuro dell'informazione è di fare più società: credo che questa sia una strada da percorrere. Naturalmente, il coniugare pluralismo ed informazione sulla società esula completamente dalla discussione che abbiamo affrontato in questa sede, all'infuori di qualche raccomandazione che ho colto.

E' stato poi fatto un accenno al problema delle vicedirezioni del TG1. Non ho alcuna riserva a rispondere sull'argomento, ma desidero esprimere una notazione. Ho diretto il Giornale radio dal 19 agosto al 25 ottobre; pochi giorni prima di lasciarne la direzione, in osservanza di una indicazione del consiglio di amministrazione, ho ridotto le vicedirezioni, che erano undici - il Giornale radio è composto di notiziari che sono diffusi da tre canali, quindi è la somma di tre ex giornali distinti -, a cinque; vale a dire ho portato quel numero il più vicino possibile a due (consideriamo che si tratta, ripeto, di tre canali). Quindi, cinque vicedirettori ed un direttore: sei persone nella direzione di un giornale che è composto da tre giornali; ebbene, non ho sentito una sola voce levarsi a favore dei cinque che ho sollevato dall'incarico e posso dirvi che ho agito in quella sede esattamente come ho operato nel telegiornale, cioè senza alcun riferimento alle idee politiche di coloro nei confronti dei quali dovevo procedere. Tralascio di indicare il dettaglio della questione del TG1, perché è abbastanza presente; siamo tutti informati e sappiamo cosa è successo in quella testata, sappiamo che un direttore è rimasto in carica per due mesi ed ha avanzato una proposta all'assemblea di redazione, che l'ha respinta; in conseguenza di quel voto, con il quale è stata bocciata la proposta di nomina di due vicedirettori - uno interno e l'altro esterno -, il direttore dopo due mesi e mezzo di guida del TG1 ha rassegnato le dimissioni. Rassegnate le dimissioni, era nei fatti che la sua proposta fosse inficiata da un dubbio; io ho avanzato la mia, ho preso atto del precedente voto dell'assemblea e, con rammarico, della decisione del consiglio di amministrazione di procedere al collocamento in quiescenza anticipato di uno dei direttori del telegiornale; ho sollevato uno dei vicedirettori dall'incarico ed ho proceduto alla nomina interna di uno dei vicedirettori. Ho sottoposto la mia proposta all'assemblea di redazione, che l'ha approvata con 97 sì, 32 no e 6 schede bianche. Ho altresì sottoposto il mio piano editoriale al consiglio di amministrazione della RAI, che l'ha approvato all'unanimità. Da questo punto di vista credo di essere a posto con le regole che un direttore deve rispettare.

PRESIDENTE. Conferma la tesi di De Corato, non la contraddice.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Non ho capito quale sia il riferimento del senatore De Corato, ma se intende dire (Commenti del senatore Servello)...

PRESIDENTE. Mi pare così evidente.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Il dottor Magliaro non è parcheggiato; ha espresso la sua aspirazione ad un diverso e prestigioso incarico, che gli è già stato assegnato (Commenti del senatore De Corato). La scelta è fatta a norma dell'articolo 6 del contratto di lavoro (Commenti del senatore De Corato).

Questi sono i rilievi che io ho raccolto dal dibattito svoltosi; mi scuso nuovamente se ho dimenticato qualcosa, ma se vogliamo essere chiari fino in fondo - perché mi pare che il confronto sia stato serio, approfondito, rispettoso dei ruoli reciproci che ricopriamo -, dobbiamo andare alla questione centrale del dibattito stesso. Essa è rappresentato dal fatto che esistono un documento del consiglio di amministrazione sul pluralismo ed una relazione dell'onorevole Paissan sul problema del pluralismo della RAI. A me sembra che il documento e la relazione non siano in contrapposizione; più di uno fra voi ha espresso invece la valutazione che fra il documento e l'introduzione dell'onorevole Paissan vi sia contrapposizione. Anzi, per essere chiari, che lo sbocco operativo della discussione debba essere quello di respingere il documento del consiglio di amministrazione della RAI e di approvarne uno, diverso, di indirizzo; comunque, di approvare un documento sul pluralismo che stabilisca (cito alcune espressioni, diciamo pure in alcuni casi degli eufemismi, che sono state usate in molti interventi): vincoli, obblighi, regole sul pluralismo e sul modo di esercitare il ruolo di giornalista del servizio pubblico. Se vi interessa, la mia opinione è che se la conclusione dei lavori della Commissione fosse questa, la Commissione stessa si assumerebbe una grande responsabilità. Intendo dire che tutte le volte che si introducono, sempre e comunque nel mondo, vincoli o limitazioni alla libertà di informazione, tali vincoli e limitazioni contrassegnano involuzioni della democrazia. Mi sembrerebbe strano che la Commissione per l'indirizzo e la vigilanza (che è un termine diverso da controllo) dell'informazione pubblica concludesse i suoi lavori fissando vincoli e limitazioni alla libertà di informazione. Questo è un tema di libertà (Commenti del senatore De Corato)... Quello della BBC è un codice di autoregolamentazione; non mi risulta che il Parlamento inglese introduca vincoli, con una Commissione, alla libertà di informazione (Commenti del senatore De Corato).

