AFFARI COSTITUZIONALI (1ª)

LUNEDÌ 21 LUGLIO 2008
24ª Seduta (notturna)

Presidenza del Presidente
VIZZINI

La seduta inizia alle ore 21,15.


MATERIA DI COMPETENZA

Seguito dell'esame, ai sensi dell’articolo 50, comma 1, del Regolamento, della questione se il Senato debba promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato innanzi alla Corte costituzionale con riguardo alla sentenza n. 21748, resa dalla Corte di cassazione - Prima sezione civile, in data 16 ottobre 2007 e alle decisioni successive e consequenziali adottate da altri organi di giurisdizione, a proposito del noto caso della giovane Eluana Englaro.
(Seguito e conclusione dell'esame)

Prosegue l'esame, sospeso nell'odierna seduta pomeridiana.

Il senatore CASSON (PD) ritiene che la mozione presentata dal senatore Cossiga e da altri senatori costituisca una provocazione istituzionale: gli stessi proponenti, a suo avviso, sono consapevoli della inammissibilità del conflitto di attribuzione. Infatti, anzitutto appare carente la legittimazione: è il Parlamento nel suo insieme e non il solo Senato che può sollevare il conflitto in qualità di organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere legislativo; né sussisterebbe il requisito per quanto riguarda il potere giudiziario: avendo la Corte di cassazione annullato con rinvio la sentenza della Corte d’appello di Milano, la volontà del potere giudiziario è evidentemente ancora non definitiva.
Inoltre, a suo avviso, sia la Corte d’appello di Milano sia la Corte di cassazione, come sottolinea la stessa relazione del presidente Vizzini, hanno applicato princìpi generali dell’ordinamento, in particolare l’articolo 32 della Costituzione e il principio del consenso informato sancito da numerose norme di diritto internazionale, nonché dal codice di deontologia medica.
Anziché censurare la Corte di cassazione, il Parlamento dovrebbe esercitare la sua funzione, discutendo e approvando una legge in materia. In proposito, ricorda che nella scorsa legislatura si era determinato un vasto consenso tra le forze politiche sulla questione del testamento biologico, un punto di partenza dal quale si dovrebbe ripartire per una rinnovata iniziativa legislativa, mantenendo distinto, da quello dell’eutanasia, il tema delle modalità per l’espressione della volontà riguardo al proseguimento di trattamenti terapeutici inutili.
Conclude, respingendo l’ipotesi di un conflitto di attribuzione, che a suo giudizio sarebbe senz’altro dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale.

Il senatore SANNA (PD) sottolinea la necessità di assicurare un’interpretazione evolutiva delle norme. In proposito, osserva che l’articolo 32, secondo comma, della Costituzione, in base al quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, con il progresso delle tecniche terapeutiche assume un significato più incisivo rispetto all’epoca in cui fu approvata la Carta costituzionale.
A suo avviso, allora, al giudice non può essere impedita una elaborazione interpretativa che possa colmare il vuoto legislativo; e il Parlamento non dovrebbe trasformarsi in un ulteriore giudice, mentre dovrebbe assolvere la sua funzione primaria che è quella di legiferare.
Osserva, inoltre, che un conflitto di attribuzione, anche in caso di ammissibilità, non consentirebbe di raggiungere lo scopo di sospendere il decreto della Corte d’appello di Milano: infatti, tale effetto è previsto solo nell’ipotesi di questione di legittimità costituzionale.

