GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITA' PARLAMENTARI

LUNEDÌ 21 GENNAIO 2008
68ª Seduta

Presidenza del Presidente
NANIA

La seduta inizia alle ore 16,20.

SULLA COMPOSIZIONE DELLA GIUNTA

Il Presidente NANIA annuncia che il Presidente del Senato gli ha comunicato la sostituzione, quale componente della Giunta, del senatore Izzo col senatore Giuliano. Propone che, conformemente ai precedenti, il subentrante si accolli la relazione del senatore dimissionario, che nella fattispecie era quella dell’Emilia Romagna.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) prende atto della sostituzione, ma dichiara che le dimissioni non sono ammissibili in ragione del principio di inamovibilità sancito dall’articolo 19 comma 2 del Regolamento: il presidente Marini avrebbe dovuto dar conto del conflitto di interessi in cui versava il senatore Izzo, per valersi dell’unica deroga contemplata dal Regolamento. Invece, l’ipocrisia delle dimissioni realizza un’inaccettabile copertura dello stato di incompatibilità in cui per mesi ha versato il senatore Izzo, la quale si riverbererebbe sulla posizione del nuovo relatore per l’Emilia Romagna se questi fosse il subentrante. Richiede pertanto che il Presidente del Senato sia investito della questione, stante la nullità della sostituzione e l’illegittimità della conseguente decisione di subentro.

Il Presidente NANIA replica che – non essendo sindacabile in Giunta la decisione del Presidente del Senato – non vi è margine per nuove questioni interpretative sulla norma regolamentare invocata; quanto al subentro nella posizione di relatore, essa è conforme a numerosi precedenti di questa e della scorsa legislatura: in proposito, comunque, richiede l’avviso della Giunta.

Previa dichiarazione di voto favorevole del senatore CASSON (PD-Ulivo) , la Giunta conviene a maggioranza con la proposta del Presidente ed il senatore Giuliano è conseguentemente investito della funzione di relatore per l’Emilia Romagna.

SULLA PUBBLICITA' DEI LAVORI

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum), stante l’estrema rilevanza della materia all’ordine del giorno, richiede che la Giunta disponga la pubblicità degli atti propedeutici alle decisioni da assumere: in particolare, il riassunto dei lavori dovrebbe contenere le parti delle relazioni concernenti la posizione di ciascun relatore sui ricorsi presentati (posto che, in ordine alla narrativa dei ricorsi proposti e dei controinteressati, appare sufficiente il rinvio a quanto pubblicato in Giunte e Commissioni n. 42 del 26 settembre 2006, pagg. 12-19), nonché la relazione conclusiva dei lavori del Comitato inquirente depositata da lui stesso sin dal 15 febbraio 2007 ed i resoconti stenografici delle sedute del medesimo Comitato svoltesi tra il novembre ed il dicembre 2006.

Conviene unanime la Giunta.

VERIFICA DEI POTERI
Esame congiunto delle regioni Piemonte, Emilia Romagna, Liguria, Campania, Lazio e Puglia

Il Presidente NANIA avverte che il senatore Ripamonti, relatore per la Liguria, ha addotto preminenti impegni politico-parlamentari che gli impediscono di presenziare; come da intese precedentemente comunicate alla Giunta, la Presidenza riassumerà in sé la funzione di relatore.

Sull’ordine dei lavori, il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) richiede se il conferimento dell’incarico di relatore al senatore Giuliano non comporti la necessità di una specifica preparazione alla funzione attribuitagli.

Sull’opportunità di conoscere l’orientamento del nuovo relatore, in merito alla relazione già depositata dal suo predecessore, concorda il senatore Antonio BOCCIA (PD-Ulivo) .

Il Presidente NANIA replica che, per conseguire quanto richiesto, basta attendere che il senatore Giuliano svolga la sua relazione, essendo il deposito di relazioni scritte un requisito non obbligatorio.

Il senatore GIULIANO (FI), relatore per la regione Emilia Romagna, dichiara che condivide la relazione del senatore Izzo e che, nella sua allocuzione, la farà propria.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum), relatore per il Piemonte, dopo aver notato che la dichiarazione testé resa riverbera sulla relazione del senatore Giuliano il conflitto di interessi del senatore Izzo, procede ad illustrare i lavori del Comitato inquirente da lui presieduto con la relazione di cui all’allegato 1.
Il presupposto con il quale la Giunta, l'11 ottobre 2006, decise di costituire un Comitato inquirente, non è e non può essere considerato meramente defatigatorio. Esso, al contrario, corrisponde ad una ben precisa linea di tendenza dell'ermeneutica giuridica, che si inscrive non soltanto in un solco plurisecolare di diritto continentale, ma anche lungo una direttrice recentemente valorizzata nel Common Law.
Proprio l'associazione di cui è presidente Massimo Luciani - autore del parere pro veritate prodotto dai senatori che resistono ai ricorsi proposti sulla clausola del 3 per cento - lo scorso 5 ottobre 2007 ha svolto a Catania un seminario di studio sul valore da attribuire ai lavori preparatori, in sede di interpretazione delle norme giuridiche. In quella sede, il “Gruppo di Pisa” e gli altri costituzionalisti convenuti hanno ricordato la svolta interpretativa che nel diritto anglosassone si è avuta nel 1992 con la decisione della Camera dei Lord nel caso Pepper contro Hart: vi si è consentito, per la prima volta, il ricorso agli atti preparatori delle leggi, ma alla sola condizione che la legge da applicare risulti ambigua od oscura, la cui lettera conduca a conseguenze assurde; per converso, gli atti preparatori invocabili possono soltanto riguardare dichiarazioni chiarificatrici rese dal proponente del testo.
È chiaro che l'esigenza sottesa a tale precettistica è la medesima che ha mosso questa Giunta all'approfondimento del Comitato inquirente: evitare che, per norme di legge applicabili, si faccia ricorso a criteri interpretativi ulteriori, volti a sormontare la lettera di una legge che è chiara, anche se può spiacere all'interprete. Ebbene, nessuno degli interventi invocati a sostegno dell'interpretazione data dal professor Luciani è reso da un proponente del testo: il senatore Pastore, a rigore, non era neppure un relatore, perché la Commissione affari costituzionali non aveva completato i suoi lavori. Egli interveniva in Assemblea da presidente di quella Commissione solo per rendere conto di tale non-esito procedurale, e la parte del suo intervento perspicua ai fini dei resistenti non fu neppure letta in seduta, ma solo allegata al resoconto dell'Assemblea di quel giorno.
Nient’altro resta, agli atti; o meglio, resta la posizione di chi può dirsi più vicino possibile ad un proponente, cioè che elaborò il testo nell’unica lettura che incise con modifiche rispetto al testo del ministro Calderoli proponente: il deputato Donato Bruno, che nel corso della seduta alla Camera dei deputati del 29 settembre 2005, da relatore affermò che per il riparto dei seggi al Senato "non trova applicazione alcuna soglia di sbarramento". Quanto all’esame in Senato, non si ritenne – nel respingere l’emendamento proposto dal senatore Mancino, volto ad introdurre la clausola di sbarramento anche nelle Regioni sotto soglia – di presentare alcun ordine del giorno interpretativo, per cui neppure nella logica del professor Ceccanti si riscontra qualche appiglio significativo nel senso di indirizzare l’interprete in una direzione diversa da quella offerta dalla lettera della norma.
Ecco quindi sventata ogni possibile confutazione del ricorso negli atti preparatori. Ma soprattutto, ecco sventata la tesi secondo cui la lettera della legge richiederebbe interpretazione sistematica, perché assurda nelle sue conclusioni letterali: tanto poco è vero questo, che il relatore della Camera ritenne perfettamente ammissibile tale lettura. All’interprete può spiacere, ma all’epoca della formazione della legge non era così. Lo diventa ora, con la logica che più di ogni argomento giuridico fa premio: la logica dei vincitori, di coloro che sono dentro e sono chiamati a giudicare se è giusta la pretesa di coloro che sono fuori. Ma non basta questo per considerare l’applicazione letterale della norma come una conseguenza assurda: lo sarebbe se scopo del giudizio di verifica dei poteri fosse salvaguardare posizioni consolidate, anche se illegittimamente conseguite; non lo è se si intende l’articolo 66 della Costituzione come la fonte di una grande responsabilità, che se male esercitata porterà allo stesso esito che ha affondato l’autorizzazione a procedere dopo decenni di abusi.
Ricercare percorsi additivi è frutto di scarso rispetto della legalità, perché interpretare una norma si può solo quando nella sua lettera non funziona. Ma per un sovrappiù di scrupolo, dimostrazione dell’onestà intellettuale con la quale ha cercato di svolgere il suo compito, il relatore per il Piemonte ha inteso – con la proposta subordinata di adire la Corte costituzionale – fare propria anche l’esigenza sistematica rappresentata dagli esperti che hanno denunciato l’irragionevolezza dell’impianto che si verrebbe a creare leggendo la norma per quello che è, ossia una disarmonia rispetto a quanto disposto per la Camera dei deputati e per le Regioni sopra soglia. Richiede pertanto che si faccia votazione autonoma anche di tale proposta subordinata.

Il senatore GIULIANO (FI), relatore per l’Emilia Romagna, conformemente a quanto dichiarato si riporta alla relazione già depositata, che sulla questione del ricorso proposto in riferimento alla clausola del 3 per cento recita:
“L’articolo 17 comma 3 recita: “Nel caso in cui la verifica di cui al comma 2 abbia dato esito positivo, l'ufficio elettorale regionale individua, nell'àmbito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'articolo 16, comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi. Procede quindi, per ciascuna coalizione di liste, al riparto, tra le liste ammesse, dei seggi determinati ai sensi del comma 1. A tale fine, per ciascuna coalizione di liste, divide la somma delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste ammesse al riparto per il numero di seggi già individuato ai sensi del comma 1, ottenendo così il relativo quoziente elettorale di coalizione. Nell'effettuare tale divisione non tiene conto dell'eventuale parte frazionaria del quoziente. Divide poi la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista ammessa al riparto per il quoziente elettorale di coalizione. La parte intera del quoziente così ottenuta rappresenta il numero dei seggi da assegnare a ciascuna lista. I seggi che rimangono ancora da attribuire sono rispettivamente assegnati alle liste per le quali queste ultime divisioni hanno dato i maggiori resti e, in caso di parità di resti, alle liste che abbiano conseguito la maggiore cifra elettorale circoscrizionale; a parità di quest'ultima si procede a sorteggio. A ciascuna lista di cui all'articolo 16, comma 1, lettera b), numero 2), sono attribuiti i seggi già determinati ai sensi del comma 1”.
Pertanto, il presupposto della tesi argomentata nel ricorso Zobbi non è conciliabile con la norma: nella Regione in questione ha infatti avuto applicazione l’articolo 17 comma 3 del decreto legislativo n. 533 del 1993, essendo stato superato il 55% dalla coalizione vincente. Non v’è quindi motivo per prendere in considerazione il ricorso.
Per mero tuziorismo, va comunque confutata – nell’esercizio del potere officioso di verifica dei poteri, di spettanza della Giunta – ogni possibile ricostruzione ermeneutica secondo cui il problema sotteso al ricorso prescinde dalla clausola di sbarramento e, quindi, dovrebbe valere anche nelle regioni in cui non è stato assegnato il premio di maggioranza (intendendo che il comma 5 regola il riparto nella coalizione perdente anche nella regione priva di attribuzione del premio di maggioranza). Infatti, s’impone una pronuncia sull’interpretazione della soglia del 3 per cento: ebbene, la lettera della norma oggetto del quesito di diritto appare non equivoca e, peraltro, confermata dalla logica sistematica della disciplina. Il raffronto tra il comma 6 ed il comma 3 dell’articolo 17 evidenzia che, laddove il legislatore ha espressamente richiamato l'applicazione della soglia del 3%, ha testualmente citato "nell'ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'art, 16 comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi". Di contro, la norma in esame (comma 6), ove non è ripetuto il richiamo alla detta soglia di ammissione, ha inequivocabilmente richiamato la diversa espressione "liste ammesse". Unico requisito per "l'ammissione" della lista è quindi il detto superamento della soglia.
Del resto, in base ad un'interpretazione sistematica del testo dell'art. 17, comma 6, del D. Lgs. n. 533/1993, così come novellato dalla legge n. 270/2005, lo sbarramento è stato correttamente ritenuto applicabile anche nel caso di attribuzione del premio di maggioranza. Anche i moduli predisposti dal Ministero dell’interno erano conformi a questa interpretazione, indirizzando l’applicazione in conformità con quanto emerso anche nel dibattito che si era sviluppato in Parlamento in sede di approvazione della legge: il senatore Pastore, nell'illustrare all'Aula i risultati dei lavori della Commissione affari costituzionali, aveva appunto osservato che la disposizione contestata non può che interpretarsi in via sistematica nel senso che sono ammesse al riparto le sole liste della coalizione che abbiano superato la soglia del 3 per cento e che a tale conclusione giunge l'interprete che sappia padroneggiare il sistema e valorizzare la reale intentio legislatoris, giacché una interpretazione diversa stravolgerebbe il sistema della riforma elettorale (v. precisazioni del presidente Pastore, che riferiva all’Assemblea sull’esito della sede referente in carenza di relatore: allegato B) al resoconto stenografico della seduta del Senato del 28 novembre 2005). Le Corti d’appello di tutta Italia in maniera univoca e coeva si espressero per l’applicazione della norma nella maniera così prospettata, anche rigettando reclami presentati prima della proclamazione
L’opposta interpretazione risulta evidentemente infondata: ragionando diversamente, si darebbe vita ad evidenti ed irragionevoli sperequazioni tra le Regioni (e per esso tra gli eletti) nelle quali una delle due coalizioni ha raggiunto il premio di maggioranza e le altre nelle quali tale soglia non è stata raggiunta. Il premio di maggioranza al 55% è fissato dalla norma suddetta solo ai fini del riparto dei seggi e non per dar vita a due sistemi diversi di individuazione degli eletti. In definitiva, un'interpretazione costituzionalmente orientata imporrebbe di applicare rigorosamente il medesimo criterio selettivo, in presenza di identità di presupposti, a garanzia dell'uniformità del sistema elettorale che esclude pacificamente dal riparto le liste "sotto soglia" sia per la Camera, che per il Senato.”

Il Presidente NANIA, nella veste di facente funzioni relatore per la regione Liguria, si riporta alla relazione scritta già depositata dal senatore Ripamonti, che sulla questione del ricorso fondato sulla clausola del 3 per cento recita:
“Non v’è anzitutto motivo per dare corso agli esposti diversi da quello Badano, che gli stessi interessati non hanno reiterato in forma di ricorso al Senato. Le prove di resistenza effettuate (che devono verificare, basandosi sulle ipotesi più favorevoli al resistente, il “grado di resistenza” del senatore la cui elezione è contestata: X Legislatura – Seduta del 18 novembre 1987) confermano che, anche nel conteggio proposto negli esposti (sul quale il Relatore non è tenuto quindi a prendere alcuna posizione), non v’è alcuna conseguenza sulla legittimità delle proclamazioni effettuate.
Va quindi affrontata la questione della ricevibilità del ricorso Badano. La sequenza degli atti funzionali al contenzioso elettorale dinanzi al Senato registra una non perfetta sovrapposizione tra le previsioni dell'articolo 87 del decreto del Presidente della Repubblica n. 361 del 1957 (applicabile al Senato in virtù dell'articolo 27 del decreto legislativo n. 533 del 1993) e quelle dell'articolo 7 del regolamento di verifica dei poteri del Senato. Quest'ultimo conosce soltanto la nozione di "ricorso elettorale" prevedendo che debba essere sottoscritto, con firma autenticata a termini di legge, da cittadini elettori nei collegi interessati o da candidati presentatisi nei collegi stessi. Tale previsione coincide con quella del citato articolo 87 esclusivamente per il termine di venti giorni, prescritto con decorrenza dalla proclamazione del senatore la cui elezione si contesta. Per il resto, però, si registrano sensibili divergenze non solo semantiche.
L'articolo 87 non conosce l'istituto del ricorso, limitandosi ad incardinare presso le Camere il giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste ed in genere tutti i reclami; la norma distingue poi tra quelli che - tra tali atti - siano stati presentati agli Uffici elettorali (durante la loro attività o posteriormente) e quelli non presentati dinanzi ad essi: è in quest'ultimo caso che la trasmissione alla Segreteria della Camera interessata deve avvenire entro venti giorni.
Benché l'articolo 7 del regolamento di verifica dei poteri preveda che il Segretario Generale del Senato "restituisce al mittente qualsiasi reclamo, memoria o atto proveniente da ricorrenti o elettori, che sia inviato dopo il ventesimo giorno dalla proclamazione", la prassi delle Giunte è univoca nel senso di considerare che i poteri officiosi inerenti alla convalida delle elezioni possano giovarsi anche degli atti restituiti al mittente. Si tratta cioè dell'istituzionalizzazione della figura dell'esposto, nella quale si fa confluire sia la contestazione, protesta o reclamo presentati all'Ufficio elettorale, sia la protesta o reclamo non presentati all'Ufficio elettorale e pervenuti direttamente alla Segreteria della Camera competente.
L'esposto del signor Luca Dallorto del 15 aprile 2006, al di là della sua qualificazione di "ricorso cautelativo", è stato trasmesso il 15 aprile 2006 dall'Ufficio elettorale regionale ligure, posteriormente alla conclusione delle operazioni di scrutinio e della redazione del verbale elettorale regionale. È rimarchevole che nella lettera di trasmissione al Senato (del 15 aprile 2006) il presidente dell'Ufficio elettorale regionale (dottor Gianfranco Bonetto) abbia ritenuto di precisare che la posizione della lista "Insieme per l'Unione" non avrebbe subito alcuna modificazione, in virtù dell'interpretazione invocata dall'esponente, e che poi, nella decisione del 20 aprile 2006, il medesimo presidente dichiari di non doversi provvedere in ordine all'esposto 19 aprile 2006 (di precisazione del precedente) esclusivamente in ragione del fatto che le operazioni dell'Ufficio si erano già concluse il 13 aprile 2006 senza obiezione alcuna.
Alla luce di tali antefatti, è agevole notare come la tardività del ricorso della signora Badano non può considerarsi ostativa della pronuncia della Giunta in ordine alla questione di diritto che ella solleva; infatti, ben due esposti erano stati presentati nel suo interesse nelle fasi immediatamente successive alle operazioni di scrutinio di competenza degli Uffici elettorali e, nel primo dei due casi, l'esposto del 15 aprile 2006 era pervenuto abbondantemente all'interno del termine di venti giorni (essendo stato allegato al verbale delle operazioni dell'Ufficio elettorale regionale, pervenuto in Senato il 19 aprile 2006). Quanto alla qualità dell'esponente, non è richiesta dal regolamento di verifica del Senato la prova di un interesse immediato e diretto al ricorso (potendo essere presentato anche da un cittadino elettore nel collegio interessato, come presumibilmente è il signor Carlo Dallorto, delegato di lista per le elezioni del Senato della Repubblica in Liguria).
Passando al merito del ricorso, va rilevato che l’Ufficio elettorale regionale procedette al calcolo del quoziente ponendo come numeratore della frazione non già il totale delle cifre elettorali circoscrizionali di tutte le liste facenti capo alla coalizione, ma soltanto il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste che, nella coalizione, avevano conseguito più del 3%. La particolarità è che, in Liguria, anche la lista “Insieme con l’Unione” (in via di abbreviazione, definita nei prospetti “L’Unione”) figurava nelle liste ammesse al riparto, per aver essa superato il 3%: solo che, non avendo incluso al numeratore della frazione le cifre delle liste della coalizione facente capo a Prodi che non avevano conseguito il 3% (nella fattispecie Udeur, Partito pensionati, Italia dei valori e Rosa nel pugno), i 5 seggi della coalizione erano tutti esauriti dalle altre tre liste alleate e quella della ricorrente non vedeva alcun seggio scattare a suo favore.
Sebbene in astratto sarebbe possibile sostenere che il ricorso limiti il suo petitum alla richiesta di calcolare tutte le liste della coalizione nel numeratore della frazione, in concreto non può accedersi ad una lettura del ricorso, secondo cui il conteggio delle liste sotto soglia è valido ai fini della determinazione del quoziente, ma non del riparto dei seggi (che verrebbe riservato alle liste sopra la soglia del 3%): questo modus procedendi è stato già confutato, in giurisprudenza, in un caso analogo, quello della legge elettorale regionale. Per l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione 10 luglio 1997 n. 13, la tecnica proposta va respinta perché, a seguirla, il computo dei voti attribuiti alle liste rimaste al di sotto della soglia di sbarramento implicherebbe una sorta di riutilizzazione dei voti stessi, che non sono utili per i diretti destinatari; tali voti, come messo in luce nella decisione citata, verrebbero ad incidere, in maniera indiretta e, per così dire, involontaria, nella ripartizione dei seggi tra gli altri schieramenti rimasti in lizza, diversi rispetto a quelli cui i voti stessi erano stati destinati. Pertanto, la posizione rivendicata dalla signora Badano non può che essere quella di sostenere per intero le premesse del ricorso sull’interpretazione della soglia del 3 per cento, sia in concreto per sé stessa (perché in ipotesi sarebbe la beneficiaria del seggio), sia come tesi in astratto applicabile a chiunque versi nelle medesime condizioni (a prescindere dal superamento della soglia del 3%).
Ecco perché s’impone una pronuncia sull’interpretazione della soglia del 3 per cento: ebbene, la lettera della norma oggetto del quesito di diritto appare non equivoca e, peraltro, confermata dalla logica sistematica della disciplina. Il raffronto tra il comma 6 ed il comma 3 dell’articolo 17 evidenzia che, laddove il legislatore ha espressamente richiamato l'applicazione della soglia del 3%, ha testualmente citato "nell'ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'art, 16 comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi". Di contro, la norma in esame (comma 6), ove non è ripetuto il richiamo alla detta soglia di ammissione, ha inequivocabilmente richiamato la diversa espressione "liste ammesse". Unico requisito per "l'ammissione" della lista è quindi il detto superamento della soglia.
Del resto, in base ad un'interpretazione sistematica del testo dell'art. 17, comma 6, del D. Lgs. n. 533/1993, così come novellato dalla legge n. 270/2005, lo sbarramento è stato correttamente ritenuto applicabile anche nel caso di attribuzione del premio di maggioranza. L’opposta interpretazione risulta evidentemente infondata: ragionando diversamente, si darebbe vita ad evidenti ed irragionevoli sperequazioni tra le Regioni in cui una delle due coalizioni ha raggiunto il premio di maggioranza e le altre in cui tale soglia non è stata raggiunta. In definitiva, un'interpretazione costituzionalmente orientata imporrebbe di applicare rigorosamente il medesimo criterio selettivo, in presenza di identità di presupposti, a garanzia dell'uniformità del sistema elettorale che esclude pacificamente dal riparto le liste "sotto soglia" sia per la Camera, che per il Senato.”