PRESIDENTE. Noi vogliamo il rispetto delle leggi, dottor Sorgi, che rispettiamo le leggi tutti quanti, noi e voi!

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Naturalmente, io sarò rispettoso ed obbediente nei confronti di qualsiasi vincolo che sarà imposto dalla Commissione e dal Parlamento; ma, se mi è consentito, la mia opinione è la seguente: i vincoli e le limitazioni della libertà di informazione contrassegnano le involuzioni della democrazia. Poiché quello che si è svolto è stato un dibattito alto, vi invito a considerare che questa sarebbe una decisione grave, che voi potete prendere o meno; nel primo caso, noi ci adegueremo. Questo è il punto.

FRANCESCO SERVELLO. Lei ha dimenticato di citare una parola che è stata ricorrente e che è stata usata soprattutto dal presidente: doveri, che non vanno né contro la libertà né contro la democrazia. Lei si è posto su un terreno scivoloso nel dire che noi quasi si voglia andare in senso opposto alla libertà ed alla democrazia.

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Mi sembra di aver chiarito che io sono molto rispettoso non solo del dibattito, ma delle determinazioni che la Commissione vorrà assumere.

PRESIDENTE. Non stiamo dicendo questo!

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Se mi è consentito, io esprimo la mia opinione, che è quella che ho appena esposto: poiché stiamo svolgendo un dibattito, che avrà una conclusione, deve essere chiaro che non è indifferente il fatto che questa vada in un senso o nell'altro. Personalmente mi auguro che la Commissione voglia continuare a dibattere e che, al termine della discussione, vi sia chiarezza sulle decisioni; quando ciò accade non vi sono più problemi perché ci si adegua alle decisioni stesse. Tutto qui.

FRANCESCO SERVELLO. Sui doveri non ha risposto: i doveri sono una cosa diversa dai vincoli!

MARCELLO SORGI, Direttore del TG1. Rispondo subito. Ovviamente sono, per così dire, sottoposto ai miei doveri; mi sembra che tutto quel che ho detto non vada nel senso che io voglio esulare dai miei doveri. I miei doveri sono quelli di un giornalista del servizio pubblico e del direttore della più importante testata del servizio pubblico stesso. Ma proprio perché ho questa responsabilità sento anche il dovere di dirvi quel che ho detto.

ANTONIO FALOMI. Presidente, vorrei prendere la parola...

PRESIDENTE. Può parlare anche il presidente?

ANTONIO FALOMI. Presidente...

PRESIDENTE. Le chiedo il permesso di parlare. Sta parlando il presidente, poi le darò la parola: può darsi che non vi sia più bisogno del suo intervento dopo che avrò parlato io.

ANTONIO FALOMI. Volevo semplicemente ricordare che alle 16,30 riprende la seduta d'Assemblea al Senato.

PRESIDENTE. Infatti il mio intendimento è di tenerlo presente.

Non voglio riaprire la discussione. Il direttore Sorgi ha espresso una considerazione che, di per sé, riproporrebbe una dibattito: vi prego di non considerare questa Commissione come un manipolo di pazzi che vuole imbrigliare i direttori. Abbiamo chiesto di ascoltarvi proprio perché vogliamo sapere, alla fine del nostro percorso, se rovineremo il vostro lavoro o meno. Venite qui a dirci che vi stiamo imbrigliando, che prepariamo l'imbrigliamento del vostro lavoro mi sembra ingeneroso nei confronti della Commissione; francamente, è una questione che non si pone. Abbiamo rispetto del vostro lavoro e sicuramente non vogliamo darvi fastidio; evidentemente potrà essere redatto un documento che conterrà certe affermazioni e non altre. Ciò non significherà voler limitare la libertà di stampa, anche perché grazie a Dio ciò non rientra nei nostri poteri.