La senatrice DELLA MONICA (PD) ribadisce l’opinione, già sostenuta nella Giunta per il Regolamento, secondo cui l’esame da parte della Commissione affari costituzionali è utile per evitare il rischio di sollevare avventatamente un conflitto di attribuzione. A suo avviso, non sussistono i requisiti del conflitto: anzitutto, perché l’articolo 70 della Costituzione attribuisce a entrambe le Camere l’espressione della volontà del potere legislativo, ma soprattutto perché l’articolo 37 della legge n. 87 del 1953 prevede che la verifica della Corte costituzionale definisca le competenze di organi che dichiarano definitivamente la volontà del potere cui appartengono. Ora, a suo avviso, non può considerarsi definitiva la sentenza della Corte di cassazione: avendo l’obbligo di decidere, essa ha fatto ricorso, come indicato dall’articolo 12 delle preleggi, ai princìpi generali dell’ordinamento, in particolare gli articoli 32 e 2 della Costituzione, il principio del consenso informato e il codice di deontologia medica; né può trascurarsi che rimedi giurisprudenziali sono ancora disponibili o in corso. Del resto, se si ammettesse il conflitto di attribuzione in questo caso, ne discenderebbe la facoltà delle Camere di proporre la medesima questione per ogni ambito non coperto dalla legislazione.

Il senatore D'AMBROSIO (PD), nel condividere le valutazioni di molti senatori dell'opposizione, ritiene che non vi sia materia del contendere. La magistratura infatti non ha esercitato abusivamente la funzione legislativa, ma agito, nel rispetto dell'articolo 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, applicando, per la risoluzione della controversia, i princìpi generali dell'ordinamento giuridico.
Pur consapevole della necessità di non entrare nel merito della vicenda, ritiene che il caso della giovane Eluana Englaro, nella sua tragicità, imponga alla coscienza di ciascuno l'obbligo di riflettere sul senso della dignità umana e sul rispetto delle scelte individuali circa le fasi terminali dell'esistenza. Ricorda al riguardo che, in più occasioni, la ragazza aveva manifestato la sua contrarietà a subire trattamenti sanitari obbligatori nel caso in cui si fosse trovata in condizione di non poter disporre delle proprie facoltà. L'alimentazione artificiale e le altre cure, alle quali Eluana viene sottoposta, configurano dunque un'ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, a cui, ai sensi dell'articolo 32 della Costituzione, nessuno, senza un’esplicita previsione di legge, può essere sottoposto.
Nel richiamare alcuni casi simili, ricorda che la giurisprudenza di merito ha uniformemente affermato il principio della indisponibilità delle scelte individuali in materia di salute, riconoscendo a ciascuno il diritto inalienabile di decidere sul proprio futuro.
Nel ribadire la sua contrarietà alla sollevazione di un conflitto di attribuzione, osserva che, qualora la maggioranza parlamentare ritenesse di dover disciplinare la materia, dovrebbe percorrere la via ordinaria, approvando una legge che, non essendosi formato giudicato, potrà trovare applicazione anche per il caso di Eluana.

La senatrice PORETTI (PD), nel criticare la proposta di sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri, osserva che il legislatore, proprio nel momento in cui pretende di promuovere il conflitto per una presunta invasione delle proprie sfere, finisce paradossalmente per ledere l’autonomia inviolabile del potere giudiziario, pretendendo di sindacare l'attività interpretativa del giudice contenuta in una sentenza, solo perché non condivisa.
Ricorda che ciascun giudice, in ragione del divieto del non liquet, deve risolvere la controversia sottoposta alla sua cognizione in ogni caso, anche in assenza di una norma ad hoc, soccorrendo, in tale ipotesi, i criteri d'interpretazione contenuti nell'articolo 12 delle disposizioni preliminari al codice civile. Osserva, inoltre, che pur in mancanza di una norma di legge specifica, oltre all'articolo 32 della Costituzione, che esprime con chiarezza il principio del divieto di trattamento sanitario obbligatorio, numerosi documenti internazionali contengono riconoscimenti espliciti del diritto di autodeterminazione di ciascuno circa la fine della propria esistenza.
Considerando che Eluana Englaro aveva più volte manifestato la sua contrarietà ad essere mantenuta in vita nell'ipotesi in cui avesse perduto tutte le facoltà mentali, la senatrice ritiene che il trattamento al quale la giovane viene attualmente sottoposta violi l'articolo 32 della Costituzione, rappresentando un’esplicita negazione della sua libertà di autodeterminazione.
Pretendere di sollevare un conflitto di attribuzione, solo perché un giudice ha deciso su un tema non disciplinato da una normativa specifica, può costituire a suo avviso un pericoloso precedente, essendo numerosissimi i casi in cui il potere giudiziario supplisce, con la sua attività di interpretazione sistematica, alle lacune legislative.
Qualora la maggioranza ritenga di introdurre, nell'ordinamento giuridico italiano, il principio della indisponibilità della vita anche da parte del suo titolare, imponendo alla collettività una scelta di parte, legata ad una particolare visione religiosa, lo dovrà fare eventualmente con una legge costituzionale, assumendosi la responsabilità di favorire una deriva confessionale dello Stato.