Il senatore BERSELLI (AN), relatore per la regione Campania, premesso che non esistono a suo avviso presupposti di diritto diversi, tra i ricorsi proposti (ai quali si può applicare il principio simul stabunt simul cadent), si riporta alla relazione scritta già depositata, che sulla questione dei ricorsi fondati sulla clausola del 3 per cento recita:
“Due sono le questioni di diritto su cui ruota la controversia interpretativa attivata dal ricorso Intini.
Da un lato, ci si chiede se il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, per richiamare l’espressione propria dell’art. 12, comma primo, delle preleggi, sia univocamente nel senso di includere - tra le liste coalizzate ammesse al riparto dei seggi nelle circoscrizioni senatoriali regionali, in tutte le fattispecie previste dall'art. 17 del d. lgs. n. 533 del 1993 - sia quelle che abbiano superato la soglia di sbarramento del 3% dei voti validi espressi, sia quelle che non l’abbiano superata. Benché la memoria Luciani sostenga che vi sono elementi letterali a sostegno della posizione della senatrice Vano, poi è essa stessa che incentra buona parte della sua confutazione del ricorso Intini su argomenti logico-sistematici, in tutta la varietà interpretativa di questa accezione: vi si rinvengono sia forme di interpretazione sistematica secondo l’ipotesi della costanza terminologica del legislatore (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato corrispondente agli usi linguistici del legislatore), sia forme di interpretazione teleologica o funzionale (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla ratio o scopo oggettivo della disposizione stessa), sia forme di interpretazione teleologico-sistematica (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla pertinente norma finale, esplicita o implicita, dell’istituto, settore, o sotto-settore a cui la disposizione appartiene).
Dall’altro lato, ci si chiede se occorra che l’interpretazione letterale sia comunque non univoca, per pretendersene un collegamento al criterio “della intenzione del legislatore” (con connessi cascami ermeneutici di tipo teleologico o logico-sistematico). Infatti se l’interpretazione letterale della norma è inequivocabile, non si vede per quale ragione essa debba essere ignorata, a beneficio di una interpretazione sistematica più o meno aderente: in tal senso s’è espressa Cass. Civ., Sez. lav., 7 luglio 1998, n. 6605, secondo cui “in tema di interpretazione della legge, [...] è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata innanzi tutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico” (corsivo aggiunto).
Il parere Luciani sostiene che per la Suprema Corte, nel caso in cui "l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo", il criterio ermeneutico logico-teleologico ben può "assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale" (così, Cass. Civ., Sez. I, 6 aprile 2001, n. 5128, in Mass. Giur. it., 2001, che espressamente richiama e conferma la precedente Cass. Civ., 13 aprile 1996, n. 3495); ma la statuizione della Cassazione da ultimo richiamata, in realtà, riceve precipua delimitazione ad opera di Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, secondo cui “non è [...] consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nell'ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (Cass. 13 aprile 1996, n. 3495. Analogamente, Cass. 17 novembre 1993, n. 11359, tra le altre)”. In altri termini, “il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo” (Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, in Mass. Giur. it., 2005).
Una tale incompatibilità si riscontra senz’altro nel caso di specie: il testo va letto non identificando singole espressioni ma, riportandole nel loro contesto: il singolo tratto acquista significato concettuale solo all’interno del disegno, cioè del contesto per cui un certo segno, una certa parola assume un valore specifico. L’interpretazione sistematica e logica può essere desunta direttamente dal testo della legge, anche con l’ausilio del criterio storico-ricostruttivo, per comprendere quale sia la ratio, la ragione del disegno complessivo.
Ebbene, le operazioni descritte all’articolo 16 costituiscono la logica premessa delle attuazioni previste dall’articolo 17. Nel primo dei due articoli, la legge opera una delimitazione di campo, affidando all’ufficio elettorale regionale il compito di verificare i voti complessivamente ottenuti da ciascuna delle liste partecipanti, e, quando queste ultime sono tra loro collegate, calcolando una “cifra elettorale di coalizione”, che corrisponde alla somma delle cifre elettorali di tutte le liste che la compongono. Sulla base del totale generale dei voti validi espressi nella regione, l’ufficio individua poi le coalizioni o le liste isolate che hanno diritto a partecipare alla ripartizione iniziale dei seggi: quelle, cioè, che superano lo standard di rappresentatività richiesto (un quinto dei voti regionali per le coalizioni, l’8 per cento per le liste isolate o singolarmente ammesse). L’articolo 17, poi, regola l’effettiva ripartizione dei seggi senatoriali della regione, che si svolge in due fasi successive: nella prima, la ripartizione dei seggi avviene tra le coalizioni, complessivamente considerate (nell’espressione “coalizione” faccio rientrare ovviamente, per comodità espositiva, anche liste isolate o singolarmente ammesse: quelle che la dottrina definisce coalizioni “mono-lista”). Nella seconda fase, si procede alla ripartizione interna dei seggi conquistati da ciascuna coalizione, tra le liste componenti.
Quando la legge delimita il campo dei partecipanti alla assegnazione iniziale dei seggi, ammette le coalizioni di liste “che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi e che contengano almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 3 per cento”. Il legislatore non ritiene sufficiente, per l’ammissione di una coalizione al riparto dei seggi, solo il conseguimento del 20 per cento dei voti regionali: la ragione è che i seggi ottenuti dalla coalizione potrebbero, al limite, essere assegnati ad una soltanto delle liste che la compongono; ma, in tal caso, si richiede uno standard minimo di consenso, pari al 3 per cento.
Per i seggi delle coalizioni si deve procedere, poi, alla successiva assegnazione interna: è quanto regolato, rispettivamente, al comma 3 e al comma 6 dello stesso articolo 17. La diversa formulazione letterale dei due commi non deve però far ritenere che il legislatore abbia voluto dar luogo a fattispecie che seguono logiche distinte. Nel primo caso, quello in cui è stata naturalmente raggiunta la quota di maggioranza prevista, la legge disciplina molto puntualmente la suddivisione interna dei seggi, introducendo per la prima volta il concetto di “liste ammesse”, riferito, coerentemente con la condizione precedentemente prevista per l’ammissione delle coalizioni, alle “liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale – cioè, dell’intera regione – almeno il 3 per cento dei voti validi espressi”. Nel secondo caso, il riferimento esplicito al “3 per cento” non compare, ma si prescrive che, per il calcolo del quoziente necessario alla ripartizione dei seggi, si divida il totale delle cifre elettorali delle “liste ammesse” per il numero dei seggi assegnati alla coalizione.
La legge n. 270 del 2005 usa il sintagma “liste collegate” quando vuole riferirsi a tutte le liste che fanno parte della coalizione. Ma poi, nella fase successiva di riparto interno dei seggi collettivamente ottenuti dalle coalizioni, essa utilizza un’altra espressione: non liste collegate, ma “liste ammesse”; quando questo termine viene preliminarmente definito, è proprio con riferimento al raggiungimento della soglia del 3 per cento. Peraltro, “liste ammesse” è uno di quei casi semantici che richiamano un contrario: a liste ammesse corrispondono liste escluse, all’interno, appunto, di una medesima coalizione.
Il raffronto tra il comma 6 ed il comma 3 dell’articolo 17 perciò evidenzia che, laddove il legislatore ha espressamente richiamato l'applicazione della soglia del 3%, ha testualmente citato "nell'ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'art, 16 comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi". Di contro, la norma in esame (comma 6), ove non è ripetuto il richiamo alla detta soglia di ammissione, ha inequivocabilmente richiamato la diversa espressione "liste ammesse". Unico requisito per "l'ammissione" della lista è quindi il detto superamento della soglia.
Del resto, in base ad un'interpretazione sistematica del testo dell'art. 17, comma 6, del D. Lgs. n. 533/1993, così come novellato dalla legge n. 270/2005, lo sbarramento è stato correttamente ritenuto applicabile anche nel caso di attribuzione del premio di maggioranza. L’opposta interpretazione risulta evidentemente infondata: ragionando diversamente, si darebbe vita ad evidenti ed irragionevoli sperequazioni tra le Regioni in cui una delle due coalizioni ha raggiunto il premio di maggioranza e le altre in cui tale soglia non è stata raggiunta. In definitiva, un'interpretazione costituzionalmente orientata imporrebbe di applicare rigorosamente il medesimo criterio selettivo, in presenza di identità di presupposti, a garanzia dell'uniformità del sistema elettorale che esclude pacificamente dal riparto le liste "sotto soglia" sia per la Camera, che per il Senato.
Una diversa interpretazione si porrebbe certamente in contrasto con le evidenti ed indiscutibili finalità di contenimento della frammentazione politica, perseguite dal legislatore: esse sarebbero conseguite in un caso, disattese nell’altro.
S’impone quindi una pronuncia della Giunta sull’interpretazione della soglia del 3 per cento: la logica sistematica della disciplina contribuisce a chiarire il quesito di diritto in senso contrario a quanto esposto con i ricorsi Intini, Pionati-Marotta e Conte, che vanno conseguentemente respinti.
Per quanto riguarda il ricorso Pionati, si conviene coll’onorevole Marotta che vi sia possa essere successione nel rapporto controverso a seguito del subentro come senatore del ricorrente; stante però la recente giurisprudenza del Senato (seduta d’Assemblea del 4 luglio 2007) in tema di revivescenza del diritto di opzione – laddove si riconosca in corso di legislatura ad un senatore già in carica il diritto ad un altro seggio (in altra regione in cui si sia candidato) – è prudente non estromettere dalla regiudicanda il Pionati, e considerarlo a tutti gli effetti unitamente al Marotta virtualmente parte del giudizio: giudizio che comunque, nella fattispecie, per ambedue deve concludersi con una reiezione.
Da un attento esame dei dati di convalida qui proposti, risulta che il primo resto utile a determinare il subentro all’ultimo seggio attribuito alla medesima coalizione del ricorrente (quello del senatore Izzo) è quello che sarebbe conseguito dall’onorevole Conte, mentre solo in seconda battuta l’onorevole Marotta subentrerebbe al seggio del senatore Coronella (il penultimo conseguito dalla medesima coalizione), qualora si aderisse ai ricorsi Intini e Conte.
La pretesa secondo cui l’UDC abbia conseguito la 14a posizione nella graduatoria della coalizione si fonda su un calcolo dei resti che è il frutto del conteggio delle liste sotto la soglia del 3% ai fini della determinazione del quoziente, ma non del riparto dei seggi (che verrebbe invece sempre riservato alle liste sopra la soglia del 3%). Questo modus procedendi è stato già confutato, in giurisprudenza, in un caso analogo, quello della legge elettorale regionale. Per l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione 10 luglio 1997 n. 13, la tecnica proposta va respinta perché, a seguirla, il computo dei voti attribuiti alle liste rimaste al di sotto della soglia di sbarramento implicherebbe una sorta di riutilizzazione dei voti stessi, che non sono utili per i diretti destinatari; tali voti, come messo in luce nella decisione citata, se si accogliesse la prospettazione dei ricorrenti verrebbero ad incidere, in maniera indiretta e, per così dire, involontaria, nella ripartizione dei seggi tra gli altri schieramenti rimasti in lizza, diversi rispetto a quelli cui i voti stessi erano stati destinati.
Pertanto, la posizione rivendicata dall’onorevole Marotta non può essere quella di titolare della 14a posizione nella graduatoria della coalizione bensì, se sono vere le premesse del ricorso sull’interpretazione della soglia del 3 per cento, quella di titolare della 15a posizione nella graduatoria della coalizione. Se poi surrettiziamente egli ha voluto, con questo erroneo conteggio della posizione in graduatoria, dividere la sua sorte da quella degli altri ricorrenti – nonostante il tenore del ricorso sia chiarissimo nell’adesione alle prospettazioni interpretative del “ricorso 3 per cento” – alla Giunta non può interessare: il relatore giudica qualsivoglia altra ipotesi ricostruttiva (che distingua la posizione del titolare di resto incapiente da quello di candidato di lista che ha ricevuto meno del 3%) frutto non già di legittima attività ermeneutica, bensì di interpretazione creativa del diritto.
Nessun rilievo può avere, in proposito, il fatto che a pagina 27 il verbale dell’Ufficio elettorale regionale campano seguisse la scansione prefigurata da Marotta in dichiarazioni di stampa: una volta che vi è stata l’individuazione di una coalizione di liste o singola lista, come “ammesse al riparto”, ne discenderebbe che ad essa coalizione - e nella consistenza dei voti che di essa è dichiarata, ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. b), n. 1, nel paragrafo 7 del verbale - andava riferito il successivo conteggio di spettanza dell’Ufficio. Il paragrafo 13 prevede - ai sensi dell’articolo 17, comma 5 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e successive modificazioni - il riparto dei restanti seggi tra le altre coalizioni di liste e singole liste ammesse al riparto di cui al paragrafo 7”: ma in tale paragrafo si elencano semplicemente i requisiti di cui all’art. 16, comma 1, lett. b); non si dice affatto che si doveva dividere il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle coalizioni di liste e singole liste ammesse, di cui al paragrafo 7, per il numero dei seggi restanti, ottenendo il quoziente con cui operare il successivo riparto.
Non si può addurre, comunque, un mero supporto documentale delle operazioni di voto – il verbale, stilato secondo un modello redatto dall’Esecutivo, che com’è noto non può avere alcun peso nell’interpretazione della materia elettorale, coperta da riserva assoluta di legge – per affermare che, di ammissioni, ve ne sono ben due (quella delle coalizioni e quella delle liste). Né si può seriamente affermare che – continuando a far capo al comma 6 – il caso Marotta fuoriesca dalla regola del simul stabunt, simul cadent, rispetto agli altri ricorsi (Intini e Conte). Si tratta di una lettura evidentemente dissociata del medesimo tessuto normativo, perché, se le liste sotto soglia non concorrono, viene meno la stessa possibilità di utilizzarne i voti con la medesima operazione: lo si può fare solo con un’operazione diversa, non con una che sia definita allo stesso modo (ammissione al riparto) sia al comma 3 che al comma 6. Per effettuare tale operazione occorrerebbe ricercare nel comma 5 o nel comma 1 dell’articolo 17 un diverso criterio di attribuzione dei seggi, valido solo per le liste incapienti (che dovrebbero valersi del diverso calcolo proposto): questo relatore non ritiene che l’interpretazione possa spingersi fino a tanto, forzando i limiti stessi della norma, e pertanto accomuna nella medesima proposta di reiezione sia il ricorso Marotta che quelli Intini e Conte.”

Il senatore PIROVANO (LNP), relatore per la regione Lazio, si riporta alla relazione scritta già depositata, che sulla questione dei ricorsi fondati sulla clausola del 3 per cento recita:

“Va anzitutto rilevato che i due ricorrenti avevano proposto già dinanzi all’Ufficio elettorale regionale le loro doglianze. In quella circostanza, legittimamente fu respinto il loro punto di vista. Due sono le questioni di diritto su cui ruota la controversia interpretativa attivata dai ricorsi Intini e Merlonghi, ed ambedue vanno risolte in senso conforme alla decisione assunta presso la Corte d’appello.