CLEMENTE MIMUN, Direttore del TG2. Credo che in qualche misura i mezzi tecnici e le possibilità di trasmissione siano attinenti anche alla nostra capacità di produrre buona informazione e, quindi, di garantire maggiore pluralismo. Credo in un servizio pubblico persino più forte in una fase in cui molti parlano di farlo "dimagrire". E ritengo che, per lavorare meglio, dovremmo arrivare ad un profondo aggiornamento dei mezzi tecnici, ad una reale possibilità di aggiornamento professionale; una volta esauriti gli adempimenti sui precari e sui vincitori di concorso considererei auspicabile una politica di assunzioni mirata.

Verifico la consapevolezza da parte di tutti che 1.500 giornalisti in RAI non siano troppi, soprattutto se si continuano a moltiplicare gli appuntamenti informativi alla radio ed in televisione; pensate ai 500 giornalisti del Corriere della Sera, ai 630 de La Stampa, ai 250 de Il Messaggero e rapportate gli impegni e le responsabilità di queste testate all'impegno complessivo della RAI per quanto riguarda l'informazione ed alle responsabilità oggettive del servizio pubblico. Pensate agli uffici di direzione di un qualsiasi grande quotidiano e riflettete sugli attuali assetti di vertice dei giornali radio e dei telegiornali; la cura dimagrante, la dieta che ha portato a ridimensionare le attuali direzioni non ha consentito alcun risparmio, a mio avviso, ed ha ridotto le possibilità di ideazione e di controllo sulle numerose edizioni dei nostri giornali radio e telegiornali. Evidentemente, realizziamo lo stesso i prodotti giornalistici, ma - parlo per noi del TG2 - con crescenti difficoltà. Voglio dire con assoluta franchezza che, quando prepariamo il nostro telegiornale, non ci poniamo l'obiettivo di chi colpire, chi danneggiare o chi incensare; cerchiamo ogni giorno di rappresentare nel modo più compiuto, più corretto ed equilibrato quel che accade in ogni campo. Da un paio d'anni al TG2 viene riconosciuto un sostanziale equilibrio; noi non ce ne gloriamo. Posso soltanto dirvi che riuscire a garantirlo è costata grande fatica e attenzione e che continueremo a lavorare per fornire a tutti i cittadini gli elementi per formarsi un'opinione su tutto quel che accade. Insomma, conoscere per deliberare. Potremmo farlo con maggiore incisività se anche al TG2 fosse consentito di misurarsi con nuovi programmi di approfondimento, il che fin qui non è avvenuto.

Voglio assicurare i parlamentari che ne hanno parlato che il TG2 guarda ben oltre i confini della politica ed ha aperto da molti anni le proprie porte a quel che accade nella società; se possibile, lo faremmo anche di più. Nei telegiornali si può, si deve, e noi lo facciamo, far sentire le diverse campane. L'onorevole Follini ha chiesto maggiore equilibrio, anche in termini di tempo, fra Governo ed opposizione per quanto riguarda la rappresentanza; è una raccomandazione che personalmente accolgo, così come trovo giusto compiere uno sforzo maggiore per rappresentare, oltre gli schieramenti, le singole forze politiche nonché le new entry nella politica, cioè quei parlamentari, quei politici che non sono ancora personaggi e che forse hanno la dignità di potersi cimentare anche rispetto alla pubblica opinione.

Agli onorevoli Vito e Paissan voglio garantire che non provo alcuna insofferenza o fastidio rispetto al controllo parlamentare; mi uniformerò ad eventuali direttive della Commissione con assoluto rispetto. Però affermo anche che non spetta a me immaginare nuovi strumenti di controllo che, peraltro, non mi sembra vengano chiesti. La misurazione dei tempi senza tener conto del diverso impatto del numero degli spettatori nella diverse edizioni dei telegiornali conta ed andrebbe valutata; da questo punto di vista auspico una riforma del pur lodevole lavoro dell'osservatorio di Pavia, immaginando dei punteggi: il TG1 delle 20 vale dieci, quello della notte tre; il TG2 delle 13 vale dieci, il TG2 delle 20,30 cinque, quello della notte uno. Occorrerebbe cioè tener conto dell'incrocio fra share e tempi assegnati.

PRESIDENTE. Cioè rivalutiamo i partiti.

CLEMENTE MIMUN, Direttore del TG2. Se questo è il metodo di misura e fin qui questo è stato possibile realizzare...