Il senatore Ignazio MARINO (PD) sottolinea che la sentenza della Corte di cassazione ha effetti solo inter partes e dunque non può essere assimilata a un atto normativo, come sostenuto dal Presidente relatore. A suo avviso, il Parlamento dovrebbe proseguire l’attività avviata nella scorsa legislatura e approvare una disciplina legislativa del testamento biologico: sarebbe possibile un ampio consenso, visto che nella XIV legislatura fu votata in Commissione con larga maggioranza una iniziativa legislativa sostanzialmente identica nei princìpi e nei contenuti al disegno di legge da lui presentato nella legislatura in corso (Atto Senato n. 10).
Dopo aver ricordato le disposizioni deontologiche che in coerenza con il dettato costituzionale escludono il proseguimento di trattamenti medici inutili e contro la volontà della persona, auspica una disciplina che stabilisca il pieno rispetto della volontà del paziente.

Il senatore LI GOTTI (IdV) osserva che l’articolo 70 della Costituzione implica che il Senato non possa assumere in sé la titolarità del potere legislativo; in proposito, ricorda che la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità a ricorrere della Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, proprio in virtù della composizione bicamerale e della competenza a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene.
D’altro canto, a suo giudizio, è carente il requisito di una volontà espressa dal potere giudiziario in forma definitiva: di conseguenza, non sussiste neppure la residualità del ricorso alla Corte costituzionale, in quanto la sentenza della Corte di cassazione postula un’ulteriore pronuncia del potere giudiziario.
Dopo aver sottolineato che la sentenza di annullamento con rinvio appare pienamente rispettosa dell’articolo 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, osserva che la proposta contenuta nella relazione del Presidente relatore, di ottenere dalla Corte costituzionale una definizione dei confini della discrezionalità ermeneutica del giudice, identificando il limite oltre il quale tale potere può ledere l’esercizio della funzione legislativa, quindi in definitiva di interpretare il citato articolo 12 delle preleggi, non si configura come conflitto di attribuzione ai sensi dell’articolo 134 della Costituzione.

Il presidente VIZZINI, relatore, intervenendo per la replica, ringrazia i senatori intervenuti nel dibattito che ritiene assai proficuo. Precisa che la proposta di sollevare un conflitto di attribuzione non significa contestazione del potere giudiziario e risponde all’opportunità di risolvere un dubbio fondato sui confini dell’attività interpretativa rispetto a quella legislativa. Inoltre, ricorda che la Camera dei deputati sta procedendo nello stesso senso, per cui viene meno l’obiezione sulla legittimazione del Parlamento a sollevare il conflitto di attribuzione.
Avverte che si procederà alla votazione della relazione da lui presentata, pubblicata in allegato al resoconto della seduta pomeridiana.

Il senatore BIANCO (PD) dichiara, a nome del suo Gruppo, il voto contrario sulla proposta di relazione del Presidente. Richiamando le critiche avanzate dai senatori dell'opposizione intervenuti nel dibattito, ribadisce due delle molteplici considerazioni emerse nella discussione. In primo luogo, osserva che la sentenza della Corte di cassazione non è definitiva, avendo essa esclusivamente disposto un annullamento con rinvio al giudice d'appello. In secondo luogo, rileva che la promozione del conflitto viola il principio di separazione dei poteri, in quanto rappresenta una censura nel merito di una pronuncia giurisdizionale, rispetto alla quale l'ordinamento conosce esclusivamente i rimedi processuali ordinari. Richiamando la costante giurisprudenza costituzionale in materia, ritiene che il Senato della Repubblica non debba promuovere un’azione temeraria, che molto probabilmente si concluderà con una pronuncia di inammissibilità per difetto di presupposti.
Pur consapevole della rilevanza della materia, che merita ben più ampi approfondimenti da parte delle Commissioni competenti, deplora la decisione di costringere il Parlamento ad occuparsi di un conflitto di attribuzione, quando molti e gravi sono i problemi che assillano il Paese e che richiedono un intervento rapido ed efficace del legislatore.