Da un lato, ci si chiede se il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, per richiamare l’espressione propria dell’art. 12, comma primo, delle preleggi, sia univocamente nel senso di includere - tra le liste coalizzate ammesse al riparto dei seggi nelle circoscrizioni senatoriali regionali, in tutte le fattispecie previste dall'art. 17 del d. lgs. n. 533 del 1993 - sia quelle che abbiano superato la soglia di sbarramento del 3% dei voti validi espressi, sia quelle che non l’abbiano superata. Benché la memoria Luciani sostenga che vi sono elementi letterali a sostegno della posizione del senatore Mele, poi è essa stessa che incentra buona parte della sua confutazione del ricorso Intini su argomenti logico-sistematici, in tutta la varietà interpretativa di questa accezione: vi si rinvengono sia forme di interpretazione sistematica secondo l’ipotesi della costanza terminologica del legislatore (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato corrispondente agli usi linguistici del legislatore), sia forme di interpretazione teleologica o funzionale (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla ratio o scopo oggettivo della disposizione stessa), sia forme di interpretazione teleologico-sistematica (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla pertinente norma finale, esplicita o implicita, dell’istituto, settore, o sotto-settore a cui la disposizione appartiene).
Dall’altro lato, ci si chiede se occorra che l’interpretazione letterale sia comunque non univoca, per pretendersene un collegamento al criterio “della intenzione del legislatore” (con connessi cascami ermeneutici di tipo teleologico o logico-sistematico). Infatti se l’interpretazione letterale della norma è inequivocabile, non si vede per quale ragione essa debba essere ignorata, a beneficio di una interpretazione sistematica più o meno aderente: in tal senso s’è espressa Cass. Civ., Sez. lav., 7 luglio 1998, n. 6605, secondo cui “in tema di interpretazione della legge, [...] è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata innanzi tutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico” (corsivo aggiunto).
Il parere Luciani sostiene che per la Suprema Corte, nel caso in cui "l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo", il criterio ermeneutico logico-teleologico ben può "assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale" (così, Cass. Civ., Sez. I, 6 aprile 2001, n. 5128, in Mass. Giur. it., 2001, che espressamente richiama e conferma la precedente Cass. Civ., 13 aprile 1996, n. 3495); ma la statuizione della Cassazione da ultimo richiamata, in realtà, riceve precipua delimitazione ad opera di Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, secondo cui “non è [...] consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nell'ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (Cass. 13 aprile 1996, n. 3495. Analogamente, Cass. 17 novembre 1993, n. 11359, tra le altre)”. In altri termini, “il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo” (Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, in Mass. Giur. it., 2005).
Una tale incompatibilità si riscontra senz’altro nel caso di specie: il testo va letto non identificando singole espressioni ma, riportandole nel loro contesto: il singolo tratto acquista significato concettuale solo all’interno del disegno, cioè del contesto per cui un certo segno, una certa parola assume un valore specifico. L’interpretazione sistematica e logica può essere desunta direttamente dal testo della legge, anche con l’ausilio del criterio storico-ricostruttivo, per comprendere quale sia la ratio, la ragione del disegno complessivo.
Tale conclusione è supportata dal tenore letterale e sistematico della legge elettorale, come modificata nel 2005: le operazioni descritte all’articolo 16 costituiscono la logica premessa delle attuazioni previste dall’articolo 17. Nel primo dei due articoli, la legge opera una delimitazione di campo, affidando all’ufficio elettorale regionale il compito di verificare i voti complessivamente ottenuti da ciascuna delle liste partecipanti, e, quando queste ultime sono tra loro collegate, calcolando una “cifra elettorale di coalizione”, che corrisponde alla somma delle cifre elettorali di tutte le liste che la compongono. Sulla base del totale generale dei voti validi espressi nella regione, l’ufficio individua poi le coalizioni o le liste isolate che hanno diritto a partecipare alla ripartizione iniziale dei seggi: quelle, cioè, che superano lo standard di rappresentatività richiesto (un quinto dei voti regionali per le coalizioni, l’8 per cento per le liste isolate o singolarmente ammesse). L’articolo 17, poi, regola l’effettiva ripartizione dei seggi senatoriali della regione, che si svolge in due fasi successive: nella prima, la ripartizione dei seggi avviene tra le coalizioni, complessivamente considerate (nell’espressione “coalizione” faccio rientrare ovviamente, per comodità espositiva, anche liste isolate o singolarmente ammesse: quelle che la dottrina definisce coalizioni “mono-lista”). Nella seconda fase, si procede alla ripartizione interna dei seggi conquistati da ciascuna coalizione, tra le liste componenti.
Quando la legge delimita il campo dei partecipanti alla assegnazione iniziale dei seggi, ammette le coalizioni di liste “che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi e che contengano almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 3 per cento”. Il legislatore non ritiene sufficiente, per l’ammissione di una coalizione al riparto dei seggi, solo il conseguimento del 20 per cento dei voti regionali: la ragione è che i seggi ottenuti dalla coalizione potrebbero, al limite, essere assegnati ad una soltanto delle liste che la compongono; ma, in tal caso, si richiede uno standard minimo di consenso, pari al 3 per cento.
Per i seggi delle coalizioni si deve procedere, poi, alla successiva assegnazione interna: è quanto regolato, rispettivamente, al comma 3 e al comma 6 dello stesso articolo 17. La diversa formulazione letterale dei due commi non deve però far ritenere che il legislatore abbia voluto dar luogo a fattispecie che seguono logiche distinte. Nel primo caso, quello in cui è stata naturalmente raggiunta la quota di maggioranza prevista, la legge disciplina molto puntualmente la suddivisione interna dei seggi, introducendo per la prima volta il concetto di “liste ammesse”, riferito, coerentemente con la condizione precedentemente prevista per l’ammissione delle coalizioni, alle “liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale – cioè, dell’intera regione – almeno il 3 per cento dei voti validi espressi”. Nel secondo caso, il riferimento esplicito al “3 per cento” non compare, ma si prescrive che, per il calcolo del quoziente necessario alla ripartizione dei seggi, si divida il totale delle cifre elettorali delle “liste ammesse” per il numero dei seggi assegnati alla coalizione.
La legge n. 270 del 2005 usa il sintagma “liste collegate” quando vuole riferirsi a tutte le liste che fanno parte della coalizione. Ma poi, nella fase successiva di riparto interno dei seggi collettivamente ottenuti dalle coalizioni, essa utilizza un’altra espressione: non liste collegate, ma “liste ammesse”; quando questo termine viene preliminarmente definito, è proprio con riferimento al raggiungimento della soglia del 3 per cento. Peraltro, “liste ammesse” è uno di quei casi semantici che richiamano un contrario: a liste ammesse corrispondono liste escluse, all’interno, appunto, di una medesima coalizione.
Il raffronto tra il comma 6 ed il comma 3 dell’articolo 17 perciò evidenzia che, laddove il legislatore ha espressamente richiamato l'applicazione della soglia del 3%, ha testualmente citato "nell'ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'art, 16 comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi". Di contro, la norma in esame (comma 6), ove non è ripetuto il richiamo alla detta soglia di ammissione, ha inequivocabilmente richiamato la diversa espressione "liste ammesse". Unico requisito per "l'ammissione" della lista è quindi il detto superamento della soglia.
Del resto, in base ad un'interpretazione sistematica del testo dell'art. 17, comma 6, del D. Lgs. n. 533/1993, così come novellato dalla legge n. 270/2005, lo sbarramento è stato correttamente ritenuto applicabile anche nel caso di attribuzione del premio di maggioranza. L’opposta interpretazione risulta evidentemente infondata: ragionando diversamente, si darebbe vita ad evidenti ed irragionevoli sperequazioni tra le Regioni in cui una delle due coalizioni ha raggiunto il premio di maggioranza e le altre in cui tale soglia non è stata raggiunta. In definitiva, un'interpretazione costituzionalmente orientata imporrebbe di applicare rigorosamente il medesimo criterio selettivo, in presenza di identità di presupposti, a garanzia dell'uniformità del sistema elettorale che esclude pacificamente dal riparto le liste "sotto soglia" sia per la Camera, che per il Senato.
S’impone quindi una pronuncia della Giunta sull’interpretazione della soglia del 3 per cento: la logica sistematica della disciplina contribuisce a chiarire il quesito di diritto in senso contrario a quanto esposto con i ricorsi Intini e Merlonghi, che vanno conseguentemente respinti.”

Il senatore ZUCCHERINI (RC-SE), relatore per la regione Puglia, ricorda il precedente della legge elettorale regionale e della soglia di sbarramento in essa sempre fissata: anche la legge elettorale per il Senato è chiarissima nel premiare un bipolarismo coatto e dovunque è stata applicata in conformità con questa sua intrinseca razionalità. Per il resto, si riporta alla relazione scritta già depositata, che sulla questione dei ricorsi elettorali fondati sulla clausola del 3 per cento, recita:
“Due sono le questioni di diritto su cui ruota la controversia interpretativa attivata dai ricorsi Intini e Valente.
Da un lato, ci si chiede se il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”, per richiamare l’espressione propria dell’art. 12, comma primo, delle preleggi, sia univocamente nel senso di includere - tra le liste coalizzate ammesse al riparto dei seggi nelle circoscrizioni senatoriali regionali, in tutte le fattispecie previste dall'art. 17 del d. lgs. n. 533 del 1993 - sia quelle che abbiano superato la soglia di sbarramento del 3% dei voti validi espressi, sia quelle che non l’abbiano superata. Benché la memoria Luciani sostenga che vi sono elementi letterali a sostegno della posizione del senatore Piglionica, poi è essa stessa che incentra buona parte della sua confutazione del ricorso Intini su argomenti logico-sistematici, in tutta la varietà interpretativa di questa accezione: vi si rinvengono sia forme di interpretazione sistematica secondo l’ipotesi della costanza terminologica del legislatore (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato corrispondente agli usi linguistici del legislatore), sia forme di interpretazione teleologica o funzionale (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla ratio o scopo oggettivo della disposizione stessa), sia forme di interpretazione teleologico-sistematica (secondo cui ad una disposizione si deve attribuire il significato suggerito dalla pertinente norma finale, esplicita o implicita, dell’istituto, settore, o sotto-settore a cui la disposizione appartiene).
Dall’altro lato, ci si chiede se occorra che l’interpretazione letterale sia comunque non univoca, per pretendersene un collegamento al criterio “della intenzione del legislatore” (con connessi cascami ermeneutici di tipo teleologico o logico-sistematico). Infatti se l’interpretazione letterale della norma è inequivocabile, non si vede per quale ragione essa debba essere ignorata, a beneficio di una interpretazione sistematica più o meno aderente: in tal senso s’è espressa Cass. Civ., Sez. lav., 7 luglio 1998, n. 6605, secondo cui “in tema di interpretazione della legge, [...] è fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata innanzi tutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse"; di poi, sempre che tale significato non sia già tanto chiaro ed univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico” (corsivo aggiunto).
Il parere Luciani sostiene che per la Suprema Corte, nel caso in cui "l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione sia incompatibile con il sistema normativo", il criterio ermeneutico logico-teleologico ben può "assumere rilievo prevalente rispetto all’interpretazione letterale" (così, Cass. Civ., Sez. I, 6 aprile 2001, n. 5128, in Mass. Giur. it., 2001, che espressamente richiama e conferma la precedente Cass. Civ., 13 aprile 1996, n. 3495); ma la statuizione della Cassazione da ultimo richiamata, in realtà, riceve precipua delimitazione ad opera di Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, secondo cui “non è [...] consentito all'interprete correggere la norma, nel significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, nell'ipotesi in cui ritenga che l'effetto giuridico che ne deriva sia solo inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (Cass. 13 aprile 1996, n. 3495. Analogamente, Cass. 17 novembre 1993, n. 11359, tra le altre)”. In altri termini, “il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall'art. 12 delle preleggi, può assumere rilievo prevalente rispetto all'interpretazione letterale soltanto nel caso, eccezionale, in cui l'effetto giuridico risultante dalla formulazione della disposizione di legge sia incompatibile con il sistema normativo” (Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2005, n. 10874, in Mass. Giur. it., 2005).
Una tale incompatibilità si riscontra senz’altro nel caso di specie: il testo va letto non identificando singole espressioni ma, riportandole nel loro contesto: il singolo tratto acquista significato concettuale solo all’interno del disegno, cioè del contesto per cui un certo segno, una certa parola assume un valore specifico. L’interpretazione sistematica e logica può essere desunta direttamente dal testo della legge, anche con l’ausilio del criterio storico-ricostruttivo, per comprendere quale sia la ratio, la ragione del disegno complessivo.
Non può essere un caso che, in sede di redazione delle liste elettorali, tutti i competitori abbiano inteso la soglia del 3 per cento come cogente, tanto da mettere in campo accorpamenti tra soggetti politici diversi, pur di evitare il rischio di non essere rappresentati in Parlamento. Tale linea di condotta non ha visto eccezioni, neppure nelle regioni “a rischio” di mancato superamento del 55 per cento da parte della coalizione favorita: ciò non può che dimostrare come tutti avessero letto la legge come fonte di esclusione – in qualsiasi caso – dei competitori che non avessero superato il 3 per cento dei voti validi a livello regionale.
Tale conclusione è supportata dal tenore letterale e sistematico della legge elettorale, come modificata nel 2005: le operazioni descritte all’articolo 16 costituiscono la logica premessa delle attuazioni previste dall’articolo 17. Nel primo dei due articoli, la legge opera una delimitazione di campo, affidando all’ufficio elettorale regionale il compito di verificare i voti complessivamente ottenuti da ciascuna delle liste partecipanti, e, quando queste ultime sono tra loro collegate, calcolando una “cifra elettorale di coalizione”, che corrisponde alla somma delle cifre elettorali di tutte le liste che la compongono. Sulla base del totale generale dei voti validi espressi nella regione, l’ufficio individua poi le coalizioni o le liste isolate che hanno diritto a partecipare alla ripartizione iniziale dei seggi: quelle, cioè, che superano lo standard di rappresentatività richiesto (un quinto dei voti regionali per le coalizioni, l’8 per cento per le liste isolate o singolarmente ammesse). L’articolo 17, poi, regola l’effettiva ripartizione dei seggi senatoriali della regione, che si svolge in due fasi successive: nella prima, la ripartizione dei seggi avviene tra le coalizioni, complessivamente considerate (nell’espressione “coalizione” faccio rientrare ovviamente, per comodità espositiva, anche liste isolate o singolarmente ammesse: quelle che la dottrina definisce coalizioni “mono-lista”). Nella seconda fase, si procede alla ripartizione interna dei seggi conquistati da ciascuna coalizione, tra le liste componenti.
Quando la legge delimita il campo dei partecipanti alla assegnazione iniziale dei seggi, ammette le coalizioni di liste “che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi e che contengano almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 3 per cento”. Il legislatore non ritiene sufficiente, per l’ammissione di una coalizione al riparto dei seggi, solo il conseguimento del 20 per cento dei voti regionali: la ragione è che i seggi ottenuti dalla coalizione potrebbero, al limite, essere assegnati ad una soltanto delle liste che la compongono; ma, in tal caso, si richiede uno standard minimo di consenso, pari al 3 per cento.
Per i seggi delle coalizioni si deve procedere, poi, alla successiva assegnazione interna: è quanto regolato, rispettivamente, al comma 3 e al comma 6 dello stesso articolo 17. La diversa formulazione letterale dei due commi non deve però far ritenere che il legislatore abbia voluto dar luogo a fattispecie che seguono logiche distinte. Nel primo caso, quello in cui è stata naturalmente raggiunta la quota di maggioranza prevista, la legge disciplina molto puntualmente la suddivisione interna dei seggi, introducendo per la prima volta il concetto di “liste ammesse”, riferito, coerentemente con la condizione precedentemente prevista per l’ammissione delle coalizioni, alle “liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale – cioè, dell’intera regione – almeno il 3 per cento dei voti validi espressi”. Nel secondo caso, il riferimento esplicito al “3 per cento” non compare, ma si prescrive che, per il calcolo del quoziente necessario alla ripartizione dei seggi, si divida il totale delle cifre elettorali delle “liste ammesse” per il numero dei seggi assegnati alla coalizione.
La legge n. 270 del 2005 usa il sintagma “liste collegate” quando vuole riferirsi a tutte le liste che fanno parte della coalizione. Ma poi, nella fase successiva di riparto interno dei seggi collettivamente ottenuti dalle coalizioni, essa utilizza un’altra espressione: non liste collegate, ma “liste ammesse”; quando questo termine viene preliminarmente definito, è proprio con riferimento al raggiungimento della soglia del 3 per cento. Peraltro, “liste ammesse” è uno di quei casi semantici che richiamano un contrario: a liste ammesse corrispondono liste escluse, all’interno, appunto, di una medesima coalizione.
Il raffronto tra il comma 6 ed il comma 3 dell’articolo 17 perciò evidenzia che, laddove il legislatore ha espressamente richiamato l'applicazione della soglia del 3%, ha testualmente citato "nell'ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all'art, 16 comma 1, lettera b), numero 1), le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi". Di contro, la norma in esame (comma 6), ove non è ripetuto il richiamo alla detta soglia di ammissione, ha inequivocabilmente richiamato la diversa espressione "liste ammesse". Unico requisito per "l'ammissione" della lista è quindi il detto superamento della soglia.
Del resto, in base ad un'interpretazione sistematica del testo dell'art. 17, comma 6, del D. Lgs. n. 533/1993, così come novellato dalla legge n. 270/2005, lo sbarramento è stato correttamente ritenuto applicabile anche nel caso di attribuzione del premio di maggioranza. L’opposta interpretazione risulta evidentemente infondata: ragionando diversamente, si darebbe vita ad evidenti ed irragionevoli sperequazioni tra le Regioni in cui una delle due coalizioni ha raggiunto il premio di maggioranza e le altre in cui tale soglia non è stata raggiunta. In definitiva, un'interpretazione costituzionalmente orientata imporrebbe di applicare rigorosamente il medesimo criterio selettivo, in presenza di identità di presupposti, a garanzia dell'uniformità del sistema elettorale che esclude pacificamente dal riparto le liste "sotto soglia" sia per la Camera, che per il Senato.
Le contestazioni mosse dai ricorrenti avverso l’elezione dei Senatori eletti in tale circoscrizione ineriscono alla pretesa invalidità della procedura seguita per la ripartizione dei seggi tra le liste della coalizione che nelle circoscrizione senatoriale regionale di riferimento, abbia conseguito il maggior numero di voti validi, senza tuttavia conseguire il 55% dei seggi in sede di attribuzione provvisoria. Ebbene, ad avviso dei ricorrenti, in questo caso (disciplinato dalla fattispecie di cui all’art. 17, comma 6, d.lgs. 533/1993, come modificato dalla legge 270 del 2005) la ripartizione dei seggi tra le liste di tale coalizione, avrebbe dovuto estendersi anche alle liste che non abbiano superato la soglia di sbarramento del 3% dei voti validamente espressi, non operando in tale ipotesi la preclusione di cui al comma 3 dell’art. 17, relativa al caso in cui la coalizione di liste collegate consegua, nella circoscrizione regionale di riferimento, almeno il 55% dei voti validamente espressi.
In favore della tesi sostenuta dai ricorrenti militerebbero invero le autorevoli argomentazioni proposte dai Professori Giuliano Vassalli, Fulco Lanchester, Mario Patrono (sentiti peraltro in audizione), Michele Ainis. Nei pareri resi dai suddetti Professori, la tesi sostenuta dai ricorrenti è ritenuta preferibile sulla base di diverse argomentazioni. In questa prospettiva si richiama in primo luogo l’esigenza di un’interpretazione letterale (secondo il senso “fatto palese dalle parole secondo la connessione di esse”, ex art. 12, comma 1 delle preleggi) del comma 6 del citato art. 17, ove a differenza del comma 3 manca un riferimento espresso alla soglia di sbarramento del 3%, relativamente alle liste ammesse alla ripartizione dei seggi. Ubi lex dixit voluit, ubi non dixit noluit, dunque. Nella medesima prospettiva si richiama quindi la contrarietà di un’interpretazione analogica della norma di cui al comma 3 dell’art. 17, con i principi di tassatività e stretta interpretazione, nonché con il divieto di analogia ritenuto inderogabile in materia elettorale, atteso peraltro il carattere asseritamente eccezionale della disposizione di cui al citato comma 3.. La ratio della non applicabilità della soglia di sbarramento (Sperrklausel) del 3 % in funzione preclusiva del riparto dei seggi tra le liste della coalizione ‘vincitrice’, all’ipotesi di cui al comma 6 dell’art. 17, risiederebbe quindi, secondo questa autorevole dottrina, nella obiectiva voluntas legis di non aggravare, con ulteriori soglie di preclusione, le liste coalizzate, in una fattispecie in cui è già prevista – quale fictio juris- l’eccezione del premo di maggioranza.
Nonostante l’autorevolezza delle opinioni sin qui descritte e la fine argomentazione, l’interpretazione proposta non può tuttavia a nostro avviso ritenersi condivisibile, come peraltro ben hanno dimostrato i pareri resi (anche in sede di audizione) dai Proff. Massimo Luciani e Stefano Ceccanti, nonché dall’Ufficio elettorale regionale presso la Corte d’Appello di Napoli, pronunciatosi in data 18.4.2006.
In favore di un’interpretazione esattamente contraria a quella sostenuta dai ricorrenti depongono, infatti, ragioni di ordine sistematico e teleologico-funzionale, nonché addirittura una corretta ermeneusi della norma di cui al comma 6 del citato art. 17, condotta in una prospettiva costituzionalmente orientata.
In primo luogo infatti, lungi dal costituire espressione di un’applicazione analogica della norma di cui al comma 3 dell’art. 17, l’affermazione della doverosa esclusione dal riparto dei seggi, delle liste -collegate alla coalizione beneficiaria del premo di maggioranza- che non abbiano conseguito il 3% dei voti validamente espressi, rappresenta al contrario la sola corretta interpretazione letterale del comma 3 dell’art. 17, tale da enucleare il senso “fatto palese dalle parole secondo la connessione di esse”, ex art. 12, comma 1 delle preleggi.
E’ infatti evidente che, nel non cristallino drafting della norma di cui al citato comma 6, la nozione, ivi richiamata, di ‘liste ammesse al riparto ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett.b), numero 1)’, non può avere altro significato che quello attribuitole nell’intero testo dell’art. 17, quale espressivo delle liste ammesse al riparto dei seggi in ragione del conseguimento di almeno il 3% dei suffragi, nella circoscrizione regionale di riferimento. L’identico tenore testuale delle disposizioni di cui ai commi 3 e 6 dell’art. 17 ne esprime quindi l’assoluta identità del contenuto normativo, in quanto riferito allo sbarramento del 3% sia nel caso di coalizione che abbia raggiunto il 55% dei suffragi, sia nell’ipotesi in commento, in cui la coalizione abbia cioè usufruito del premio di maggioranza.
In favore di tale interpretazione – si ribadisce: letterale, tutt’altro che analogica o estensiva!- depone peraltro la ratio desumibile dall’ intentio legislatoris, come può evincersi tra l’altro dall’analisi dei lavori preparatori della legge 270 del 2005, che tale disposizione ha novellato.
L’estensore di questa Relazione non disconosce peraltro il valore ermeneutico non dirimente attribuito dalla giurisprudenza ai lavori preparatori delle leggi. Tuttavia, nel caso de quo, le questioni in esame sono state affrontate e risolte ex professo dal Senato, sia in sede assemblare, sia in Prima Commissione, peraltro dal suo autorevole Presidente di allora, Sen. Pastore, di modo che da tali argomenti possono trarsi indicazioni particolarmente significative.
Nella seduta del 9.11.2005 della I Commissione del Senato, in particolare, il Pres. Pastore, pur rilevando l’infelice formulazione del comma 6 dell’art. 17, ha espressamente chiarito che il riferimento ivi contenuto alla nozione di ‘liste ammesse’ può “interpretarsi in via sistematica nel senso che sono ammesse al riparto le sole liste della coalizione che abbiano superato la soglia del 3% dei voti validi espressi nella circoscrizione”.
Inoltre, nella seduta assembleare del 28.11.2005, il Pres. Pastore, nell’illustrare all’Aula i lavori della I Commissione, ha chiesto (e ottenuto dal Presidente) di allegare al proprio intervento una relazione che, ad avviso dell’estensore, avrebbe dovuto servire non solo“al seguito dei lavori dell’Assemblea, ma anche in funzione dell’interpretazione della legge”; una sorta di interpretazione autentica, dunque, di tale disposizione. Ebbene, in tale relazione può leggersi espressamente che la norma de qua “non può che interpretarsi in via sistematica nel senso che sono ammesse al riparto le sole liste della coalizione che abbiano superato la soglia del 3%”, e che “a tale conclusione giunge l’interprete che sappia padroneggiare il sistema e valorizzare la reale intentio legislatoris”, in quanto ogni interpretazione diversa “stravolgerebbe il sistema della riforma elettorale (che in ogni caso esclude pacificamente dal riparto le liste “sotto soglia” sia per la Camera che per il Senato) e si porrebbe in contrasto con le evidenti finalità di contrasto della frammentazione politica, perseguite dal legislatore”. Precisandosi altresì che “ove letteralmente interpretata, non avrebbe alcun senso né alcun effetto giuridico in quanto il richiamato art. 16, comma 1, lett.b), n.1, non fa cenno a “liste ammesse al riparto” (…) bensì alle coalizioni “sopra soglia” ammesse al riparto”.
E’ dunque proprio l’attributo ‘ammesse’, riferito alle liste ‘sopra soglia’, a fondare in maniera risolutiva la legittimità dell’interpretazione letterale qui proposta, che a ben vedere risulta peraltro costituzionalmente imposta e vincolante, dal momento che ogni altra lettura della norma si porrebbe in radicale contrasto con il principio di eguaglianza, sub specie della ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost. L’interpretazione proposta dai ricorrenti produrrebbe infatti un’irragionevole disparità di trattamento della fattispecie in esame rispetto a quanto disposto dal comma 3 dell’art. 17, ove opera la soglia di sbarramento del 3%. Tale disparità di trattamento non potrebbe neppure fondarsi- come invece sostenuto dai ricorrenti – sull’argomento alla cui stregua, nel caso in esame (di cui al comma 6), lo scatto del premio di maggioranza renderebbe di per sé superfluo lo sbarramento del 3%, dal momento che quest’ultimo incide unicamente sul diverso livello dei rapporti di forza all’interno della medesima coalizione, e non, invece, su quello dei rapporti di forza tra diverse coalizioni. Né la tesi qui avversata può fondarsi sul carattere asseritamente decisivo e determinante ai fini della vittoria della coalizione, che le liste sotto soglia acquisterebbero solo nel caso dell’attribuzione del premio di maggioranza, a differenza dell’ipotesi in cui la coalizione risulti vincitrice in ragione del risultato elettorale conseguito solo, per così dire, ‘con le proprie forze’. Sarebbe infatti paradossale ‘penalizzare’ le liste minori proprio quando abbiano contribuito al risultato positivo, netto e senza premio di maggioranza, della coalizione cui siano legate, e ammetterle invece al riparto dei seggi quando la vittoria della coalizione sia dovuta unicamente alla fictio juris del meccanismo premiale.
Inoltre, la tesi dei ricorrenti violerebbe palesemente il principio di ragionevolezza di cui all’art. Cost., conducendo al risultato aberrante secondo cui sarebbe esclusa dal riparto dei seggi la lista che, ottenendo in una Regione i suffragi nella misura del 2, 9%, sia collegata ad una coalizione che consegua più del 55% dei voti, mentre in un’altra Regione la lista che consegua una percentuale molto minore potrebbe accedere alla rappresentanza in virtù non della forza dei propri risultati, ma della mera incertezza dei risultati inerenti il diverso profilo della competizione tra coalizioni.
L’interpretazione letterale qui proposta dovrebbe pertanto ritenersi la sola ammissibile in un’ottica costituzionalmente orientata, alla luce cioè del principio di eguaglianza, sub specie della ragionevolezza, di cui all’art. 3 Cost.. Ma anche qualora volesse dissentirsi da tale impostazione ermeneutica, un ulteriore insuperabile argomento, di ordine teleologico-funzionale e sistematico, imporrebbe l’interpretazione proposta come la sola ammissibile.
L’evoluzione legislativa che ha segnato la disciplina della materia elettorale nel nostro ordinamento, pur nella diversità delle opzioni di politica del diritto sottese a ogni singola legge di volta in volta adottata, riflette una costante regolarità che consente di accomunare le varie formule e discipline previste: la reciproca indipendenza e la diversa ratio, che consente di distinguere, anche sotto il profilo teleologico e funzionale, tra premio di maggioranza e soglia di sbarramento. Se il premio di maggioranza costituisce infatti opzione eventuale – inerente i rapporti tra le varie coalizioni – lo sbarramento percentuale – incidendo sui rapporti di forza all’interno delle coalizioni - non è mai eventuale ma sempre automatico, e del tutto indipendente dall’assegnazione del premio (vds., a fortiori, la disciplina delle competizioni elettorali negli enti ad autonomia territoriale, di cui al d.lgs. 267/2000 e succ. mod.).
Tale caratteristica di reciproca indipendenza tra i due sistemi sottende infatti la volontà del legislatore di perseguire la stabilità di governo e di indirizzo politico- ad ogni livello della rappresentanza- relativamente alla formula elettorale, attraverso due dispositivi autonomi e non interferenti tra loro: la correzione verso l’alto della formula proporzionale (ovvero il premio eventuale) mira a determinare una maggioranza significativa in termini di seggi, mentre la correzione verso il basso (le soglie di sbarramento) mira ad evitare un’eccessiva frammentazione dell’assemblea elettiva. Pur convergendo nel medesimo fine di garantire maggiore stabilità, tali correttivi assumono nella costruzione normativa un valore di assoluta indipendenza reciproca: così nella legge 270/2005, il premio eventuale modifica solo i seggi ripartiti tra le coalizioni, mentre la soglia del 3% incide al loro interno.
E’ quindi evidente che un’interpretazione sistematica e teleologica della norma di cui al comma 6 non può avere l’effetto di instaurare, contra legem, un rapporto di reciproca implicazione tra premio eventuale e sbarramento, ritenendo che solo ove (come nel caso di cui al comma 3) non operi il primo si applichi il secondo, mentre ove operi il primo (è il caso di cui al comma 6) non si applichi il secondo. Tale interpretazione contrasterebbe con la ratio unitaria sottesa al sistema elettorale nel suo complesso, dimostrando a fortiori la correttezza della lettura proposta del comma 6, quale norma volta a ribadire l’operatività della soglia di sbarramento del 3% anche in relazione alle liste collegate alla coalizione che nelle circoscrizioni regionali benefici del premio di maggioranza, per non aver raggiunto il 55% dei suffragi
Per tali motivi, il sottoscritto propone a Codesta Giunta di deliberare nel senso della validità dell’elezione del 9-10 aprile 2006 nella circoscrizione senatoriale regionale della Puglia.
S’impone quindi una pronuncia della Giunta sull’interpretazione della soglia del 3 per cento: la logica sistematica della disciplina contribuisce a chiarire il quesito di diritto in senso contrario a quanto esposto con i ricorsi Intini e Valente, che vanno conseguentemente respinti.”