Credo non si possa immaginare un equilibrio perfetto esaminandoci di settimana in settimana, ma guardando a dati di più grande respiro forse potremmo notare maggiore equilibrio; noi potremmo comunque correggere il tiro. Fermo restando che dovete crederlo, noi non lavoriamo lavoriamo con il bilancino; non ci svegliamo la mattina immaginando di dare un minuto e mezzo al PDS e un minuto e quindici a forza Italia. Le notizie, quelle vere, prevalgono nel nostro lavoro di tutti i giorni: sono quelle il vero faro per noi. Ho ben presente la responsabilità di dirigere un telegiornale che ha una decina di edizioni al giorno e che viene visto da 22-25 milioni di telespettatori quotidianamente.

Paissan sostiene che vi è chi la bicicletta l'ha cercata, forse chi l'ha trovata per caso e anche chi pensa di aver meritato di fare un altro giro e di poter continuare a pedalare (mi riconosco in quest'ultima categoria), ma se vi è un problema di pluralismo, come vi era nei decenni passati, se vi è una questione irrisolta da sempre, occorre fare uno sforzo che, fatti salvi codici, direttive, monitoraggi dei diversi osservatori, vada al di là. Dunque, le regole dell'oggi ma anche l'avvio - e qui c'è stato - di una riflessione per darci regole certe e valide anche per il domani, per evitare che ad ogni cambio di maggioranza, o di leader di partito si torni a ballare come durante una tempesta. Sarà un bene per il paese, sarà un bene per le forze politiche, sarà un bene certamente per chi come noi ha queste responsabilità oggi.

ANTONINO RIZZO NERVO, Direttore della TGR. Mi soffermerò brevemente su alcune osservazioni di Sorgi ed affronterò poi le questioni specifiche della TGR, cui alcuni interventi hanno fatto riferimento. Anch'io devo francamente affermare (non in modo formale) che ritengo non vi sia stato la scorsa volta uno scatto di insofferenza da parte nostra nei confronti dei lavori della Commissione credo, secondo quella che è stata invece l'interpretazione dei colleghi della carta stampata.

Non vorrei che vi fosse una lettura distorta del mio pensiero: da quanto ho letto sui giornali, sembra quasi che io sia contro le regole; ho detto invece, sostanzialmente, quanto hanno detto gli altri colleghi: non credo ad una loro effettiva capacità di incidere rispetto al problema che ci stiamo ponendo. Sono contro i decaloghi e la minuziosa esemplificazione di come deve essere il lavoro del giornalista radiotelevisivo del servizio pubblico, mentre sono favorevole agli indirizzi; sono per meno vincoli, non perché non li voglia, o perché ritenga che nel momento in cui si vogliono porre dei vincoli vi sia la tentazione di porre una limitazione alla libertà di espressione, ma perché mi preoccupo anche del nostro comportamento individuale. Nel momento in cui essi vengono posti, in perfetta buona fede, nello sforzo di poter giungere al risultato di un servizio pubblico che ha raggiunto la perfezione del pluralismo, della completezza, eccetera, mi preoccupo che il vincolo ferreo e la conseguente regola sanzionatrice finiscano con l'influenzare il singolo giornalista, che potrebbe autolimitare la propria libertà.

E' questo che mi preoccupa, non il vincolo per il rischio di essere sottoposti alla sanzione; mi preoccupano le conseguenze nel lungo periodo che questo tipo di iniziativa potrebbe avere non nei confronti di Rizzo Nervo, che oggi è alla guida di un telegiornale della RAI e domani potrebbe non esserlo, ma nei confronti del giornalismo del servizio pubblico radiotelevisivo, che potrebbe diventare qualcosa di diverso da quello che deve essere. Questa non è insofferenza: del resto, ci avete convocato per conoscere le nostre opinioni, libero poi ognuno di avere le proprie.

Per quanto riguarda l'ultima sollecitazione del presidente Storace, che chiedeva la differenza fra dovere ed obbligo di informare, Sorgi osservava giustamente che siamo innanzitutto giornalisti: abbiamo quindi innanzitutto gli stessi doveri, obblighi e - aggiungo - diritti (perché ritengo che abbiamo anche un diritto di informare) degli altri giornalisti. Abbiamo però - di questo sono profondamente convinto - una responsabilità in più, perché lavoriamo nel servizio pubblico ed abbiamo il dovere del rispetto di chi sta oltre lo schermo, che può non pensarla come noi. Tuttavia, si rischia che queste enunciazioni di principio rimangano tali ...