Il senatore PARDI (IdV), dopo aver ringraziato tutti i senatori intervenuti per l'apporto ricchissimo che hanno offerto al dibattito, ribadisce la sua contrarietà alla promozione di un conflitto di attribuzione, rilevando l'impossibilità, al di là delle intenzioni, di poter scindere la questione strettamente giuridico-costituzionale dalle valutazioni di merito sul doloroso caso della giovane Eluana Englaro.
Nell'esprimere, a nome del suo Gruppo, il voto contrario sulla proposta di relazione del senatore Vizzini, rileva che in tal modo una Camera elettiva interviene impropriamente nel corso di un procedimento giudiziario non ancora definito. Sotto la veste formale di un conflitto di attribuzione, la maggioranza, a suo avviso, dissimula la propria contrarietà alla soluzione giuridica contenuta nella sentenza in questione.

Accertata la presenza del prescritto numero di senatori, la Commissione approva la relazione proposta dal presidente Vizzini, relatore. La relazione alternativa proposta dal senatore Ceccanti e da altri senatori è quindi preclusa.

Il senatore CECCANTI (PD) annuncia che la proposta di relazione alternativa da lui avanzata insieme ad altri senatori sarà presentata in occasione della discussione in Assemblea come relazione di minoranza della 1ª Commissione permanente.

A nome del suo Gruppo, si associa il senatore PARDI (IdV).


La seduta termina alle ore 22,50.