Dopo che il senatore Antonio BOCCIA (PD-Ulivo) ha richiesto lumi in ordine alla proposta subordinata avanzata dal relatore Manzione, è dichiarata aperta la discussione generale congiunta, che si limiterà ai ricorsi aventi ad oggetto la medesima questione di diritto, cioè quella fondata sulla clausola del 3 per cento.

Il senatore DI LELLO FINUOLI (RC-SE), espresso apprezzamento per la sostituzione del senatore Izzo in ossequio al principio nemo iudex in re sua, nega che esistano disegni politici nella condotta con cui la Giunta si approssima alla decisione da assumere: per quanto riguarda i componenti del suo Gruppo, si è scevri da condizionamenti di partito o di maggioranza. Non si può però omettere di considerare che le Corti d’appello non hanno esitato a sposare l’interpretazione attaccata dai ricorsi, la quale si ispira ad una norma generale che rimonta all’articolo 1 della legge e che non è derogata altrove. Il principio delle coalizioni di lista è bilanciato da quello volto ad evitare la frammentazione, per cui la lista ammessa al riparto deve conseguire almeno il 3 per cento dei voti validi espressi nella Regione. Pertanto i ricorsi vanno respinti.

Il senatore PASTORE (FI) si dichiara disponibile a valutare gli argomenti proposti nei ricorsi, ma non ravvisa alcun elemento di fondamento nella prospettazione da essi offerta: quando fu respinto l’emendamento Mancino, il voto contrario del Senato era motivato non soltanto dalla tempistica accelerata dell’esame, ma anche dalla sufficienza dei mezzi ermeneutici a disposizione dell’interprete per risolvere una possibile antinomia. Il Comitato inquirente ha consentito di accedere ai pareri di esperti qualificati, ma è evidente che il tenore dell’articolo 17 comma 6 non era tale da poter consentire un’interpretazione scevra dal sistema rappresentato dalla legge: ciò si desume dal riferimento alle liste ammesse al riparto, che non possono essere altro che quelle che hanno superato la soglia di sbarramento (secondo quanto previsto, con formula diversa, al comma 3). Si è trattato della base legale con cui si è svolta la competizione elettorale ed in sede applicativa la magistratura non ha riscontrato dubbi sul fatto che andasse interpretata in tal modo; in caso contrario si sarebbe avuta una proliferazione delle piccole liste in fase di presentazione dei simboli, cosa che non a caso non si è verificata.

Il senatore D'ONOFRIO (UDC) giudica opinabile un’equiparazione interpretativa tra Camera e Senato: il premio di maggioranza laddove è nazionale ha per scopo la salvaguardia della governabilità, mentre laddove è regionale deve tendere ad un diverso scopo. Anche il nesso di implicazione necessaria con la clausola di sbarramento, che tende a ridurre la frammentazione partitica, è diverso tra i due rami del Parlamento, tant’è vero che la legge maggioritaria del 1953 non la conteneva (ed introduceva solo un premio di maggioranza nazionale). E’ quindi ragionevole ritenere che la clausola di sbarramento consegua un obiettivo specifico proprio al Senato: ma la carenza di tale previsione – resa evidente dal fatto che la lettera della norma non la contempla, né ci si può appellare al sintagma “liste ammesse” per trarre una tale stravolgente conclusione – pone un problema di ragionevolezza che andrebbe sottoposto al giudice competente, laddove fosse possibile, eventualmente con la procedura di cui alla proposta subordinata del relatore Manzione, al quale chiede di dettagliarla ulteriormente.

Il senatore STRACQUADANIO (DCA-PRI-MPA) denuncia, nella ricorrente polemica del relatore Manzione contro l’opposizione e contro i componenti della Giunta, la falsificazione dei moventi con cui correttamente ci si è mossi: l’esame congiunto rispondeva non a convenienze politiche ma all’esigenza di evitare una dissociazione tra i voti delle singole regioni. La spiegazione del non accoglimento dell’emendamento Mancino riposa nel fatto che esso non era necessario a conseguire ciò che già era previsto: il legislatore pensava al principio posto in esplicito nel comma 3 come ordito sistematico applicabile anche al comma 6 dell’articolo 17 della legge elettorale per il Senato. Non vi è stato quindi alcun elemento additivo nell’interpretazione univocamente resa da tutte le Corti d’appello, per cui sia la subordinata del relatore per il Piemonte, sia i ricorsi proposti vanno decisamente respinti.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) ravvisa, nell’intervento del senatore Pastore, l'affermazione che un’antinomia vi era e che essa richiede atti interpretativi, laddove la lettera delle norme è invece univoca.
Quanto all’attività svolta dalle Corti d’appello, lo scenario è assai meno scontato di quanto può apparire dagli esiti. Nel corso dell’audizione svolta dal Comitato nella seduta del 13 dicembre 2006 il dottor Mario Quaini, presidente dell'Ufficio elettorale della regione Piemonte, ha dichiarato che “c’è stato nell’ambito del nostro Ufficio elettorale una discussione, che è durata abbastanza; ci sono state inizialmente anche delle perplessità perché, appunto, come si sa adesso (non dico niente di nuovo), il testo normativo dà adito a delle perplessità interpretative … Escludo quindi che sia seguito questo orientamento, questa interpretazione, solo perché il modello era predisposto in quel modo. Noi eravamo già pronti a modificarlo e adattarlo a diversa interpretazione che sarebbe stata data”. Ciò nondimeno, il medesimo magistrato ammetteva che “noi ci siamo sentiti anche con gli uffici elettorali di Roma e di Milano, se non sbaglio, e abbiamo poi insieme verificato e insieme abbiamo detto che secondo noi l’interpretazione era quella di richiedere per tutti la soglia del 3 per cento”. L'ufficio elettorale regionale per il Lazio assunse in data 19 aprile 2006 dichiarazione di non luogo a provvedere sulle istanze avanzate dalle liste identificate come "Rosa nel pugno" e "Italia dei valori; a supporto di tale decisione, invocava pubblicistica cartacea o telematica delle due Camere falsandone il contesto od i presupposti (come già dimostrato dall’onorevole Crema nell’interrogazione 3-00091), tanto che nella citata seduta del Comitato inquirente il relatore ha sostenuto che “per atti parlamentari vanno intesi solo quelli inerenti alle discussioni in cui fu poi approvata la legge, e non atti di provenienza delle due Camere”. L’Ufficio elettorale regionale della Campania, costituito presso la Corte d’appello di Napoli, nel verbale delle operazioni modello n. 65 E.P. dà conto di 15 riunioni, per il completamento delle operazioni di proclamazione, e tace sullo svolgimento di una sedicesima riunione, salva l’apparente anomalia del fatto che il 18 aprile 2006 l’Ufficio si riunì alle ore 16 invece che alle usuali ore 15; a quell’ora, in realtà - conclusesi nella mattinata le operazioni di controllo degli scrutini degli uffici sezionali, e quindi nell’apprestarsi a procedere ai calcoli di cui agli articoli 16 e 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993 - l’Ufficio elettorale regionale si riunì in composizione plenaria nel Nuovo palazzo di giustizia di piazza Cenni, senza la presenza di alcun rappresentante di lista o soggetto titolato dalla procedura elettorale, su convocazione del suo Presidente diramata il 15 aprile precedente e recante le parole: “Al fine di deliberare in merito a molteplici note pervenute presso la segreteria dell’intestato Ufficio in ordine ai criteri di ripartizione dei seggi per il Senato della Repubblica”. I soggetti autori delle “note (...) pervenute presso la segreteria” dell’Ufficio regionale erano interessati in via diretta al riparto dei seggi senatoriali campani, e le loro doglianze reagivano a quella che era presentata come una decisione assunta al Ministero dell’interno che avrebbe danneggiato le loro ragioni. Eppure la formula finale dell’atto deliberato in quella sede fu: “Tanto illustrato, esprime il convincimento che l’assegnazione e la ripartizione dei seggi all’interno delle coalizioni che abbiano ottenuto il maggior numero dei voti ma non raggiunto il 55 per cento dei seggi assegnati alla Regione debba avvenire escludendo dal riparto le liste che non abbiano superato la soglia di sbarramento del 3 per cento”. In presenza di “note (...) pervenute presso la segreteria” dell’Ufficio regionale, in alcune delle quali “viene illustrata una linea interpretativa dei criteri” di riparto dei seggi, quella dell’Ufficio elettorale regionale appare a tutti gli effetti una pre-determinazione inaudita altera parte, enunciandola sotto la veste meno impegnativa possibile (espressione di “convincimento”) per negare alle parti una pronuncia formale ricorribile dinanzi alla Camera competente in sede di verifica dei poteri. Ulteriore elemento di sospetto riposa nel fatto che la decisione di compilazione dei paragrafi da 12 a 14 del modello 65 E.P., che contengono il riparto dei seggi tra le altre coalizioni di liste ammesse a riparto, sia stata verbalizzata il giorno dopo non da tutti e nove i magistrati presenti alla decisione del 18 aprile, ma solo con una composizione ristretta dell’Ufficio, alla quale non hanno preso parte né il presidente dell’Ufficio dottor Gaetano Annunziata, né il cancelliere della Corte d’appello Renato Gnerre. Erano bensì presenti, nei due ruoli decisivi di Presidente e di segretario, il dottor Vincenzo Trione ed il funzionario di cancelleria Luciano Scotti, ma di nessuno dei due si dà notizia alcuna nel modello 65 E.P. e nel caso di Trione egli non compare neppure tra i componenti del Collegio.
Le strategie carsiche dell’Ufficio elettorale presso la Corte d’appello di Napoli possono spiegare affidamenti offerti e poi ritirati anche sulla questione del conteggio, al numeratore della frazione da cui deriva il quoziente, di tutte le liste appartenenti alla medesima coalizione; si tratta di una fattispecie che valorizza le liste incapienti, ma che hanno superato il 3 per cento, la cui specificità non è stata colta appieno nella presente discussione. Quanto alla questione di costituzionalità, la relazione per il Piemonte articola esplicitamente procedure e motivazioni, ricordando i precedenti specifici in cui la Giunta ha ritenuto attivabile tale strumento e quelli della Corte costituzionale quando ha riconosciuto qualifica di giudice a quo ad organi politici investiti della verifica dei poteri. Controbatte in dissenso il senatore GIULIANO (FI).

E’ dichiarata chiusa la discussione generale congiunta. La Presidenza avverte che assoggetterà l’esercizio dei poteri d’impulso d’ufficio - che la Giunta dovesse ritenere necessario attivare in riferimento alle altre regioni in conseguenza dell’accoglimento di una determinata proposta in una regione - alla valutazione del relatore competente per ciascuna di tali regioni.

Previa rinuncia alla replica del relatore per l’Emilia Romagna, si procede alla votazione sulla sua proposta di reiezione in ordine al ricorso Zobbi.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) denuncia che la relazione depositata e fatta propria dal senatore Giuliano reca tutta una parte (a partire dalle parole “per mero tuziorismo” e fino alle parole “che per il Senato”) che rappresenta il plastico tentativo di ingerenza di un relatore in conflitto di interessi sulle altre Regioni: non vi era alcun motivo di argomentare in ordine ai ricorsi sul 3 per cento, per il senatore Izzo, visto che nella sua Regione il presupposto di diritto incontestato era il comma 3 dell’articolo 17, che gli stessi ricorrenti Intini ed altri ammettono essere fonte di una soglia di sbarramento nelle Regioni in cui non è scattato il premio di maggioranza. Ma il precedente relatore aveva interesse a precostituire un giudizio e, pertanto, scelse di farlo rientrare nella sua relazione pur non essendovene assolutamente bisogno. Tale conflitto si riverbera nella proposta in votazione, in quanto il senatore Giuliano ha scelto di far propria quella relazione nella sua integralità.
Sulla parte residua della relazione, dichiara la propria astensione.