PRESIDENTE. Come si traducono nella realtà?

ANTONINO RIZZO NERVO, Direttore della TGR. Noi più di altri abbiamo il dovere di completezza, di informare con equilibrio, di trasparenza dell'informazione, di respingere pressioni e condizionamenti da qualsiasi parte essi provengano. Il problema, in questo caso sì, è nelle regole: secondo me - non è insofferenza nei confronti della Commissione -, il rispetto delle regole comporta che interlocutore del direttore di una testata sia il suo editore, interlocutore della Commissione parlamentare di vigilanza sia l'editore del servizio pubblico radiotelevisivo. Se un giornalista del servizio pubblico viola le regole, senza il bisogno che le indichi un organismo esterno, abbiamo noi i poteri per intervenire e sanare la violazione del rispetto dell'opinione pubblica che vi è stata. Se un direttore di testata viola doveri ed obblighi, l'editore ha gli strumenti per sanare quella violazione; se l'editore non li utilizza, viola gli indirizzi che la Commissione gli ha dato. Non credo, però, a vincoli che si traducano in normative di carattere legislativo. Non penso, dicendo queste cose, di mostrare insofferenza verso il vostro organismo parlamentare.

Tornando alla testata che dirigo e agli interventi di Romani, De Corato e Servello, devo osservare che personalmente faccio i conti con il sistema nervoso del servizio pubblico che si dirama in tutto il paese. Onorevole Romani, riconosco allora - ne sono convinto - che vi è una correlazione, con la quale ci scontriamo giornalmente, tra la possibilità di attuare il massimo pluralismo e le carenze tecniche. Non credo che oggi la RAI sia attrezzata per dare una risposta adeguata sul territorio: dato che la TGR non opera solo per sé ma fa quel lavoro di agenzia cui accennavo nella precedente occasione (quasi il 40 per cento della sua attività) nei confronti della testata nazionale, l'assorbimento delle attuali risorse non consente una copertura adeguata dei fatti e delle notizie: questo si traduce, di riflesso, si traduce nell'impossibilità di garantire il pluralismo. Non mi riferisco al "pastone" politico, o ai servizi sui governi regionali e le opposizioni, ma a quel pluralismo delle realtà locali cui accennava la relazione di Paissan, a quella ricchezza del pluralismo culturale, sociale, economico del paese che oggi non siamo in grado di rappresentare.

Senatore Servello, dico subito senza alcuna intenzione polemica con il passato e con coscienza - soprattutto per i colleghi della carta stampata che ci stanno ascoltando - che ho trovato una testata giornalistica regionale da ricostruire, che non c'era dal punto di vista organizzativo e del rapporto con complessità, visto che bisogna rendere efficienti più autonomie. Ho trovato uno slogan: la TGR delle 103 città; senatore Servello, lei ha ragione di lamentarsi ma siamo presenti con corrispondenti soltanto in 46 capoluoghi di provincia, poiché la rete dei corrispondenti provinciali della RAI è stata smantellata. Questo significa inferiorità di condizioni del servizio pubblico rispetto al privato sul territorio ed anche certe volte, purtroppo - i direttori delle testate lo sanno -, nostra incapacità di dare dimensione nazionale ad alcuni problemi territoriali.

Ho trovato un modello produttivo di lavoro nel quale la direzione di testata non aveva alcuna possibilità di incidere sul prodotto: arrivato in ufficio il primo giorno e chiesti i sommari dei venti telegiornali regionali che si producono giornalmente, mi è stato risposto che nessuno li aveva mai chiesti. Sto quindi cominciando un grosso lavoro di riorganizzazione: la nostra anomalia è rappresentata da una direzione di testata unica che deve rispettare le autonomie, cui credo profondamente perché una testata che è l'esempio massimo del decentramento non può che porsi il problema del rispetto delle autonomie. I nostri capiredattori sono dei piccoli direttori di testata di provincia, ai quali dobbiamo dare le linee editoriali che loro devono regionalizzare: nell'ambito della linea regionale, sono quindi dei piccoli direttori, ma va salvata, a mio avviso, l'unitarietà della testata, creando quei meccanismi per cui è possibile, innanzitutto, che la testata abbia la conoscenza totale di quanto si produce, nei limiti della complessità (mettiamo in onda 136 edizioni di giornali, fra telegiornali e giornali radio). Bisogna quindi creare gli strumenti utili: in una RAI fortemente avanzata dal punto di vista tecnologico, è sembrata quasi una sorpresa la mia richiesta, che però è stata attuata subito, di poter attivare le teleconferenze con le redazioni regionali, in modo che la direzione di testata possa partecipare quotidianamente ed avere, non un controllo, ma una consapevolezza di quanto si produce.