RELAZIONE APPROVATA DALLA COMMISSIONE
SULLA MATERIA DI COMPETENZA

La questione in esame è l'eventualità che il Senato promuova un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, innanzi alla Corte costituzionale, riguardo alla sentenza della Corte di cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 e ai provvedimenti giurisdizionali successivi e consequenziali, in particolare il decreto della Corte d'Appello di Milano - I Sezione civile, in data 25 giugno 2008.
Si tratta del noto caso della giovane Eluana Englaro, sul quale è infatti intervenuto, da ultimo, il decreto della Corte d'Appello di Milano, che trova il suo presupposto nella sentenza della Corte di cassazione.
Il rilievo della vicenda, per le competenze della Commissione, consiste in una valutazione e in una determinazione propositiva per l'Assemblea circa un'eventuale ragione di conflitto tra il potere legislativo e quello giudiziario. Infatti, si può ritenere, in linea di principio, che vi siano fattispecie non regolate specificamente dalla legge e si tratti, come nel caso in questione, di eventi e decisioni che esigono invece una base legislativa, a costo, altrimenti, di poter compromettere la tutela di valori e beni costituzionalmente protetti, tra i più rilevanti, come la vita stessa delle persone. In tali evenienze sarebbe impossibile surrogare la mancanza della norma di legge con un atto di giurisdizione che, fuori da ogni canone ermeneutico legittimamente fondato, nella forma della pronuncia di un giudice avrebbe la sostanza di un atto di legislazione del caso concreto.
Al fine di conferire una base normativa alla propria pronuncia, la Corte di cassazione cita in sentenza gli articoli 13 e 32 della Costituzione - nei quali si proclama sia l’inviolabilità della libertà personale (cioè “la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo”, come si evince, tra l’altro, da Corte costituzionale, sentenza n. 471 del 1990) sia la tutela la salute, come fondamentale diritto dell’individuo e come interesse della collettività - la legge 23 Dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale) - nella quale si enuncia il principio del “consenso informato”, quale base del rapporto medico-paziente ispirato alla natura generalmente volontaria degli accertamenti e trattamenti sanitari - e infine, quali fonti sopranazionali, la Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (Oviedo, 4 Aprile 1997) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 Dicembre 2000). A queste aggiungeva il Codice di deontologia medica (2006), al cui articolo 35 è sancito come “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”.
È proprio dall’insieme di tali norme che il giudice di legittimità deduce come debba “escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”, ritenendo “che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva”. E a suffragio di tale orientamento richiamava, inoltre, alcune sentenze di giudici stranieri dalle quali si ritiene di poter ricavare - in termini sostanzialmente omogenei - l’esistenza di un generico diritto di ciascuno, a prescindere dalla condizione fisica e se comunque capace, “a rifiutare un trattamento indesiderato per il mantenimento in vita” (in proposito si veda Corte Suprema degli Stati Uniti, 26 Giugno 2006; House of Lords, 4 Febbraio 1993; Bundesgerichtshof, 17 Marzo 2003).
Dalla premessa ricostruzione ermeneutica emerge con evidenza, tuttavia, un dato inequivocabile: la carenza, nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano, di una organica disciplina normativa destinata espressamente a regolamentare la materia della “interruzione volontaria della vita” (ovvero, “eutanasia”). E ciò si ricava, in effetti, proprio alla stregua delle predette fonti - evocate dalla Corte di cassazione in motivazione - posto che in nessuna delle stesse è dato riscontrare la ricorrenza di alcuna norma funzionale a definire una fattispecie identica o analoga a quella in esame.
Che l’ordinamento giuridico italiano sia attualmente privo di una disciplina di diritto positivo finalizzata a regolamentare in modo sistematico i casi di “eutanasia” (o di “diritto alla morte”) è ben presente, invero, anche al giudice di legittimità; questi ne dà atto, infatti, laddove rileva come la fattispecie su cui è chiamato a pronunciarsi sia caratterizzata dalla “attuale carenza di una specifica disciplina legislativa”, tuttavia ritenendo - proprio per tal motivo - di poter assicurare comunque “il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti” mediante la imposizione in capo al giudice della “opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali” (così citando Corte costituzionale, sentenza n. 347 del 1998).
È stato giustamente notato invece come, allo stato attuale, la sola disciplina normativa che dovrebbe e potrebbe essere richiamata - quale effettiva base giuridica - in un caso del genere è quella contemplata negli artt. 579 e 580 c.p. relativi, rispettivamente, ai delitti di “omicidio del consenziente” e di “aiuto al suicidio”. Come ha ben rilevato Giuliano Vassalli, proprio in riferimento al caso in questione: “i punti di riferimento sono chiarissimi: c’è il diritto costituzionale alla vita […] ricompreso nel quadro dei diritti umani generalmente riconosciuti […] e c’è il nostro Codice penale […] Allora non so da quali principi del diritto vigente si possano trarre decisioni simili […] Le si può forse trarre da principi umanitari e ideali, ma non in base al diritto vigente”.
In ultima analisi, all’espresso riconoscimento anche da parte della Corte di cassazione della mancanza di una base giuridica di diritto positivo per la regolamentazione della materia fa riscontro - ai fini dell’accoglimento del ricorso - la “creazione” da parte della stessa di un vero e proprio principio di diritto (cioè il divieto di accanimento terapeutico) certo conforme alla richiesta avanzata dal ricorrente ma in apparente contrasto con le uniche norme di diritto positivo che attualmente possono ritenersi applicabili ad una simile fattispecie. E ciò, quindi, conduce ben aldilà del solo onere di “ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione [dei] beni costituzionali”, spettando invece al legislatore di individuare “il punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti” (così, rectius, Corte costituzionale, sentenza n. 347 del 1998).
Sotto tale profilo sembra emergere, dunque, una ipotesi di conflitto fra l’esercizio della funzione giurisdizionale - costituzionalmente attribuita alla magistratura e funzionalmente garantita dagli articoli 101 e 102 Cost: “i giudici sono soggetti soltanto alla legge […] la funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari” - e l’esercizio della funzione legislativa - attribuita in via esclusiva al Parlamento e garantita ex art. 70: “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” - riconducibile alla cognizione della Corte costituzionale.
Si ritiene opportuno sottoporre al giudizio della Consulta il caso in esame, in quanto in esso sembra esprimersi una presunta “potenzialità offensiva” del provvedimento della autorità giudiziaria rispetto all’esercizio della potestà legislativa. Premessa, infatti, la piena legittimità costituzionale della esplicazione del potere giudiziario nella interpretazione ed applicazione della legge, nel caso di “creazione” giurisprudenziale di un principio di diritto - alla stregua del quale il giudice decida una controversia - invece pare di potersi ravvisare una ipotesi di “usurpazione” della attribuzione (costituzionale) di produzione normativa riservata, in via esclusiva, al potere legislativo.
Nel caso in esame si può ritenere, infatti, che il potere giudiziario si sia materialmente sostituito al potere legislativo, al quale solo spetta la funzione “nomogenetica” a fronte di quella “nomofilattica” attribuita al primo; e ciò in aperto contrasto con il principio di separazione dei poteri, espresso anche nella “teoria della Costituzione scritta”, alla garanzia della quale il giudizio per conflitto di attribuzioni è preordinato.
La sentenza della Corte di cassazione - ponendo a fondamento dell’accoglimento della richiesta di parte presupposti di fatto non ricavabili da alcuna norma di diritto positivo (ossia la irreversibilità della condizione di stato vegetativo e l’effettiva ed espressa volontà del soggetto) - sembra configurasi, insomma, come atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell’ordinamento normativo vigente, adottato per via giudiziaria dal giudice di legittimità al quale compete, invece, la verifica della corretta applicazione del diritto vigente da parte dei giudici di merito.
Infine si propone di sottoporre, dunque, alla Corte costituzionale - nell’ambito del giudizio per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato - una definizione dei confini della discrezionalità ermeneutica del giudice, identificando - con particolare riferimento alla materia in esame - il limite oltre il quale tale potere, comunque costituzionalmente garantito, finisca per ledere l’esercizio della funzione legislativa, invece conferito al Parlamento. Così distinguendo - in termini sistematico-funzionali - il potere (esclusivamente parlamentare) di creazione delle leges da quello (esclusivamente giudiziario) di enucleazione degli iura.
L'ipotesi di delineare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato risulta fondata su ragioni solide: in tal modo la Corte costituzionale potrà stabilire se spetti o meno alla giurisdizione di risolvere casi non regolati dalla legge, in particolare quando una specifica norma di legge sia costituzionalmente necessaria quale presupposto indefettibile per sentenze o altre pronunce del giudice come quelle in questione.
Per i motivi esposti, la Commissione affari costituzionali propone all'Assemblea del Senato di sollevare, sulla questione esaminata, un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale.