La Giunta, con l’astensione dei senatori Manzione e Negri, approva a maggioranza la proposta del relatore per l’Emilia Romagna di respingere il ricorso Zobbi.

Previa rinuncia alla replica del facente funzioni relatore per la Liguria, si procede alla votazione sulla sua proposta di reiezione in ordine al ricorso Badano.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) lamenta che il senatore Ripamonti ha scelto di respingere nel merito un ricorso tardivo, cosa che non potrà non costituire precedente anche per il futuro; pertanto dichiara che si asterrà, non concordando con l’argomento ribadito dal Presidente secondo cui l’esposto avanzato in sede di Ufficio elettorale regionale evita la decadenza anche se coltivato in ritardo dinanzi alla Giunta del Senato.

La Giunta, con l’astensione del senatore Manzione, approva a maggioranza la proposta del relatore per la Liguria di respingere il ricorso Badano.

Previa rinuncia alla replica del relatore per la Campania, si procede alla votazione sulla sua proposta di reiezione in ordine ai ricorsi Pionati/Marotta, Intini e Conte.

Il Presidente NANIA dichiara di non poter ammettere votazioni per parti separate all’interno della medesima regione, tra posizioni soggettive che versino in identico presupposto di legge invocata nel ricorso; respinge pertanto una richiesta in tal senso avanzata dal senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) .

La Giunta, con l’astensione del senatore D’Onofrio e con il voto contrario del senatore Manzione, approva a maggioranza la proposta del relatore per la Campania di respingere i ricorsi Pionati/Marotta, Intini e Conte.

Previa rinuncia alla replica del relatore per il Lazio, si procede alla votazione sulla sua proposta di reiezione in ordine ai ricorsi Intini e Merlonghi.

Il senatore Antonio BOCCIA (PD-Ulivo) concorda con il senatore Di Lello Finuoli sull’interpretazione del sistema normativo in cui si iscrive il comma 6 dell’articolo 17; conviene con i senatori Stracquadanio e Pastore sull’esistenza di un patto con gli elettori stretto nel presupposto dell’esistenza della soglia di sbarramento; ritiene che l’emendamento Mancino dimostri, unitamente alla relazione Pastore, che al momento del voto il Senato espresse l'unanime convincimento, già da lui riscontrato come deputato durante la prima lettura alla Camera che andasse introdotto lo sbarramento per tutte le Regioni; ritiene ardita la configurazione di una questione di costituzionalità sollevata da un’Assemblea parlamentare che, più utilmente, potrebbe con minore dispendio approvare una legge di interpretazione autentica. Per questi motivi dichiara voto favorevole alla proposta del relatore Pirovano.

Il senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum) si dichiara deluso dalla commistione tra funzione giurisdizionale e funzione legislativa in cui va degradando il dibattito di Giunta, che meriterebbe di mantenersi all’elevato livello dei lavori svolti invano dal Comitato inquirente: la proposta del relatore per il Lazio, nonostante tutti i tentativi, si rivela frutto di un accordo politico nel quale l’abbraccio tra i due schieramenti rasenta il placcaggio a vista reciproco. Essa pertanto merita voto contrario.

Il PRESIDENTE replica dichiarando che l’orientamento già espresso dalla Giunta nelle precedenti votazioni dimostra come la ricostruzione offerta dai relatori si fondi su un dato letterale.

La Giunta, con l’astensione del senatore D’Onofrio e con il voto contrario del senatore Manzione, approva a maggioranza la proposta del relatore per il Lazio di respingere i ricorsi Intini e Merlonghi.

Previa replica del relatore per la Puglia, senatore ZUCCHERINI (RC-SE), secondo cui chi chiede riconoscimento di onestà intellettuale non può negarla agli altri (ignorando la prova del nove rappresentata dal fatto che vi sono partiti che si sono coalizzati proprio in previsione del voto), si procede alla votazione sulla sua proposta di reiezione in ordine ai ricorsi Intini e Valente.

La Giunta, con il voto contrario del senatore Manzione, approva a maggioranza la proposta del relatore per la Puglia di respingere i ricorsi Intini e Valente.

Previa replica del relatore per il Piemonte, senatore MANZIONE (Misto-UD-Consum), secondo cui la coerenza dopo un anno e mezzo di lavoro dovrebbe essere titolo sufficiente per ascrivere onestà intellettuale (nulla deponendo, invece, la mera acquiescenza a disegni politici trasversalisti che disattendono le legittime pretese dei ricorrenti), si procede alla votazione della sua proposta di accoglimento del ricorso Intini/Piemonte, prima della quale sarà votata la proposta subordinata, di sollevare questione di costituzionalità sull’articolo 17 comma 6 del decreto legislativo n. 533 del 1993. Avverte infine che ha depositato agli atti della Giunta la relazione in ordine al ricorso dell’onorevole Cambursano in Piemonte, per pronunciarsi sul quale il termine finale è il 23 gennaio 2009.

Il senatore CASSON (PD-Ulivo), il senatore PASTORE (FI), il senatore DI LELLO FINUOLI (RC-SE) ed il senatore STRACQUADANIO (DCA-PRI-MPA) dichiarano voto contrario alla proposta subordinata del relatore Manzione, dissentendo dalla perspicuità dei precedenti, dalla rilevanza della questione, dalla addotta impossibilità di procedere ad interpretazione secundum Constitutionem; essi, unitamente al Presidente NANIA, ritengono paradossale recidere il nesso di continuità giuridica tra il Senato che applica la norma e il Senato che l’approvò, oltre a configurare una cessione di sovranità nei confronti di altro potere dello Stato.

La Giunta, con i voti favorevoli dei soli senatori Manzione e D’Onofrio, respinge la proposta subordinata contenuta nella relazione per il Piemonte in ordine alla questione di costituzionalità sull’articolo 17 comma 6.

La Giunta, con il voto favorevole del senatore Manzione, respinge a maggioranza la proposta, contenuta in via principale nella relazione per il Piemonte, di contestare il seggio del senatore Turigliatto, la cui elezione si intende automaticamente dichiarata valida.

Il Presidente procede alla nomina di altro relatore per il Piemonte (scelto nella maggioranza espressa dal voto), nella persona del senatore Augello.

Il Presidente NANIA avverte altresì che si procederà in altra seduta alla discussione, replica e votazione sulle parti delle relazioni (già illustrate) non attinenti alla soglia di sbarramento.
Si tratterà di una discussione e votazione separata, regione per regione: nell’ordine saranno poste ai voti le proposte di convalida dei senatori dell’Emilia Romagna, della Liguria, della Campania, del Lazio e della Puglia. In ossequio alle determinazioni dell’Ufficio di Presidenza integrato, infine, saranno poste all’ordine del giorno le relazioni concernenti le rimanenti Regioni.

La seduta termina alle ore 19.









ALLEGATO 1

RELAZIONE DEL SENATORE MANZIONE, RELATORE PER IL PIEMONTE,
ALL’ESITO DEI LAVORI DEL COMITATO INQUIRENTE
(istituito con delibera della Giunta dell’11 ottobre 2006)
La Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, con deliberazione dell’11 ottobre 2006, accolse la proposta del Relatore per il Piemonte di costituire, ai sensi dell’articolo 10, comma 3, del Regolamento parlamentare per la verifica dei poteri, un Comitato inquirente, incaricato di svolgere alcuni adempimenti istruttori, ammettendo altresì il senatore Franco Turigliatto e l’onorevole Ugo Intini all’esame degli atti. In sette sedute svoltesi tra novembre e dicembre 2006, tali adempimenti si sono articolati nelle audizioni dei professori Giuliano Vassalli, Fulco Lanchester, Mario Patrono, Massimo Luciani, Antonio Agosta e Stefano Ceccanti, nonché nell’audizione del presidente dell’Ufficio elettorale regionale del Piemonte, dottor Quaini, e del segretario responsabile, signora Ruscazio.
La questione di diritto, sottesa al ricorso presentato, è quindi ora matura per essere discussa in Giunta.
Da un lato, ci si chiedeva se il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” (per richiamare l’espressione propria dell’art. 12, comma primo, delle preleggi) fosse univocamente volto ad includere - tra le liste coalizzate ammesse al riparto dei seggi nelle circoscrizioni senatoriali regionali, in tutte le fattispecie previste dall'art. 17 del d. lgs. n. 533 del 1993 - sia quelle che avessero superato la soglia di sbarramento del 3% dei voti validi espressi, sia quelle che non l’avessero superata.
Dall’altro lato, ci si chiedeva se occorresse che l’interpretazione letterale fosse comunque non univoca, per giustificare il ricorso al criterio “della intenzione del legislatore”.



1. Ogni norma di diritto deve essere interpretata, sosteneva il Bonfante Pietro Bonfante, Istituzioni di diritto romano (1896), Introduzione, § 8, rist. corretta della X edizione a cura di G.Bonfante e di G.Crifò, Milano 1987, pp. 22-25. operando una sintesi dell’elaborazione ermeneutica nel diritto romano. E proseguiva: “s’intende però che ne hanno particolare bisogno le leggi oscure, ambigue o imperfette nell’espressione e quelle che, facendo parte di uno stesso Codice, paiono contraddirsi tra di loro. Si distingue a tal proposito l’interpretazione grammaticale e l’interpretazione logica: ma si noti che non trattasi di due specie diverse, bensì di due momenti o di due stadii del processo logico. L’interpretazione grammaticale intende puramente stabilire il senso che risulta dal valore linguistico delle parole e delle locuzioni usate dal legislatore e dalla loro costruzione sintattica. Occorre anche in questa analisi por mente al tecnicismo dei termini giuridici, che hanno spesso un senso specifico diverso dagli usi ordinarii; per quanto nei giureconsulti romani il linguaggio del diritto non fosse, come al giorno d’oggi, così separato dal linguaggio comune. Ma può accadere che l’interpretazione grammaticale non dia per nulla un senso chiaro e verosimile. Qui comincia il cómpito dell’interpretazione logica. In questo secondo stadio la prima cosa a cui convien riguardare è la connessione tra le varie parti della legge stessa Celso, L. 24 D. De legibus 1,3: Inciuile est nisi tota lege perspecta una aliqua particula eius proposita iudicare uel respondere.; poi la connessione della legge con altre anteriori o posteriori L. 26-28 D. De legibus 1,3.; poi lo scopo che la legge si propose, la ratio legis, come dicono i romani L. 19 D. Ad exhibendum 10,4. Lo scopo della legge, ove al legislatore sia possibile raggiungerlo direttamente, può coincidere con il suo disposto: onde avviene che spesso è tutt’una cosa con la mens legis., e a sua volta lo scopo della legge vuol essere ricavato da molti elementi: la condizione giuridica e sociale in cui la legge fu emanata, l’occasio legis, i precedenti, le dichiarazioni di coloro che hanno contribuito a formarla ecc. Ove tutti questi mezzi non giovino, non c’è altro rifugio che di preferire l’interpretazione che dà alla legge un senso più ragionevole ed equo o meno remoto dal diritto esistente” L. 18 D. De legibus 1,3; L. 192,1 D. de regulis iuris 50,17; L. 67 D. eodem..
Già all’epoca, però, ci si poneva il problema dell’interpretazione logica che “induce a correggere l’espressione inesatta del precetto legislativo”: nel descrivere le espressioni, “tradizionali entrambe”, di interpretazione estensiva (plena interpretatio) - se il concetto cui si riduce la legge è più lato dell’inesatta espressione di esso - e restrittiva - se tale concetto è più ristretto - il Bonfante giudicava che “non sono troppo felici, perché pare che la legge stessa, cioè il concetto suo, si estenda o si restringa, il che non sarebbe interpretare, bensì violare la legge. In realtà ciò che si estende o si restringe è la parola, in base appunto al pensiero scoperto, perché la volontà della legge consiste nel suo pensiero, non nelle parole Si può ben ripetere al proposito: Scire leges non est uerba earum tenere, sed uim ac potestatem (Celso, L. 17 D. De legibus 1,3).”. Quanto al processo d’interpretazione analogica cui si perviene, seguendo la logica del diritto (ratio iuris), per affrontare il problema delle lacune legislative, il medesimo autore giudica “naturale che a questo processo non si debba far ricorso nelle norme che costituiscono eccezione ai principii fondamentali dell’istituto: sulla base dell’ius singulare non si può ragionare per analogia”.
Si tratta di problematiche che, dall’elaborazione romanistica, discendono fino a noi: per ius singulare si designa l’opposto della massima ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio “Di qui deriva che per l’esattezza della interpretazione analogica è necessario che nel caso dato non si contenga una eccezione; imperciocché argomentando da questa, si cadrebbe in una inconseguenza logica, e quindi si riuscirebbe ad una interpre-tazione giuridicamente falsa, cogliendo, come dice assai bene il Trendelenburg, non il punto di contatto tra i due casi, ma il loro punto di distinzione. È questa la ragione per la quale questa specie di interpretazione non è applicabile al ius singulare”: Francesco Filomusi Guelfi, Enciclopedia giuridica (1885), VII edizione, Napoli 1917, § 38 Dell’interpretazione. , oppure - invece di una mera nozione logico-giuridica - esso indica un’esigenza di tipicità nella restrizione dei diritti soggettivi?
Cicerone pare esprimere questa esigenza quando ricorda che nella legislazione fondamentale della Repubblica romana i privilegia erano proibiti: "le XII tavole vietano che si propongano leggi riguardanti le singole persone, giacché questo è il privilegio" In De domo sua ad pontefices Oratio, XVII: «vetant XII tabulae leges privatis hominibus inrogari; id est enim privilegium».. È noto, del resto, che il “privilegia ne irroganto” della IX Tavola era scrupolosamente attinente all’etimo del termine, composto di privus ("singolo, isolato") e un derivato di lex: ("legge"): il precetto nasceva come divieto della violazione del principio di generalità della norma scritta “Ut omnes homines, summi cum infimis, pari iure teneantur, iuraque, non in singulas personas, sed generaliter constituantur” (Ulpianus, l. 8. de legg.)., il che a metà del V secolo a Roma (dopo la deposizione di Tarquinio il superbo e la prima esperienza decemvirale) era una garanzia contro le discriminazioni di sfavore A dispetto della lettura datane da illustri autori, a partire da Giambattista Vico nel libro IV dei Principi di scienza nuova, XII, 3.. Del resto quando, in epoca tardo-repubblicana ed imperiale, il sintagma privilegium giunse a designare estensivamente anche la norma non generale di favore, l’elaborazione dottrinaria di scuola imperiale coniò la locuzione ius singulare proprio per sterilizzare il forte elemento di tutela dei diritti insito nella teoretica del divieto di estensione dell’interpretazione: esso divenne espressione di una mera esigenza logico-giuridica Paolo: Quod uero contra rationem iuris receptum est, non est producendum ad consequentias. Giuliano: In his quae contra rationem iuris constituta sunt, non possumus sequi regulam iuris (L. 14, 15 D. De legibus 1,3)., depurandosi di tutto ciò che si era fino ad allora sviluppato intorno al divieto di privilegium.
È interessante notare che questo sviluppo “garantistico” non rimase abbandonato, ma riemerse nella canonistica medievale: l’elaborazione filologica in ragione della quale il lemma giuridico privilegium assunse valore esclusivamente di favore, trasponeva la relativa dommatica al divieto di leges odiosae. Proprio quel Bonifacio VIII che, nella costituzione Clericis laicos del 1296, rivendicò il diritto al privilegium immunitatis per le esenzioni tributarie dei beni posseduti dagli ecclesiastici, nel Liber sextus prescrisse che: “Odia restringi, et favores convenit ampliari”. Quanto recita il Liber sextus di Bonifacio VIII è poi stato recepito in tutta la precettistica della Chiesa, fino al canone 18 del codice di diritto canonico del 1983.
Per leges odiosae si intendono così, oltre alle penali, quelle recanti un’eccezione ad una legge più generale, e quelle che determinano una restrizione a facoltà riconosciute dall’ordinamento: ad esse – volte a conseguire il bene pubblico o generale mediante un sacrificio di un bene particolare o singolo – la dottrina canonistica prescrive che si dia “un’interpretazione stretta: conforme al significato proprio delle parole, senza dipartirsi da esse, ma dando loro il minor contenuto possibile” Alejandro W. Bunge, Tecnica legislativa canonica, Pontificia Universidad catolica argentina, 2003, III, § 13.3.. Nel far questo, la dottrina canonistica si emancipava dal metodo teologico, il cui chiaro carattere dialettico “oscilla tra la «lettera» e l'«allegoria», tra la conoscenza della storia e l'intelligenza spirituale, le quali sono indirizzate in un'interrelazione semantico-analogica che supera la distanza contestuale originaria con il fine di raggiungere una comprensione della verità, sia della fede che della morale, che nella sua globalità misterica trascende il senso delle concrezioni letterarie parziali e diventa metaesegesi” Così Alfredo Simòn, Il metodo teologico di Gregorio Magno. Il processo plurisemantico della analogia metaesegetica, Reportata (31 agosto 2004), che prosegue: “In questo modo, la historia narra i fatti accaduti trasmessi dalla lettera e l'allegoria rinvia ad un ulteriore significato di carattere cristologico, profetico o etico (...) Gregorio espone chiaramente la sua concezione teologica della Sacra Scrittura. Afferma, ad esempio, «la Sacra Scrittura è di gran lunga superiore ad ogni scienza e dottrina... perché con un medesimo discorso narra un fatto e rivela un mistero» (...) egli sottomette la Scrittura ad un processo di decontestualizzazione originario per riproporla in illimitati contesti viventi, creando così un criterio ermeneutico di autonomia semantica rispetto alla situazione della narrazione scritta. Con questo criterio un mistero che trascende il tempo e lo spazio può farsi accessibile in un certo modo alla mente umana. Per realizzare il suo progetto Gregorio stabilisce una circolarità ermeneutica tra i diversi significati estrapolabili nella Scrittura rispondenti ad una molteplicità di livelli di lettura e di interpretazione, che è stato definito dagli studiosi delle tradizioni patristiche come teoria dei sensi della Scrittura”. . Tommaso d’Aquino, nel descrivere i principi dell’interpretazione giuridica, sostiene infatti che “quod interpretatio locum habet in dubiis, in quibus non licet absque determinatione principis a verbis legis recedere. Sed in manifestis non est opus interpretatione, sed executione THOMAE de Aquino, Summa theologiae, Alba-Roma 1962, I-IIae, quaestio 96 De potestate legis humanae, articulus 6 Utrum ei qui subditur legi liceat praeter verba legis agere, p. 966s., benché nella communis salus “Omnis lex ordinatur ad communem hominum salutem, et intantum obtinet vim et rationem legis; secundum vero quod ab hoc deficit, virtutem obligandi non habet. Vnde Iurisperitus dicit [D. 1,3,25] quod nulla iuris ratio aut aequitatis benignitas patitur ut quae salubriter pro utilitate hominum introducuntur, ea nos duriori interpretatione, contra ipsorum commodum, perducamus ad severitatem. Contingit autem multoties quod aliquid observari communi saluti est utile ut in pluribus; quod tamen in aliquibus casibus est maxime nocivum. Quia igitur legislator non potest omnes singulares casus intueri, proponit legem secundum ea quae in pluribus accidunt [D. 1,3,10; D. 1,3,12; cfr. D. 1,3,3], ferens intentionem suam ad communem utilitatem. Vnde si emergat casus in quo observatio talis legis sit damnosa communi saluti, non est observanda”: THOMAE de Aquino, Summa theologiae, Alba-Roma 1962, I-IIae, quaestio 96 De potestate legis humanae, articulus 6 Utrum ei qui subditur legi liceat praeter verba legis agere, p. 966s. veda un elemento atto a derogare alla lettera della legge Ancora in occasione della moderna codificazione del diritto canonico, si è sentito il bisogno di contemperare la pedissequa trasposizione dei principi dell’ermeneutica giuridica sedimentatisi in circa un millennio (Canone 17 del Codex iuris canonici: “Leges ecclesiasticae intellegendae sunt secundum propriam verborum significationem in textu et contextu consideratam; quae si dubia et obscura manserit, ad locos parallelos, si qui sint, ad legis finem ac circumstantias et ad mentem legislatoris est recurrendum”) con l’esigenza che accanto alla regola primaria dell’interpretazione grammaticale, abbia “posto anche la cosiddetta interpretazione logica che rimanda non soltanto agli eventuali luoghi paralleli, ma soprattutto alla finalità specifica e alle circostanze della legge – ciò che fa riferimento alla realtà ecclesiale e ai contenuti spirituali della norma – nonché soprattutto alla mens Legislatoris, la quale si dovrà dedurre sia dall’iter di elaborazione e approvazione definitiva della legge medesima che dalle eventuali dichiarazioni posteriori del Legislatore, talvolta fatte in forma di veri atti magisteriali (...) Ciò significa, che così come nell’insegnamento del Diritto canonico non è sufficiente il solo metodo esegetico dei canoni, ma ci vuole anche la costruzione sistematica e scientifica che enuclea i principi e relazioni ed ordina le conoscenze acquisite, così pure sarebbe insufficiente – e spesso equivoca ed ingannevole – un’ermeneutica puramente esegetica dell’interpretazione dei testi legislativi. Voglio dire che l’esatta determinazione del significato tecnico-giuridico dei termini è certamente necessaria, ma questa precisazione deve essere fatta all’interno della più vasta comprensione del contesto normativo e della salus animarum” (Julián Herranz, Salus animarum, principio dell’ordinamento canonico, intervento del Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi al Convegno alla Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 6 aprile 2000). Del resto, è evidente che tale l’applicazione del principio di legalità nell’esercizio dell’autorità ecclesiastica, quando posto al servizio appunto della “salus animarum”, si svincola da una funzionalizzazione all’evoluzione giuspubblicistica della tutela dei diritti di libertà: “Naturalmente questo principio va inteso nell’ordinamento canonico non nel senso civilistico e democratico di concretizzazione della sovranità popolare che, attraverso le camere (potere legislativo) controlla l’attività di governo, ma nel senso tecnico e morale di sottomissione dell’autorità alle norme del diritto modo iure præscripto” (ibidem)..
Nel Medio evo del diritto l’interpretatio era essenzialmente un fatto normativo, non cognitivo, che “cade nel campo della nomopoièsi, non in quello dell’ermeneutica” Severino Caprioli, Lineamenti dell’interpretazione, 2005.: ecco perché ci si soffermava su elementi di derivazione giustinianea Primo fra tutti il divieto di Giustiniano dell’interpretazione [C. 1,17,2,21: const. Tanta], di cui si rinviene traccia anche nel citato passo dell’Aquinate, ove si legge: “non pertinet ad quemlibet ut interpretetur quid sit utile civitati et quid inutile: sed hoc solum pertinet ad principes, qui propter huiusmodi casus habent auctoritatem in legibus dispensandi”. A fronte della tesi secondo cui “si è trattato di reprimere l’abuso per cui il giurista ha preteso, attraverso l’interpretazione, di divenire conditor legum” (Flavio Lopez De Oñate, La certezza del diritto (1942), nuova edizione, Milano, 1968, p. 127), più correttamente s’è sostenuto che esso fondava la nozione di interpretazione autentica (M.S. Giannini in una lettera a F. Lopez, ed. poi nella Rivista trimestrale di diritto pubblico 2000, p. 1339s.)., mentre a porsi il problema della polisemia delle espressioni linguistiche – ed a gettare le basi di un’ermeneutica legale distinta dall’ermeneutica generale – provvide per primo il Grozio Secondo cui «verba intelligenda sunt ex proprietate, non grammatica quae est ex origine, sed populari ex usu»: H. Grotii, De iure belli ac pacis lib. II, XVI De interpretatione, § I, 2, Utrecht, 1773, p. 488-489., per il quale l’interpretazione con cui congetturare in ordine alla volontà del legislatore si trarrebbe dalla significatio verborum: le volontà dichiarate (interni actus) per mezzo delle voces Sarebbero indirizzati alle vocum significationes tre loci: materia, effectus, coniunctio., a loro volta, saranno poi favorabiles, od al contrario odiosi, oppure mixti.
Nell’elaborazione giuridica moderna ciò ha significato individuare le insidie interpretative più frequenti nel linguaggio: “Sic et ubi vocabulum aliquod plures habeat significationes, unam strictiorem, alteram laxiorem, ni ambiguitas possit tolli, merito in odiosis strictior, in favorabilibus laxior significatio obtinet Samuele Pufendorf, Elementorum iurisprudentiae universalis libri II, Cambridge 1672 (ripr. anast. Oxford 1931), Liber II, Obseruatio IV Homini ita curam sui agendam recta ratio dictitat, ut ne societas humana turbetur, § XXXVI De interpretatione signorum, p. 321.. La soluzione individuata è stata quella di confermare sempre – stavolta in rapporto alla nozione di diritti naturali, elaborata dalla dottrina seicentesca – la regola di prevalenza dell’obbligo di inestensibilità delle norme di sfavore.
La cultura settecentesca italiana ebbe modo di esprimere tale sviluppo di civiltà giuridica al massimo livello. Alessandro Verri rivendicò l’autonomia della dottrina giuridica come garanzia contro la polisemia del linguaggio comune, invitando a troncare “l’origine delle questioni sull’interpretazione de’ pensieri umani in qualunque atto”, al qual fine “è bisogno che il legislatore fissi il senso delle parole e ne circonscriva l’uso. Ciò otterrassi col ridurre simili atti quanto più si possa a formole legali, perché la lingua comune, massimamente nella bocca del volgo, è soggetta a troppa incostanza ed abuso (...) Nel sistema presente l’abuso delle opinioni ha fatto che vi sia una gran differenza fra la lingua parlata e la legale (...) perché la lingua legale non è altro che la lingua comune impastata di vocaboli legali e tirata in diversi sensi, anche dove è chiara, dalle arbitrarie e cavillose interpretazioni. Il saggio legislatore, lungi dal renderla ambigua, la renda costante; né faccia una nuova e strana lingua con termini particolari dell’arte se la necessità non lo vuole (...) Ristretta che sia la materia delle leggi, restringendo il numero de’ loro oggetti, e fissato l’uso e la forza di quel mezzo con cui gli uomini si comunicano le idee, sarebbe reso molto più facile il dar norma agli atti umani; e due terzi del codice sarebber già fatti” Alessandro Verri, Ragionamento sulle leggi civili, Il Caffè, II (1765), fasc. XVIII..
L’intrinseca polisemia degli enunciati normativi veniva quindi esorcizzata con il ricorso ad una nomenclatura giuridica, distinta dall’uso comune, che consentisse il ricorso uniforme al metodo sillogistico. I presupposti di tale convinzione sono però stati revocati in dubbio dall’elaborazione dottrinaria degli ultimi due secoli, che portano ad un pluralismo metodologico nell’ermeneutica giuridica: ai nostri fini, ciò avviene in ragione dello scardinamento del presupposto dell’ in claris non fit interpretatio, nonché a causa della proliferazione di linguaggi scientifici diversi da quello giuridico, rispetto ai quali però il diritto deve misurarsi.