E' un cammino che è stato avviato da poco tempo, perché siamo tutti direttori nominati nell'agosto scorso. Ho riorganizzato la direzione della testata, snellendola, come mi era stato giustamente richiesto dall'editore (quindi riducendone il numero di componenti); l'ho riorganizzata sul prodotto: tre vicedirettori di testata hanno la delega su gruppi di sei-sette regioni. E' un processo che sta cominciando adesso. Per quanto riguarda, per esempio, il caso del compleanno di Bossi, poco fa con il telefonino mi sono informato sul servizio che risale a settembre: spesso, alcune polemiche locali nascono per un'informazione non sufficiente. Il collega Casarin (credo che i parlamentari milanesi lo conoscano) mi ha ricordato ora per telefono che sul compleanno di Bossi non abbiamo fatto un servizio di quattro minuti; abbiamo inserito nel pastone sulle reazioni all'irruzione della polizia nella sede della lega di Milano alcune immagini che facevano riferimento ai brindisi per il compleanno di Bossi. Senatore De Corato, comunque, le manderò la cassetta: mi sono dovuto informare, perché sarebbe francamente impensabile che il direttore della testata possa conoscere tutti i singoli servizi che sono mandati in onda nelle varie edizioni dei telegiornali. L'onorevole Romani mi consentirà una valutazione, che propongo in termini non polemici. Probabilmente è reale la denuncia di nostre deficienze tecniche sul piano internazionale. E' tuttavia doveroso ricordare che la RAI è stata la televisione occidentale che ha avuto più morti in Bosnia, tra operatori e giornalisti. Dico questo perché il 28 gennaio prossimo ricorre l'anniversario della morte a Mostar di alcuni colleghi, tanto che in questi giorni, come TGR, pur nella nostra povertà, abbiamo inviato alcuni inviati a Mostar per realizzare un servizio che sarà trasmesso nello spazio a diffusione nazionale.

L'onorevole Romani ha ragione quando sostiene che gli strumenti concorrono alla possibilità di garantire un più elevato livello di pluralismo. Insisto su un dato: il nostro lavoro si riflette non soltanto sul prodotto regionale ma anche su quello delle testate nazionali. Credo che oggi non vi siano le condizioni di dare esito ad un dibattito sulla possibilità di una riconversione in termini regionali della terza rete RAI.

Non rispondo - non certo per reticenza - sul problema della redazione della Basilicata, anche perché la vicenda riguarda nomi di alcuni colleghi. Poiché questa è una seduta pubblica, non mi sembra giusto...

PRESIDENTE. Se lo ritiene, possiamo disporre di procedere in seduta segreta.

ANTONINO RIZZO NERVO, Direttore della TGR. In Basilicata non è stata violata alcuna regola contrattuale ma, probabilmente, è stata ripristinata una situazione di giustizia.

Mi permetterò di illustrare la situazione che si è venuta a creare nel momento in cui, come uffici, forniremo gli elementi per la risposta all'interrogazione parlamentare presentata in Senato.

PRESIDENTE. Per evitare i tempi lunghissimi della burocrazia, se lei ritiene...

ANTONINO RIZZO NERVO, Direttore della TGR. Poiché conosco bene la situazione, le scriverò una lettera, presidente, e le fornirò elementi di conoscenza, indipendentemente dallo sviluppo della procedura burocratica di risposta all'interrogazione parlamentare. Posso comunque anticipare che in Basilicata non è stata commessa alcuna violazione. Per quanto riguarda le assunzioni, ad esempio, è stato assunto un collega precario inserito nella cosiddetta "lista dei dieci". So che il presidente Storace è molto preparato su questa vicenda, visto che ieri ha presentato una proposta di legge sui precari in RAI. La situazione è disciplinata in base ad un accordo tra azienda e USIGRAI, che esclude anche la possibilità di esercitare il potere ex articolo 6. In sostanza, vi sono colleghi i quali, nel momento in cui si liberano i posti, debbono essere assunti. Sulle assunzioni relative alla redazione della Basilicata non ho esercitato alcun potere discrezionale, essendo il tutto avvenuto in base ad un automatismo preciso.