PROPOSTA ALTERNATIVA DI RELAZIONE
SULLA MATERIA DI COMPETENZA

La 1a Commissione

Premesso che

Si esamina la questione relativa all’eventuale elevazione di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ai sensi dell’art. 134, secondo alinea della Costituzione, nei confronti della Corte di Cassazione, ritenendosi che, con la sentenza n. 21748 del 16.10.2007, la I Sezione della Cassazione civile, attraverso un’interpretazione sostanzialmente ‘creatrice’, possa avere menomato la competenza del Parlamento, esercitando una funzione essenzialmente legislativa e non meramente applicativa della normativa vigente;
in relazione alla funzione legislativa, l’organo deputato a “dichiarare definitivamente” la volontà del rispettivo potere non è la singola Camera, ma il Parlamento nella sua collegialità, come peraltro può evincersi da una consolidata giurisprudenza costituzionale, che ha ammesso la costituzione in giudizio separata delle due Camere, solo in relazione alla contestazione di funzioni esclusive proprie di ciascuna Camera, per le quali ognuna di esse può assumere la caratteristica di ‘potere dello Stato’ (cfr., ex plurimis, ord. Nn. 339/1996 e 132/1997);
dal momento che la funzione legislativa è esercitata “collettivamente dalle due Camere”, una singola Camera non potrebbe rivendicare l’esercizio del potere legislativo – contestandone la lesione da parte del potere giudiziario – in assenza di analoga deliberazione da parte dell’altro ramo;
l’eventuale mancato avvio di una procedura congiunta da parte delle Presidenze di ciascuna Camera, in ordine alla possibile elevazione di un conflitto di attribuzione, determinerebbe necessariamente l’improcedibilità della proposta in esame;