2. Il riconoscimento della necessità - in sede applicativa - di salvaguardare la certezza del diritto corona un percorso esegetico in cui si registra l’abbandono della figura medievale della sovranità come potere unitario ed onnicomprensivo, in una con l’attribuzione dei profili elementari della stessa sovranità ad organi monofunzionali, comunque composti. Non è un caso che la teoria incentrata sulla figura del giudice “bouche de la lois Tratta da Montesquieu, De l’esprit des loix, lib. VI, III Dans quels Gouvernements et dans quels cas on doit juger selon un texte précis de la Loi (ed. Leida, 1749, p. 85 s.); lib. XI, VI De la constitution d’Angleterre (p. 173 s., 181). In tal senso anche: Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), IV Interpretazione delle leggi (ed. F. Venturi, Torino, 1965, pp. 15-17); Alessandro Verri, Di Giustiniano e delle sue leggi, Il caffè 1764-1765 (rist. S. Romagnoli, Milano, 1960, pp. 129-136) e Ragionamento sulle leggi civili, cit.; Pietro Verri, Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763), Osservazioni sulla tortura, § XV, p. 161, e Sulla interpretazione delle leggi, Il caffè 1765-1766 (rist. cit., pp. 483-489). sorga in concomitanza con quella della separazione dei poteri, e con l’esigenza di delineare un confine tra chi la legge produce e chi è chiamato ad applicarla Montesquieu, De l’esprit des loix, lib. VI, VI, dove si legge: “Qualora nella medesima persona, o nel medesimo corpo di magistratura la possanza legislatrice è unita alla facoltà esecutrice, non v’è più libertà; poiché si può temere che lo stesso monarca, o senato, non facciano leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente”.. Le matrici storiche di questa lettura dell’ermeneutica giuridica vanno ricercate in età moderna, soprattutto, nell’organizzazione statale della Francia rivoluzionaria, ispirata ad una rigidissima separazione dei poteri ed al principio di legalità nella giurisdizione: il Legislatore, espressione della volontà generale, fa la legge; il giudice, sottoposto alla legge, la applica limitandosi a dichiararne il significato obbiettivo.
Pietro Verri così traspose nel diritto moderno il principio in claris non fit interpretatio: “Se il giudice diventa legislatore, la libertà politica è annichilata; il giudice diventa legislatore sì tosto che è lecito interpretar la legge; dunque si proibisca al giudice l’interpretar la legge; dunque si riduca ad esser mero esecutore della legge; dunque eseguisca la legge nel puro e stretto significato delle parole, e nella materiale disposizione della lettera. Che il giudice, tosto che la legge è soggetta a interpretarsi più in un senso che in un altro, diventi legislatore, è cosa per sé evidente, basta per esserne convinto il riflettere che interpretare vuol dire sostituire se stesso al luogo di chi ha scritto la legge, e indagare cosa il legislatore avrebbe verisimilmente deciso nel tale o tal altro caso, su cui non parla chiaramente la legge. Interpretare significa far dire al legislatore più di quello che ha detto, e quel più è la misura della facoltà legislatrice, che si arroga il giudice. (…) Dunque l’interpretar la legge fa diventare legislatore il giudice, e confonde le due persone del legislatore e del giudice, dalla assoluta separazione delle quali dipende essenzialmente la libertà politica d’una nazione. Dunque una nazione che cerchi la libertà politica deve proibire ad ogni giudice ogni qualunque libertà d’interpretare le leggi” Pietro Verri, Sulla interpretazione delle leggi, ne Il Caffè, II (1765), fasc. XXVIII..
La costruzione ha tratti di semplicità che, a duecento anni di distanza, sembrano sfiorare il semplicismo. Il dominio assoluto della legge – espressione della sovranità popolare “È una visione che esprime la volontà politica di concentrare il potere normativo nelle sole mani del sovrano, e ciò spiega il favore incontrato non solo nei regimi assoluti, ma negli stessi Stati liberali, in cui in virtù del principio della tripartizione dei poteri è il Parlamento, eletto da popolo sovrano, ad assumere il monopolio delle decisioni politiche”: Amelia Bernardo, Regole e vincoli dell’argomentazione giuridica, Centro di ricerca per il diritto d’impresa (CERADI), Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli (Luiss), settembre 2003., nella sua rappresentazione parlamentare – comporta che, se la legge ha espressamente previsto un certo caso con chiarezza, essa vi si applica senza che vi sia bisogno di ricorrere all'interpretazione; se all’inverso un caso non è stato espressamente previsto in essa subentrano allora regole ben dettagliate di argomentazioni legali (l'analogia, l'argomento a fortiori, a minori ecc.). Quindi è necessario interpretare le norme soltanto quando queste presentino “oscurità od ambiguità” o altro difetto di espressione: in tal senso la dottrina assolutamente prevalente anche nel nostro paese Cesare Beccaria, op. cit.: “Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpretazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto o dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sì del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, […]. Così acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta, perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl’inconvenienti di un misfatto. […]»., e la normazione che da quelle elaborazioni ebbe origine Francesco I [1768-1835], Codice civile generale austriaco (I giugno 1811, posto in vigore nel regno lombardo-veneto con atto del 28 settembre 1815), rist. Collezione completa dei moderni codici civili degli Stati d’Italia, Torino, 1845, p. 147: «Parte prima. Introduzione. Delle leggi in generale. § 6 Nell’applicare la legge non è lecito d’attribuirle altro senso che quello che si manifesta dal proprio significato delle parole secondo la connessione di esse, e dalla chiara intenzione del legislatore. § 7 Qualora un caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili precisamente dalle leggi decisi ed ai motivi di altre leggi analoghe. Rimanendo non di meno dubbioso il caso, dovrà decidersi secondo i principi del diritto naturale, avuto riguardo alle circostanze raccolte con diligenza e maturamente ponderate. § 8 Al solo legislatore spetta d’interpretare la legge in modo per tutti obbligatorio». Di ciò resta traccia nell’art. 73 dello statuto albertino: “L’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo”..
Questa teoria cognitiva dell’interpretazione, che riduce il giudice a bocca della legge, a ben vedere, è profondamente radicata nella mentalità corrente, dove sopravvive ancora l’idea secondo cui ogni questione di diritto ammetterebbe una ed una sola risposta giusta. E continua ad essere alimentata anche a livello politico-istituzionale Andrea Pugiotto, Come non si interpreta il diritto, Dal sillogismo giuridico al circolo ermeneutico, vi riconduce la mozione sulla questione giustizia approvata il 5 dicembre 2001 dal Senato della Repubblica..
Ebbene, la teoria pura del diritto è oramai giunta a conclusioni opposte: “non vi è alcun metodo che si possa designare come positivamente giuridico, secondo il quale, fra i vari significati verbali di una norma, si possa ravvisare soltanto uno di essi come ‘esatto’, nell’ipotesi naturalmente che vi siano parecchie interpretazioni possibili in rapporto con tutte le altre norme della legge o dell’ordinamento giuridico” Hans Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), trad. R.Treves, Torino (1952), cap. VI L’interpretazione, pp. 120-125.. È ormai abbandonata la rassicurante identificazione del diritto con la legge scritta “Non a caso la tecnica normativa più frequentemente utilizzata in quel contesto storico-politico è quella della codificazione, attraverso la quale il diritto vigente viene enunciato in compilazioni di carattere sistematico, unitario, coerente, così da esprimere il più chiaramente possibile la volontà del sovrano. Questa impostazione, che tanta influenza ha esercitato nella formazione della cultura giuridica dello scorso secolo, è tuttavia superata, essendo ormai generalmente riconosciuto il ruolo necessariamente “creativo” dell’attività di interpretazione”: Amelia Bernardo, Regole e vincoli dell’argomentazione giuridica, Centro di ricerca per il diritto d’impresa (CERADI), Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli (Luiss), settembre 2003., e con essa l’utopia ottocentesca di una legge che non necessiti di essere interpretata. Quanto disposto dal Codice Napoleone all’art. 5 (“È proibito ai giudici di pronunziare in via di disposizione generale o di regolamento nelle cause di loro competenza”) è stato sottoposto a critica financo nella madrepatria francese; sicuramente nel diritto continentale s’è andata sviluppando una progressiva emancipazione dal diritto scritto L’art. 20, 3 della Costituzione di Bonn dichiara che , nella sua attività di decisione il giudice è vincolato "alla legge ed al diritto", ed il BundesVerfassungsGericht ha chiarito che "il diritto non va identificato con il semplice insieme delle leggi scritte"., che ha portato la dottrina tedesca Partita invero da presupposti più aulici, come Federico Carlo Savigny quando scrive: “La libera operazione intellettuale designata con queste parole consiste in ciò, che noi riconosciamo la legge nella sua verità, vale a dire in quel modo, nel quale tale verità può essere appresa da noi mediante l’applicazione di un processo logico normale. Essa è necessaria in ogni legge, quando si debba attuare in pratica, ed in questo suo essere generalmente necessaria consiste pure la sua giustificazione. Perciò la sua applicabilità non è, come molti pensano, in alcun modo subordinata alla circostanza meramente casuale della oscurità di una legge (§ 50), per quanto essa possa per tal fatto divenire importante ed utile in modo particolare. Ma quella qualità della legge è una imperfezione, ed è necessario di partire dalla considerazione dello stato normale di questa per trovare sicuro rimedio a quello stato di imperfezione. Dall’altra parte però quella attività dell’intelletto non è in alcun modo esclusa da un alto grado di oscurità. Anzi noi dobbiamo tener per fermo che segnatamente il giudice, per la natura generale del suo ufficio, non deve mai dalla oscurità di una legge esser trattenuto dal formarsi una determinata opinione sul contenuto di quella, e dal pronunziare in conformità di ciò una sentenza. Imperocché in una controversia giuridica anche i fatti possono essere dubbi al massimo grado, senza che per questo il giudice possa negare la sua sentenza. Fra i due elementi del giudizio (regola di diritto e fatti) non corre sotto questo aspetto alcuna differenza sostanziale. È perciò pienamente conforme alla universale natura dello ufficio del giudice la espressa disposizione del diritto francese, la quale vieta al giudice di negare la sua sentenza [Code civil, art. 4] a causa del silenzio, della oscurità o della incompletezza della legge” (Sistema del diritto romano attuale [1840-1849], trad. V. Scialoja, I, Torino, 1886, cap. IV Interpretazione delle leggi, § 32 Concetto dell’interpretazione. Distinzione in legale e dottrinale). alla banalizzazione dell’ in claris non fit interpretatio sulla scorta della considerazione per cui - per dire che la legge è chiara - bisogna già averla interpretata. Per Josef Esser anche il testo più palesemente chiaro è tale solo in virtù delle equiparazioni giuridiche che fanno da ponte tra quell'enunciato e i fatti cui quell'enunciato dovrebbe riferirsi J. Esser, Grundsatz und Norm, IV ediz., Tübingen 1990. Per la tesi del circolo ermeneutico, ogni interpretazione è un collegamento tra lex scripta e jus non scriptum, e solo esso crea la norma vera e propria: ciò non è vero solo per la norma oscura, ma pure per quella che pare palesemente chiara, poiché tale chiarezza non è in realtà oggettiva, ma risiede, per così dire, nell'occhio di chi la vede. L'interprete è sempre immerso in un contesto di concetti, pregiudizi, equiparazioni, che gli trasmettono criteri normativi mediante i quali la premessa maggiore e quella minore sono a tal punto pre-valutate che la conclusione sillogistica relativa alle singole caratteristiche della fattispecie rimane al di sotto della soglia cosciente, e non si manifesta in pratica.; insomma le parole della legge non avrebbero un significato loro proprio, ma riceverebbero un significato a seconda della ricostruzione operata dall'interprete del contesto giuridico in cui vengono utilizzate.
Questo Relatore non condivide la superata credenza nella presunta oggettività della lettera della norma La struttura sillogistica della riconduzione del caso concreto alla fattispecie astrattamente prevista dalla legge è, in tal guisa, contestata: la definizione delle premesse non è oggetto di semplice constatazione, al pari dei dati che interessano le scienze naturali, non è rilevazione di dati esistenti (la legge - i fatti), ma è il risultato di un sofisticato ragionamento sulle fonti del diritto e sugli elementi della vicenda concreta, ragionamento che necessariamente coinvolge la personalità di chi è chiamato a decidere. Invero il sillogismo nulla dice sull’effettivo ragionamento seguito dal giudice per giungere alla conclusione: la conclusione è già contenuta nelle premesse, e da esse dipende, nel senso che avrà necessariamente lo stesso grado di verità e di attendibilità delle stesse., ma ammonisce a non sottovalutare le varie possibilità di manipolazione della legge, che – se lasciate libere, sganciate dall'appello ad una letteralità che resti quanto meno opzione interpretativa – potrebbero causare una caduta nel nichilismo giuridico Contro cui ammonisce l’antica e perspicua lezione di Giuliano Vassalli , Formula di Radbruch e diritto penale. Note sulla punizione dei “delitti di Stato” nella Germania postnazista e nella Germania postcomunista, Milano 2001, p. 301: “L’interpretazione giudiziale è un grande e talvolta benefico potere, ma deve avere anch’essa i suoi limiti invalicabili. Alcuni di questi limiti, come quello posto dal divieto di retroattività, sono posti addirittura da leggi specifiche. Il superarli con una certa disinvoltura, addirittura facendo appello al diritto extrapositivo o superpositivo, lascia adito a grandi perplessità. Né, esaltando il potere giudiziale di interpretazione delle leggi, si renderebbe omaggio alla dottrina di Radbruch”. . Occorre andare oltre il mero riconoscimento dell’esistenza di una dialettica permanente tra l’emittente del testo ed il destinatario della sua comunicazione: ciò può avvenire da un lato affermando che anche quella letterale è comunque un’interpretazione, e dall’altro precisando che rispetto a questo canone ermeneutico “di base” gli altri modi di relazionarsi alla norma giuridica sono più mediati.
L’effettiva chiarezza della disposizione in esame e la sua riferibilità al caso in discussione implica una scelta interpretativa Andrea Pugiotto, Come non si interpreta il diritto, Dal sillogismo giuridico al circolo ermeneutico, per il quale non è vero che “non un testo qualsivoglia in qualunque circostanza richiede uno sforzo interpretativo, ma solo un testo oscuro in una situazione di dubbio (…) più in generale, anche un significato ovvio o non controverso è pur sempre un significato, cioè una variabile dipendente dall’interpretazione”. In questo senso, “la disposizione è l’oggetto dell’attività interpretativa, mentre la norma ne rappresenta il risultato. Detto altrimenti, l’interpretazione giuridica è un’attività che vale a trasformare le disposizioni in norme”., per cui si dà interpretazione non già in presenza di disposizioni ambigue, ma in presenza di qualunque disposizione. Pur tuttavia, è un fatto che la polisemia intrinseca di un enunciato linguistico dipende anche dalle possibili imperfezioni della lingua o del suo uso: in tali casi, occorre chiarire se sussista una gerarchia tra i criteri di interpretazione dettati dall’articolo 12 delle preleggi, e se, quando per il criterio letterale si parla di “significato proprio delle parole”, si fa rinvio ad un lessico particolare (né è garanzia di certezza il fatto che esso sia tecnico-giuridico, visto che anche la terminologia giuridica è una variabile delle costruzioni dogmatiche dei giuristi). Se infatti la vigenza costante nel tempo, per la medesima legge, avviene attraverso una interpretazione evolutiva che dia allo stesso enunciato letture differenti – sia pure in continuità con il dato testuale di partenza – allora la disposizione legislativa, nell’atto stesso in cui viene posta, comincia un percorso di emancipazione dalla propria ratio originaria e viva, secondo un significato che può anche non coincidere con quello originario. Dalla voluntas legislatoris si passa così ad una differente voluntas legis determinabile non più in relazione al tempo ed all’occasione che hanno dato vita al testo legislativo quanto, piuttosto, alla sua polisemica formulazione ed alla sua concreta portata attuale.