Quanto al tema delle assunzioni - sul quale mi è stata sollecitata una risposta dall'onorevole Paissan - le valutazioni che ho avuto modo di esprimere non riguardavano la situazione di oggi, che si caratterizza, così come ha ben chiarito Marcello Sorgi, per la presenza di grosse difficoltà. Ciò nonostante, stiamo procedendo ad alcune assunzioni.

A mio avviso, un'azienda che offre un servizio pubblico, in materia di selezione del personale da assumere, anche non giornalistico, e di sviluppo di carriere, dovrebbe attenersi a criteri rigidi, fatti salvi i poteri del direttore previsti dall'articolo 6. Di questo sono convinto. In assenza di criteri, posso dirvi in che modo mi sto comportando rispetto ad alcuni turn over di urgenza cui stiamo procedendo: se volete, si tratta di un'autolimitazione, che tuttavia fa capire come il problema sia avvertito, anche perché penso che qualsiasi nostro atto in questo momento potrebbe essere interpretato in maniera difforme dalle intenzioni che lo hanno originato. Io mi sono dato un criterio, tra l'altro in considerazione delle dimensioni della testata e dell'impossibilità da parte del direttore di avere una conoscenza del livello professionale dei singoli colleghi da assumere nelle varie redazioni. L'elemento che ho assunto come punto di riferimento è rappresentato dalle liste dei precari, in ordine alle quali è intervenuta la richiamata proposta di legge del presidente Storace. Oggi, quindi, non stiamo commettendo errori sotto questo profilo. Per il futuro, però, per non ripercorrere tentazioni del passato, vanno configurati indirizzi molto rigidi, non - ripeto - per correggere la situazione attuale ma per evitare di cadere in alcune tentazioni del passato. Sono queste le considerazioni che mi è sembrato opportuno sottoporre all'attenzione dei commissari, in modo molto sommesso, senza insofferenza e senza polemiche.

Paissan ha fatto riferimento al problema delle "pressioni". Non si può vietare a nessuno di fare pressioni; la questione vera consiste quindi nella capacità di respingerle. Ritengo che oggi questa capacità vi sia. Posso testimoniare di non aver ricevuto alcuna pressione, neanche aziendale, rispetto alle scelte che ho adottato e a quelle che dovrò adottare in futuro.

La mia, quindi, non è un'insofferenza, ma un contributo ai vostri lavori.

PRESIDENTE. La ringrazio e do la parola al dottor Ruffini.

PAOLO RUFFINI, Direttore del GR. Vorrei anzitutto rispondere all'ultima domanda posta dal presidente Storace sulla differenza tra obblighi e doveri. Francamente, tra questi due aspetti non colgo una grande differenza. Sento di avere obblighi e doveri di fronte alla mia coscienza, alla mia professionalità, alle leggi dello Stato, all'articolo 21 della Costituzione, che si è progressivamente trasformato da semplice norma a difesa della libertà di manifestazione del pensiero in una norma di tutela del diritto-dovere ad informare e del diritto ad essere informati. In definitiva, credo di dover rispondere già da adesso alle esigenze poste dal principio del pluralismo, di fronte alla mia coscienza, alle leggi dello Stato e al mio editore.

Come ho già avuto modo di anticipare all'atto della mia nomina a direttore, sono impegnato a garantire un'informazione completa, corretta, chiara e capace di rappresentare tutte le componenti di una società democratica complessa e, al tempo stesso, articolata, in uno sforzo quotidiano di rigorosa professionalità e di serena obiettività. Questa, per me, è una regola che già esiste e alla quale mi considero fin d'ora vincolato.

Quanto allo strumento per garantire l'applicazione del principio, si è discusso molto sui criteri del minutaggio e della rappresentanza proporzionale, dei quali sono stati posti in evidenza pregi e limiti. Credo che probabilmente la domanda formulata in tale direzione sia mal posta. In realtà, lo strumento non c'è; volendo poi considerare quello al quale è stato fatto riferimento, si pone la necessità di tenerne presenti i limiti, considerandolo cioè un sensore, un sismografo, che può servire a noi e a voi per indicare linee di tendenza nel lungo periodo e per comprendere e correggere eventuali errori.

L'idea di introdurre uno strumento di monitoraggio nel campo radiofonico pone non poche difficoltà, considerato che le radio sono tantissime...

PRESIDENTE. Sarebbe sufficiente un monitoraggio sui radiogiornali RAI.

PAOLO RUFFINI, Direttore del GR. Finora non mi è stato rimproverato alcunché. Lo sforzo che profondiamo è quotidiano, ferma restando, ovviamente, la possibilità di commettere errori.