Considerato che
la sentenza contestata non ha autorità di cosa giudicata se non limitatamente al principio di diritto statuito in sentenza ed è quindi priva del requisito della definitività che deve caratterizzare l’oggetto del conflitto di attribuzione;
al fine di risolvere la controversia sottoposta al suo esame- con una decisione che peraltro ha efficacia limitata alle parti e come tale è priva dell’efficacia erga omnes che caratterizza invece la fonte normativa – la Corte di Cassazione ha applicato la normativa vigente, colmando l’asserito vuoto legislativo con un’interpretazione non già analogica o estensiva, ma teleologica e adeguatrice. Tale attività ermeneutica non potrebbe quindi qualificarsi quale interpretazione creatrice e pertanto come esercizio della funzione legislativa;
la giurisprudenza costituzionale è univoca nel ritenere che rispetto ad atti giurisdizionali si può lamentare solo il difetto di potere dell’organo emanante, non potendosi in alcun modo sindacare nel merito errores in judicando, né tantomeno l’interpretazione giudiziale della legge, rispetto alla quale il giudice gode di incondizionata autonomia. Con la sent. 290/2007, in particolare, la Consulta ha affermato di avere più volte precisato che i conflitti intersoggettivi aventi ad oggetto atti di natura giurisdizionale non possono risolversi in mezzi impropri di censura del modo di esercizio della funzione giurisdizionale. Avverso «gli errori in iudicando di diritto sostanziale o processuale, infatti, valgono i rimedi consueti riconosciuti dagli ordinamenti processuali delle diverse giurisdizioni; non vale il conflitto di attribuzione» (così le sentenze n. 2 del 2007 e n. 27 del 1999; nello stesso senso, le sentenze n. 150, 222 e 223 del 2007). In altri termini, a questa Corte spetta risolvere i conflitti di attribuzione ripristinando la corretta osservanza delle norme costituzionali nei casi in cui, a causa di un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, questa abbia dato luogo ad una illegittima menomazione delle attribuzioni costituzionali di un altro potere, ma senza sostituirsi al giudice comune per l'accertamento in concreto dell'applicabilità della clausola di esclusione della responsabilità (sentenza n. 154 del 2004, punto 5 del considerato in diritto).(…) A questa Corte non può richiedersi di sostituirsi al giudice di legittimità nel controllo della corretta applicazione dei princípi di diritto enunciati dallo stesso giudice”;
l’assenza di una disciplina specifica delle scelte di fine vita determina comunque di fatto la possibilità per l’autorità giudiziaria – tenuta a decidere in forza del divieto di non liquet- di accedere a interpretazioni diverse delle norme vigenti, sia pure nel rispetto dei parametri ermeneutici di cui all’articolo 12 delle disposizioni preliminari al codice civile. Qualora volesse limitare tale possibilità, ben potrebbe il Parlamento disciplinare la materia in esame, evitando così l’elevazione di un conflitto interorganico che allo stato appare meramente ipotetico;
nel caso in esame peraltro, il conflitto di attribuzioni appare privo del requisito di sussidiarietà che caratterizza necessariamente tale strumento, dovendo esso rappresentare il solo rimedio non sostituibile da altri strumenti di contestazione. In particolare, è a tutt’oggi ancora nella disponibilità delle parti l’attivazione di rimedi endo-processuali avverso la decisione del giudice di rinvio. Per altro verso, la carenza, in tal caso, del requisito di sussidiarietà del conflitto interorganico, si evince dalla possibilità per il Parlamento di evitare tale rimedio, con l’esercizio della funzione legislativa che si assume lesa;
propone
di non procedere all’elevazione del conflitto di attribuzioni di cui in premessa

CECCANTI, BIANCO, VITALI, MARINO MAURO, BASTICO, DE SENA