3. Il canone interpretativo accolto nel diritto positivo italiano a partire dall'articolo 4 delle 'Disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale', premesse al Codice civile del 1865 ('Le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei diritti o formano eccezione alle regole generali o ad altre leggi non si estendono oltre i casi e i tempi in esse espressi') appare conforme alla duplice lettura del canone ermeneutico che incorpora da secoli il divieto di leges odiosae: la nuova linfa che ad esso derivò in ragione dell’elaborazione giusnaturalista dei diritti dell’uomo e del cittadino – non a caso innestata nella prima codificazione nazionale italiana dal genio giuridico di Pasquale Stanislao Mancini – non solo non è smentita dal suo superamento storico, ma anzi rappresentò un argine alla possibilità di derive neoautoritarie ammantate di improbabili “ritorni allo Statuto”. Non è un caso che con il vigente articolo 14 delle Disposizioni sulla legge in generale (cosiddette preleggi al codice civile, di cui al R.d. 16 marzo 1942 n. 262: "Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”) il Guardasigilli dello Stato autoritario si fosse interessato all’unico emendamento di sopprimere proprio il riferimento alle norme che “restringono il libero esercizio dei diritti”, riportando il divieto di analogia alla funzione di mera salvaguardia logico-giuridica del sistema giuridico, cui l’aveva già ridotta l’elaborazione dottrinaria imperiale sul ius singulare (v. supra, § 1).
Ma nella sua audizione dinanzi al Comitato inquirente il professor Vassalli ha convincentemente dimostrato come nell’ordinamento costituzionale vigente l’esigenza di tutela dei diritti si sia riespansa, anche in rapporto all’articolo 14 delle preleggi: “regole generali” sono anche quelle che riconoscono il libero esercizio dei diritti, per cui la formula del 1865 e quella del 1942 sono divenute del tutto equivalenti. Si tratta di un’esigenza che – lungi dall’essere riconducibile alla criticata teoria della rinuncia all’interpretazione – ha indotto la dottrina a confutare qualsiasi tentativo con cui l’interprete tende a relegare nell’ambito della desuetudine il citato canone interpretativo: “se è vero che l’attuale formula legislativa relativa al divieto di analogia per le norme eccezionali è imprecisa ed insufficiente, non sembra però lecito da questo dedurre che il divieto stesso sia infondato, o meglio impossibile” A. Ravà, voce “Analogia” in Enciclopedia del diritto, volume II.. Così la dottrina italiana del dopoguerra ha inteso descrivere la ricaduta della teoria generale dell’ermeneutica giuridica, sulla questione delle leges odiosae, scagliandosi contro due tipici espedienti con cui s’è provato a sterilizzarne gli effetti.
Il primo espediente denunciato è quello della trasformazione del diritto eccezionale in diritto speciale, ad opera di elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza che spesso dipendono dalle stesse esigenze storiche di sviluppo di rapporti giuridici che vengono assumendo sempre maggiore organicità e rilevanza A. Ravà, loc. ult. cit., p. 368.. L’altro è quello che distingue tra interpretazione estensiva ed analogia Ibidem, p. 370., così distinte da un’oramai radicata definizione giurisprudenziale: il procedimento analogico – secondo cui, ai sensi dell’articolo 12 u. c. preleggi, si ricorre “alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” – viene a rendere applicabile una norma ad un caso che dal legislatore non fu contemplato; con l’interpretazione logico-estensiva si tende unicamente a stabilire che la legge minus dixit quam voluit, ricercando e dichiarando cioè il pensiero del legislatore espresso in modo improprio o incongruo in una disposizione troppo oscura o soverchiamente ristretta” Cass. I sez. civ., 1 marzo 1967, n. 446, in Foro padano, 1967, I, 322..
Mentre il primo espediente non pare aver asilo, nel caso che occupa la Giunta, il secondo può essere sbaragliato ricorrendo alle nitide censure pronunciate – a stretto ridosso della sua teorizzazione N. Bobbio, Intorno al fondamento del procedimento per analogia, in Giurisprudenza italiana, 1951, I, 1, 229. Le critiche furono ribadite dallo stesso Autore in Ancora intorno alla distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia, in Giurisprudenza italiana, 1968, I, 1, 696, da cui sono tratti gli stralci nel testo. La dottrina successiva s’è sempre attenuta alla po-sizione di considerare che le norme eccezionali sono di stretta interpretazione, per cui non possono applicarsi al di là delle ipotesi testualmente previste: cfr. F. Modugno, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova 1998, pag. 76, per cui ne è preclusa ogni interpretazione estensiva, qual è sempre quella sorretta dall’argomento analogico. – da Norberto Bobbio: “non si sa bene in che cosa consista, cioè quali siano i criteri in base ai quali l’interpretazione estensiva possa essere distinta dall’analogia”, e quindi non ricadere nel divieto di cui all’articolo 14 delle preleggi. Anche dato per ammesso l’unico criterio discretivo possibile - secondo cui “l’interpretazione estensiva opera quando l’interprete si trova di fronte ad un’espressione ambigua ed imprecisa, che è suscettibile di essere intesa in un senso più largo ed in un senso più stretto, e adotta nel caso specifico il primo; l’analogia opera (…) quando l’espressione della norma, che funge da premessa del ragionamento, è, sì, chiara, ma è insieme tanto specifica da non poter essere estesa senza arbitrio a casi diversi, e proprio in ragione della sua specificità viene considerata come denotante la species di un genus che comprende altre species, le quali, pur essendo denominate con parole diverse (e in questo senso si può dire che l’analogia non è più un’interpretazione letterale) vengono assimilate attraverso l’identità della ratio alla prima” - resta il fatto che si tratta in ambedue i casi di “manipolazioni di un’espressione verbale”: da essi può scaturire un effetto nient’affatto in rapporto di minus (l’estensiva) rispetto a maius (l’analogia), tant’è vero che “quanto a comprensione di casi o tempi ‘non contemplati’ per usare le parole dell’art. 14”, dall’interpretazione estensiva possono discendere “risultati non diversi e talora anche più innovatori di quelli che si ottengono con il ricorso all’eadem ratio. Pertanto, se si debbono applicare i criteri dell’ermeneutica giuridica alle stesse preleggi, “ciò che importa è il significato operativo” dei due procedimenti, ai quali andrebbe applicato il divieto dell’articolo 14: “che il procedimento analogico venga chiamato in certe situazioni interpretazione estensiva non è tanto il riconoscimento da parte del giudice di un limite alla propria libertà interpretativa di fronte all’art. 14 quanto un modo per superare un limite superato”.
Alla luce di ciò, se spetta alle Camere – in virtù della loro competenza giurisdizionale sulla verifica dei poteri – applicare la legislazione pertinente in sede di convalida delle proclamazioni elettorali, occorre attenersi ai vincoli all’interpretazione rappresentati dalle preleggi: se ci si mantiene a livello di legislazione ordinaria, in materia elettorale l’uso dell’analogia rimarrebbe precluso esattamente come lo è l’uso dell’interpretazione estensiva.
In realtà, un margine di incertezza si riscontra anche in questo ambito: quando si versi nel campo dei diritti fondamentali, le disposizioni normative che pongono limiti e divieti vanno sempre interpretate in senso restrittivo, come ha più volte statuito la Corte costituzionale. Nel riferire tale proclamazione ai diritti politici ed elettorali, la Corte ha escluso l’applicazione di metodi ermeneutici che avrebbero per effetto la compressione di un diritto, anziché la sua estensione (sentenza n. 46 del 1969; conformi, ex plurimis: sentenze n. 166 del 1972; n. 5 del 1978; n. 344 del 1993; n. 141 del 1996; n. 306 del 2003): ma tali indicazioni della Corte Costituzionale, contrarie alla analogia in malam partem in materia elettorale, si riferiscono ai soli requisiti soggettivi ed oggettivi per essere eletti, essendo tale giurisprudenza maturata sull’articolo 51 della Costituzione, il cui precetto è stato sintetizzato nella definizione “l'eleggibilità è la regola, l'ineleggibilità l'eccezione”. Il principio di uguaglianza richiede che il diritto di proporsi quale potenziale rappresentante del popolo, nell'ambito del fondamentale diritto di partecipazione politica, non sia delimitato se non entro “quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse” Corte costituzionale, sentenza 26 marzo 1969, n. 46.; il principio di legalità, poi, implica la necessità che le cause di ineleggibilità - che “formano altrettante eccezioni al generale e fondamentale principio, enunciato in apertura dallo stesso art. 51, del libero accesso, in condizione di eguaglianza, di tutti i cittadini alle cariche elettive” - siano tipizzate dalla legge “con determinatezza e precisione sufficienti ad evitare, quanto più possibile, situazioni di persistente incertezza, troppo frequenti contestazioni, soluzioni giurisprudenziali contraddittorie, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la proclamata pari capacità elettorale passiva dei cittadini” Corte costituzionale, sentenza 28 novembre 1972, n. 166..
La predeterminazione per legge delle condizioni di accesso alle cariche pubbliche costituisce il presupposto indispensabile per l'eguaglianza dei cittadini nella competizione elettorale ai sensi degli articoli 3 e 51 della Costituzione: parrebbe un risultato acquisito, ma è solo merito della citata giurisprudenza costituzionale quello di aver segnato un’evoluzione del parametro costituzionale rispetto alle premesse teoriche del Costituente; c’è da chiedersi se la Corte si sia soffermata sui requisiti di capacità elettorale perché ad essa solo tale precettistica sia applicabile, oppure se la citata giurisprudenza indichi una linea di tendenza che si applicherebbe anche alle operazioni di scrutinio, riparto dei seggi e proclamazione degli eletti, laddove venissero in rilievo.
La configurazione dell’istituto dell’eleggibilità, nell’universo dottrinario in cui operavano i Costituenti, era influenzata dalla tesi che sui diritti pubblici soggettivi aveva elaborato G. Jellinek e che era stata portata in Italia da Vittorio Emanuele Orlando Autore della prefazione all’edizione italiana al Sistema dei diritti pubblici subbiettivi del tedesco, Orlando scriveva che “lo Stato, fonte esso stesso dell’ordine giuridico, non può considerarsi a questo sottoposto, dunque ai sudditi non possono competere diritti verso lo Stato” (p. X).: soprattutto in riferimento all’articolo 51 (articolo 48 del progetto originario) si tendeva per lo più a ricostruire l’elettorato passivo come capacità giuridica di aspirare ad un munus publicum Un riflesso di queste concezioni di stampo tedesco (sulla capacità giuridica) si potè leggere ancora vent’anni dopo nelle parole del senatore Chiariello, il quale affermò - nella medesima seduta del Senato iniziata il 31 gennaio 1968 più volte citata - che la nettissima distinzione tra casi di ineleggibilità e casi di incompatibilità “si basa, secondo la più autorevole dottrina ispiratrice della legislazione più progredita in questa materia, a considerare la ineleggibilità come un impedimento giuridico, mentre la incompatibilità deriva da un divieto giuridico di coprire due cariche contemporaneamente”., cioè come vera e propria idoneità ad essere soggetto del “rapporto elettorale”. La situazione poteva dirsi analoga a quella del concorrente ad un pubblico impiego, che dalla graduatoria risultasse compreso nel numero dei posti stabilito: il diritto dell'eletto ad essere proclamato era suscettibile di condizionamento o affievolimento in ragione delle ineleggibilità vigenti, esattamente come per il concorrente l’idoneità all’ufficio era subordinata all’accertamento dei requisiti soggettivi di partecipazione al concorso. In altri termini, lo Stato avrebbe assolto all’obbligo di rispettare il ius ad officium mediante la proclamazione degli eletti, ma il riconoscimento del ius in officio – con il quale decorre la trasformazione dell'interesse dell'eletto all'investitura in diritto soggettivo perfetto – sarebbe prodotto di una successiva ed ulteriore attività, i cui presupposti si sarebbero fondati su requisiti più o meno liberamente determinabili dalla legge Da un lato, se “lo Stato attribuisce all’individuo una capacità, connessa con la di lui persona, di agire come organo dello Stato”, allora all’individuo sono attribuite solo “qualificazioni passive”: si tratterebbe solo di “un riflesso di norme giuridiche, e però, come tali, non autorizzano alcuna azione. Di questa specie sono la eleggibilità e la capacità ad un ufficio, dalle quali non deriva la benché minima pretesa, che sia suscettibile di una tutela giuridica (…) anche se si tratti di colui, che sia stato eletto o nominato, ad al quale venga poscia contestata la qualificazione attiva per mancanza di qualificazione passiva, nel procedimento che ne segue, l’individuo in questione non assume punto senz’altro la veste di contendente”: Jellinek, Sistema dei diritti pubblici subbiettivi, Milano, 1912, pp. 157-158..
La concezione dell’eleggibilità come capacità giuridica di diventare soggetto passivo del rapporto elettorale è stata superata, come s’è detto, dalla giurisprudenza costituzionale, ma anche il giudice di legittimità Cassazione civile, sezioni unite, 9 marzo 1981, n. 1302; Cassazione civile, sezione I, 26 febbraio 1988, n. 2046; Cassazione civile, sezione I, 24 marzo 1993, n. 3508. individua nell'eleggibilità un diritto di cittadinanza costituzionalmente garantito. Se è vero che non può esistere un diritto ad essere eletto in senso proprio, bensì solamente una capacità giuridica di sottoporsi al giudizio del corpo elettorale, è altrettanto vero che la Costituzione garantisce a tutti i cittadini il diritto di candidarsi in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge, mentre solo a coloro che hanno ricevuto il numero necessario di suffragi è attribuito il diritto di ottenere il mandato rappresentativo Analoghe suggestioni provengono dalla normativa convenzionale cui l'Italia è vincolata a livello internazionale: l'articolo 3 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosce il diritto soggettivo di voto e quello di candidarsi alle elezioni. Ai fini dell'applicazione dell'articolo 3, il margine di manovra riconosciuto allo Stato è quindi limitato dall'obbligo di rispettare il principio fondamentale dell'articolo 3, cioè "la libera espressione dell'opinione del popolo sulle scelte del corpo elettorale". La Corte europea dei diritti dell’uomo – premesso che, per quanto si tratti di diritti importanti, essi non sono comunque assoluti (poiché l'articolo 3 li riconosce senza definirli in termini espliciti, vi è margine per limitazioni implicite: cfr. sentenza 2 marzo 1987, Mathieu-Mohin et Clerfayt contro Belgio, § 52) – ha ribadito che ogni legge elettorale deve sempre essere apprezzata alla luce dell'evoluzione politica del paese, per cui aspetti inaccettabili nell'ambito di un determinato sistema potrebbero rivelarsi giustificati in un altro..
Resta quindi da chiedersi se tale proclamazione del favor libertatis si limita all’elettorato passivo, oppure vi rientra anche il ius ad officium, inteso come il coacervo dei fatti e degli atti che attribuiscono al candidato la possibilità giuridica di conseguire la carica: l’interpretazione delle norme che regolano le operazioni successive allo scrutinio delle schede (imperniate sui calcoli finalizzati al riparto dei seggi e culminanti nella proclamazione degli eletti), in altri termini, potrebbe essere estensiva od analogica se esse non incidessero – come è il caso dell’elettorato passivo – su di un diritto fondamentale, ma su una mera “regolamentazione legale” del conteggio dei voti: vi sarebbero due parti (il vincitore ed i controinteressati), su di un piano di parità, ed un ufficio investito del mero dovere di conformarsi ad uno schema legale precostituito per addivenire alla proclamazione dell’eletto.
Una parola definitiva del giudice delle leggi, sul punto, non s’è mai potuta avere, per l’elementare motivo che le parti attinenti al riparto dei seggi – nelle leggi elettorali delle Camere Quanto alle leggi elettorali degli altri enti territoriali, gli organi di giurisdizione amministrativa sono apparsi sempre piuttosto restii a ricondurre ai diritti fondamentali la disciplina del riparto dei seggi, limitando la lettura dell’articolo 51 della Costituzione alla mera tutela delle “condizioni di uguaglianza per l’accesso alle cariche elettive” (che “non risultano violate” dalla previsione di una soglia minima del 3 per cento nelle elezioni comunali, ai sensi dell’art. 73, comma 7°, d.lgs. n. 267/2000 (così il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte – 2^ Sezione, Sent. n. 3009 del 2004). Del pari, anche quando l’organo giudicante ha mostrato di accogliere (in via del tutto tuzioristica) una definizione più estesa del diritto di cui all’articolo 51 Cost., ha provveduto a bilanciarla con altre previsioni di rango costituzionale, mostrando quindi di non ritenerla comprensiva di un “diritto fondamentale” e per ciò stesso prevalente su tutti gli altri: “quand’anche potesse ritenersi che tali norme garantiscano la ripartizione dei seggi del consiglio regionale, alle diverse circoscrizioni, in proporzione della popolazione, la questione di legittimità costituzionale dedotta risulterebbe comunque manifestamente infondata (...) Pur volendo ammettere l’esistenza, per il sistema elettorale regionale, di un principio di proporzionalità con riferimento alla popolazione, l’eventuale contrasto di detto principio con quello parimenti costituzionale del rispetto della volontà popolare espresso con il voto di lista non poteva ragionevolmente essere risolto dalla legge n. 108 del 1968 che a favore del secondo” (Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione Prima, Sent. n. 1588/01). – non sono mai state sin qui sottoposte alla Corte costituzionale.
La strada della consacrazione della scelta dell’Ufficio elettorale regionale non appare a questo Relatore praticabile; occorre comunque valutare se essa incida in materia su cui vige il divieto di cui all’articolo 14 delle preleggi. Se anche la prospettazione riduttiva dell’articolo 51 Cost. fosse fedele, si può sostenere che la citata giurisprudenza costituzionale tutela anche il mero interesse legittimo, del candidato illegittimamente non proclamato, all’emanazione di un atto dal cui avverarsi la norma fa discendere effetti costitutivi di status. La dottrina - secondo cui che la proclamazione dell’eletto rappresenta «un coesistere di effetto costitutivo con una sostanza dichiarativa dell’avveramento di un evento» Antonio Guantario, Profili giuridici dei fantasmi in parlamento e tutela del giudice amministrativo (La questione dei seggi vacanti nella XIV Legislatura), in www.giustizia-amministrativa.it, citando alla nota 75 M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1981, pag. 376. - a ragione uniforma il caso a quelli meritevoli della massima salvaguardia ordinamentale, proprio perché si tratta di materia gravitante intorno a diritti fondamentali.
Sebbene non si possa negare che una pronuncia del giudice delle leggi sul punto sarebbe rilevante, per la decisione di spettanza della Giunta del Senato, il precedente rappresentato dalla sentenza 8-16 maggio 1997, n. 133 della medesima Corte costituzionale ascrive su questa tematica valore risolutivo alla strada dell’interpretazione adeguatrice: “una diversa interpretazione, che risponda al criterio della preferenza per una lettura restrittiva delle norme che limitano la capacità dei soggetti, è certamente compatibile con il tenore letterale della disposizione”, disse la Corte in un caso di legge recante un’interpretazione autentica adottata per “rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea di politica del diritto perseguita dal legislatore”. Ecco perché la Giunta non può sottrarsi alle proprie responsabilità rimettendo alla Corte il quesito su se l’articolo 51 Cost. copra anche questa fattispecie, ma deve prendere una posizione in proposito: la proposta del Relatore è che risolutamente la prenda nel senso di affermare che anche le operazioni di scrutinio, conteggio, riparto dei seggi e proclamazione degli eletti ricadono sotto l’imperio del divieto di interpretazione estensiva od analogica, di cui all’articolo 14 delle preleggi, e ciò in ragione della loro natura di operazioni incidenti su un diritto fondamentale quale quello di elettorato.