Il senatore Servello ha sottolineato la necessità di essere aperti al nuovo; il senatore De Corato, dal canto suo, ha criticato la concessione di ampi spazi alla lega. Credo che la circostanza denunciata rappresenti la testimonianza di come criteri rigidi e preventivamente disposti possano indurre in errore. Se noi assumessimo il dato elettorale che ha caratterizzato la partecipazione della lega alle ultime elezioni a Milano, probabilmente saremmo costretti a fornire una rappresentazione non realistica.

FRANCESCO SERVELLO. Mi ero riferito sia ai TG regionali sia ai radiogiornali regionali, che non rappresentano le realtà locali. Se si esclude il riferimento alle disgrazie aventi valenza nazionale, tutto il resto è ignorato!

PRESIDENTE. Il dottor Rizzo Nervo, ci ha fornito indicazioni molto utili, che potremmo senz'altro recepire come indirizzo. Se chiedessimo alla RAI di potenziare la TGR, faremmo probabilmente una cortesia a lui e all'informazione di ritorno dalle sedi locali.

PAOLO RUFFINI, Direttore del GR. La rappresentazione è il tentativo del giornalista di rappresentare la realtà nel modo in cui si evolve. Prevedere criteri preventivi e rigidi ci porterebbe lontano dalla realtà, proprio perché quest'ultima è in movimento. Se assumessimo dati percentuali e di rappresentanza proporzionale, alla fine potremmo correre il rischio di non raccontare o di non sapere come pesare quanto di nuovo emerge nella società (mi riferisco, per esempio, a movimenti politici o culturali nuovi). I partiti e le etnie si possono contare, ma ci sono altre realtà non censibili.

Ho notato come in tutti gli interventi - probabilmente si è trattato di un lapsus - si parli sempre di televisione e mai di radio. Sottopongo alla vostra attenzione l'importanza della radio...

PRESIDENTE. Una ragione c'è: per la radio non disponiamo dei dati dell'Osservatorio di Pavia. Non lo dico per polemica nei suoi confronti, ma perché si tratta di un dato oggettivo.

PAOLO RUFFINI, Direttore del GR. Nella radio pubblica ogni giorno viene profuso un grande sforzo di obiettività. Perché, allora, a volte si viene criticati? Il diritto-dovere di critica appartiene alla libertà di manifestazione del pensiero: è difficile poter dire che in determinate situazioni sia garantito un effettivo pluralismo. Sotto questo profilo, si evidenzia uno sforzo continuo di approssimazione. Quanto alla resistenza che sarebbe opposta dalle redazioni, queste ultime offrono il dibattito su idee e notizie diverse, ogni giorno.

Per quanto riguarda la radio, mi piace ricordare lo sforzo teso ad istituire fili diretti con i cittadini, oltre che con i politici, sui problemi più vari, in modo che le notizie divengano occasione di dibattito tra diverse opinioni, il più possibile libere. E' chiaro, senatore Lombardi, che anche questioni tecniche a volte influiscono sul modo in cui le cose possono essere raccontate. Del resto, si tratta di un dato inevitabile: ogni giorno abbiamo a che fare con problemi legati alla scarsità di mezzi tecnici.

All'onorevole Paissan vorrei dire che, così come può dimostrare chiunque mi conosca, non ho mai cercato o costruito la mia nomina a direttore. La "bicicletta" mi è capitata di averla in una circostanza...

FRANCESCO SERVELLO. La bicicletta era già usata!

PRESIDENTE. Diciamo che in questo caso il ciclista era un altro!

PAOLO RUFFINI, Direttore del GR. Bipartitismo e bipolarismo. E' chiaro che lo sforzo deve essere quello di rappresentare una realtà che in questo momento è bipolare, ma una regola precisa non esiste. In politica vi sono dei soggetti che probabilmente preferirebbero una rappresentazione che sia il più proporzionale possibile, perché magari un ritorno al sistema proporzionale sarebbe da loro ben visto, legittimamente; credo che il rischio da evitare, come ha osservato l'onorevole Passigli, sia quello di un manuale Cencelli dell'informazione o di una censura preventiva, che ovviamente credo non sia nelle intenzioni di nessuno di voi.

PRESIDENTE. Grazie. Il seguito della discussione generale sul tema del pluralismo avrà luogo, come convenuto, in altra seduta.

Ricordo che la Commissione è convocata alle 20 di questa sera per l'audizione contestuale dei direttori delle tre reti televisive e di quello dei programmi radio.

La seduta termina alle 16,50.

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