3. Già all’epoca della massima proclamazione della prevalenza del diritto scritto sulla giurisdizione, l’esigenza di certezza si contemperava con un’altra, anch’essa di tipo razionalistico, e cioè quella secondo cui la legge dovrebbe soddisfare parametri di buon governo (gli stessi che inducevano la Costituzione napoletana del 1799 a prevedere per la prima volta un controllo di costituzionalità delle leggi, posto in capo agli Efori). Domat conciliava il tutto consentendo il ricorso all’interpretazione pure quando il senso di esse paia «evidente nei termini» e tuttavia condurrebbe a decisioni ingiuste, se indistintamente applicato Jean Domat, Le leggi civili nel lor ordine naturale [...], I, Venezia, 1793, p. 160..
Se è vero che “non si possono (…) estrarre dalla legge per mezzo dell’interpretazione delle sentenze giuste” Hans Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto (1934), trad. R.Treves, Torino (1952), cap. VI L’interpretazione, pp. 120-125. Sull’aggiramento della legge attraverso l’interpretazione, che risolve il contrasto tra il patto e un’esigenza morale che lo condanna cfr. Tullio Ascarelli , Antigone e Porzia (1955), rist. nei Problemi giuridici I, Milano 1959, pp. 11-15., è altresì vero che la polisemia è una risorsa quando consente di attingere ad altri sistemi scientifici costruiti razionalmente: è noto, infatti, che l'interpretazione soffre, nel suo ingresso in ambiti settoriali delle scienze umane, di forme di adattamento che - irriducibili alla teoria generale del diritto ed ai princìpi generali dell'ermeneutica giuridica La pretesa particolare del diritto è quella di dettare prescrizioni secondo un modello formale: in ragione di ciò, è ben possibile che un sintagma abbia - se utilizzato in una norma giuridica - un senso diverso da quello utilizzato in altra sede. In altre parole, se la nozione di "domicilio" conosce diverse accezioni a seconda che si versi nel diritto civile o nel diritto penale, a maggior ragione si danno accezioni plurisemantiche della medesima parola quando si versa in una delle diverse scienze umane: ciò che si può dire in un particolare ambito del sapere - vieppiù quando si tratta di una scienza umana - può essere detto in altro modo in un altro di tali ambiti. - sono però necessarie per garantire l'aderenza alla materia oggetto d'esame. Ma fino a quale limite tale aderenza rappresenta un vincolo per l’interprete?
Filosoficamente, saremmo tutti portati ad abbandonare quella astrazione del diritto dai "fatti della vita" che nei teorici della pandettistica tedesca corrisponde all'alternativa tra Sollen e Sein. Ma al rigore delle scienze umane, che governano i vari ambiti materiali su cui incide la pretesa regolatrice del diritto, non può non corrispondere analogo rigore nell’utilizzo dello strumento giuridico.
La discrezionalità lata del legislatore incontra limiti solo se raffrontata a parametri predeterminati, quali sono quelli posti da norme di rango sopraordinato: nel nostro ordinamento a Costituzione rigida, ciò avviene a fronte dei parametri posti da norme costituzionali, e non già raffrontando la scelta operata con criteri attinti astrattamente da ambiti del sapere esterni al diritto. È ben vero che buona parte delle norme costituzionali offrono ingresso nell'ordinamento giuridico proprio a questi criteri, laddove essi rivestano meritevolezza sufficiente perché esprimono esigenze di tutela di beni giuridici sopraordinati; ma è altrettanto vero che tale prevalenza non può essere statuita in astratto, né può darvi attuazione liberamente l'interprete. Il sindacato di costituzionalità delle leggi infatti è accentrato e, laddove se ne riscontrino i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza, è la Corte costituzionale a dover decidere se la norma di legge contrasti con detti beni giuridici tutelati al massimo livello.
La stessa legge n. 270 del 2005 rappresenta, sin dal suo esordio, un archetipo di divaricazione semantica del sapere: l'articolo 1, comma 2, della legge definisce il sistema elettorale adottato come "proporzionale", mentre l'esauriente audizione del professor Agosta ha dimostrato come questo termine sia inadatto a definire - secondo i canoni della scienza elettorale - il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che per la prima volta ha avuto applicazione nel nostro Paese il 9 e 10 aprile 2006. Esso può correttamente essere definito “sistema maggioritario di coalizione”: su base regionale per il Senato;, con successivo riparto proporzionale all'interno delle coalizioni”; quello che nella legge si definisce fa riferimento alla modalità di espressione del “voto. proporzionale” in realtà, dal punto di vista dell’espressione del voto, concettualmente è un voto di lista (al Senato introdotto storicamente per la prima volta, poiché nella storia).
Dal punto di vista dell’effetto rappresentativo, poi, è scorretta anche l’attribuzione al termine “proporzionale” del valore di “che definirei massima “inclusività”, proprio della scelta (per la prima volta nella legge elettorale del Senato) di abbandonare il metodo d’Hondt a favore del metodo del quoziente naturale e dei più alti resti. Proporzionale è il metodo con cui i seggi seggi vengono assegnati dati in proporzione dei voti matematica, ma ciò non significa necessariamente favorire la massima rappresentatività: il quoziente che si ricavava dal calcolo era un po’ più basso di altri metodi, ma restava fisso ed al di sotto di essi i voti conseguiti erano perduti.”. Inclusivo è invece il sistema che tende ad attribuire seggi al massimo di forze politiche,, anche di modeste dimensioni: esclusi sistemi volutamente dis-rappresentativi (di “schiacciamento” della rappresentanza delle grandi forze, per ottenerne un effetto di sovrarappresentazione delle piccole), ciò si può ottenere -fissando un quoziente che, anche se alto, è poi derogato quando – sovrabbondando i seggi rispetto alle liste titolari dei quozienti interi – ci si rivolge alle liste prive dell’intero scorrendo tra di esse per attribuire i seggi residui, consentendo così di recuperare i piccoli partiti.
Questa Giunta non ha la competenza né il compito di divisare quale ricostruzione di scienza elettorale sia più fondata, se quella del “minimo più meritevole” (sostenuta dal professor Patrono) o quella della necessità della soglia di sbarramento proprio in conseguenza del premio di maggioranza (sostenuta dal professor Agosta). In presenza di un significato letterale che tutti assumono funzionante (salvo poi in concreto dissentire su ciò che esso voglia dire), sarebbe improprio per un interprete ricercare in via preventiva la logica del comma 6 dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993, come novellato dalla citata legge n. 270 del 2005, facendo riferimento ad ambiti esterni al diritto stesso. Quello che è stato più volte indicato - nel corso delle audizioni - come il rischio di annettere al dictum delle legislature valore "dispotico", eccentrico rispetto ai principi della disciplina scientifica che regola i fatti della vita su cui interviene la regolamentazione legislativa, non può essere tradotto in un approccio interpretativo "libero", nel quale si riconduce a sistema - tale intendendo quello dettato da razionalità scientifica - le scelte adottate dal Parlamento.
Semmai, ad altro tipo di interprete – cioè al giudice delle leggi – spetta considerare se tra i parametri costituzionali vene siano alcuni che danno ingresso ai princìpi desunti dalla scienza elettorale (ed a quali tra di essi), conferendo loro la massima tutela ordinamentale (quella del rango prevalente sulla legislazione ordinaria divergente): ciò nel caso in cui si voglia sottoporre la questione di costituzionalità della legge se interpretata in senso opposto a quanto fatto dall’Ufficio elettorale regionale.
Difatti rientra nella discrezionalità del legislatore modellare i procedimenti elettorali ed i relativi esiti, ma essa è sempre da esercitare nel limite della ragionevolezza: limite – questo – posto dall’articolo 3 della Costituzione, secondo la conforme giurisprudenza costituzionale e che solo alla Corte costituzionale compete dichiarare se sia stato valicato nella specie A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, 378, ricorda che in proposito si può operare mediante "un potere di libera disponibilità dei modelli di decisione della Corte tenuto conto della pluralità delle tecniche di bilanciamento esperite in concreto". È infatti “indubbio che una funzione monitoria della Corte riferita anche (o, forse, per lo più) alle sentenze di rigetto, non è assolutamente di chiusura ma di apertura e di salvaguardia dell’autonomia del Parlamento ovvero di favor manifesto verso l’esercizio sovrano della funzione legislativa”, secondo quella che in dottrina è stata definita come “una strategia costituzionale che non può non essere accolta con favore se circoscritta, esclusivamente, ad evidenziare l’essenzialità ed il rispetto del rapporto fra i poteri, più che dei vincoli (pur presenti e necessari ma ampiamente criticabili in presenza di autonomie costituzionalmente garantite): cfr. G. Di Genio, Moniti al legislatore ed "esigenze di normazione" nelle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, in ((http://www.giurcost.org/studi/notaGC.html)).

. La stessa Corte, con la sentenza n. 476 del 2002, affermò che “l’imperativo di razionalità della legge impone che la ratio degli interventi sia perseguita integralmente: se ciò non avviene, la previsione legislativa ingiustificatamente mancante determina una discriminazione vietata dall’art. 3 della Costituzione”.
Ciò che a questo Relatore preme ora di far presente è, invece, che nessuna lettura "costituzionalmente orientata" può darsi della norma in questione, per l'elementare motivo che non si ravvisano altre letture di essa, che non quella seguente: nessuna clausola di sbarramento è in concreto prevista, per escludere dal riparto infracoalizionale dei seggi - nelle regioni in cui è stato attribuito il premio di maggioranza - le liste che abbiano conseguito meno del 3 per cento dei voti validi.


4. Al comma 6 dell'art. 17 della legge elettorale per il Senato si prevede che per procedere al riparto dei seggi si divide il totale delle cifre elettorali circoscrizionali "delle liste ammesse al riparto ai sensi dell'art. 16, comma 1, lettera b) n. 1), per il numero dei seggi" spettanti alla relativa coalizione. Poiché si tratta della medesima locuzione prevista al comma 3 per l'ipotesi di regione in cui è stato raggiunto il 55%, nel parere del professor Luciani si legge che "tale qualificazione non può avere altro senso che quello di confermare la volontà di assegnare i seggi alle sole liste che abbiano superato il 3% dei voti validi" (pag. 5).
Al comma 3, però, la formulazione che fa scaturire la clausola di sbarramento non è nel rinvio all'art. 16, ma nella previsione secondo cui, nell'ambito di ciascuna di tali coalizioni di liste, l'ufficio elettorale regionale individua "le liste che abbiano conseguito su un piano circoscrizionale almeno il 3% dei voti validi espressi": si potrebbe quindi sostenere che quando il periodo successivo del comma 3 recita "procede quindi, per ciascuna coalizione di liste, al riparto, tra le liste ammesse, dei seggi", per "liste ammesse" si intenda quelle di cui al precedente periodo del comma 3 dell'art. 17, e non già quelle di cui al rinvio all'art. 16.
Già il professor Vassalli, nel corso della sua audizione dinanzi al Comitato inquirente, fece presente che l’incipit delle due previsioni è esattamente speculare: “Nel caso in cui la verifica di cui al comma 2 abbia dato esito positivo” al comma 3, e “Nel caso in cui la verifica di cui al comma 2 abbia dato esito negativo”, al comma 4. Se la medesima terminologia designa fattispecie diverse, è per difetto di redazione, perché i due percorsi si escludono proprio a partire dall’incipit; sarebbe arbitrario desumere dall’uno dei due percorsi una linea interpretativa per l’altro, che comporta un presupposto contrario al precedente.
Le operazioni descritte all’articolo 16, invero, costituiscono la logica premessa delle attuazioni previste dall’articolo 17. Nel primo dei due articoli si tratta delle “individuazioni” di spettanza dell’Ufficio elettorale regionale, alla luce della determinazione della “cifra elettorale circoscrizionale di ogni lista” e “di ciascuna coalizione di liste”; nel secondo dei due articoli si operano due operazioni di attribuzione dei seggi, una provvisoria ed una definitiva, inframezzate dalla verifica “se la coalizione di liste o la singola lista che ha ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell'àmbito della circoscrizione abbia conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, con arrotondamento all'unità superiore”.
L’articolo 16 della legge opera quindi una delimitazione di campo, affidando all’ufficio elettorale regionale il compito di verificare i voti complessivamente ottenuti da ciascuna delle liste partecipanti, e, quando queste ultime sono tra loro collegate, calcolando una “cifra elettorale di coalizione”, che corrisponde alla somma delle cifre elettorali di tutte le liste che la compongono. Sulla base del totale generale dei voti validi espressi nella regione, l’ufficio individua poi le coalizioni o le liste isolate che hanno diritto a partecipare alla ripartizione iniziale dei seggi: quelle, cioè, che superano lo standard di rappresentatività richiesto, pari ad un quinto dei voti regionali per le coalizioni (che per comodità si possono definire plurilista: articolo 16, comma 1, lettera b), numero 1)), ovvero all’8 per cento per le liste isolate o singolarmente ammesse (che per comodità si possono definire “coalizioni monolista”, sia che lo fossero ex ante, sia che lo siano divenute ex post in ragione della soddisfazione singulatim del requisito di legge: articolo 16, comma 1, lettera b), numero 2)).
L’articolo 17, poi, regola l’effettiva ripartizione dei seggi senatoriali della regione, che si svolge – come s’è detto – in due fasi successive: nella prima, la ripartizione dei seggi avviene tra le coalizioni, complessivamente considerate (nell’espressione “coalizione” si fa rientrare ovviamente, per comodità espositiva, quelle che si sono definite coalizioni “monolista”). Nella seconda fase, si procede alla ripartizione interna dei seggi conquistati da ciascuna coalizione, tra le liste componenti. La competizione tra le coalizioni ammesse al riparto iniziale dei seggi può concludersi con il conseguimento naturale della quota maggioritaria del 55 per cento dei seggi (e, addirittura, con il suo superamento) o con l’assegnazione garantita del numero di seggi necessario per raggiungere d’ufficio tale quota, in favore della coalizione più votata. Il comma 2 dell’articolo 17 fa riferimento alla prima ipotesi; il comma 4, alla seconda.
Per i seggi delle coalizioni si deve procedere alla successiva assegnazione interna: è quanto regolato, rispettivamente, al comma 3 e ai commi 5 e 6 dello stesso articolo 17. Qui nascono i problemi, ingenerati dall’indubbiamente cattiva fattura della legge.
Il comma 3 non deve affrontare il problema (che sarà poi del comma 5 per il caso speculare) di chi nell’attribuzione definitiva è destinato a “cedere” al vincitore seggi provvisoriamente assegnati: ecco perché si preoccupa di rendere definitiva l’assegnazione “provvisoria” e, nel farlo, introduce per le coalizioni plurilista una variante che non poteva che essere esplicita, pena l’automatica trasposizione dei conteggi di cui al comma 1 nell’assegnazione definitiva (cosa che avviene invece per le coalizioni monolista, ai sensi dell’ultimo periodo del comma 3). In particolare, la variante prescelta è quella di introdurre un’esplicita soglia di sbarramento del tre per cento dei voti validi espressi a livello circoscrizionale: essa, pleonastica per le coalizioni monolista (che come s’è visto devono ottenere l’8 per cento) diviene un requisito ulteriore per l’accesso al riparto per le liste appartenenti alle coalizioni plurilista individuate ai sensi dell’articolo 16. Quivi per essere ammesse come coalizioni alle operazioni di cui all’articolo 17 era necessario che al loro interno vi fosse almeno una lista che superasse il 3 per cento; qui perché al loro interno le liste siano ammesse al riparto, è necessario che ciascuna di esse abbia superato il 3 per cento, pena l’eliminazione dal riparto della lista sotto-soglia con conseguente dilatazione delle possibilità delle altre nel riparto delle spoglie (sia della coalizione vincente, che di quella o di quelle perdenti).
Ecco perché, dopo quell’esplicita variante, la formulazione legislativa del comma 3 si arricchisce di un sintagma, “liste ammesse”, che chiaramente presuppone l’esistenza di quella variante, cioè della clausola esplicita di sbarramento. Se il legislatore avesse voluto affermare questo sintagma come definizione uniforme, per tutti i casi disciplinati dalla norma, avrebbe potuto farlo al di fuori della summa divisio contenuta al suo interno, tra casi di coalizioni superiori od inferiori al 55 per cento; ovvero, in alternativa, avrebbe dovuto ripetere la clausola di sbarramento per ambedue le fattispecie. Ciò non è avvenuto.
Nel secondo caso, quello in cui non è stata naturalmente raggiunta la quota di maggioranza prevista, scatta il premio di maggioranza che porta automaticamente al 55 per cento dei seggi la coalizione vincente, ai sensi del comma 4. Una volta attribuito il premio, diventa necessario individuare chi ne debba pagare, specularmente, i costi, e in quale rispettiva misura, nel caso le coalizioni perdenti siano più di una: è il problema che affronta il comma 5, mentre il comma 6 procede – per tutte le coalizioni sia vincenti che perdenti – a disciplinare il riparto tra le liste appartenenti alle coalizioni plurilista (per quelle monolista la disciplina del comma 5 è esaustiva anche dell’attribuzione dei seggi, per cui non si rende necessario ripetere la previsione di cui all’ultimo periodo del comma 3). In questo caso, il riferimento al “3 per cento” non compare, mentre si prescrive che, per il calcolo del quoziente necessario alla ripartizione dei seggi, si divida il totale delle cifre elettorali delle “liste ammesse al riparto ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettera b), numero 1)” per il numero dei seggi assegnati alla coalizione.
Chi del sintagma in questione dà una lettura “discorsiva” adduce che, affermato una volta nell’articolo per una fattispecie, esso non può che avere lo stesso contenuto altrove, anche se si tratta di fattispecie alternativa rispetto alla prima. Ma le due fattispecie non sono affatto differenziate nel segno del vel, quanto piuttosto in quello dell’aut. La premessa metodologica, l’espressione definitoria uniforme, poteva essere recata solo al di fuori dell’alternativa, nel comma 1: non così è invece nei casi retti rispettivamente dai commi 3 e 4. Chi deve ammettere che la clausola di sbarramento del tre per cento c’è nel primo caso e non è ripetuta nel secondo, deve o propugnare un’insostenibile natura definitoria uniforme del sintagma “liste ammesse”, oppure deve affermare che al comma 6 si “sia inteso in qualche modo - forse ellitticamente - fare rinvio all’articolo 16, comma 1, lettera b), n. 1, proprio perché solo lì dentro, solo nel n. 1, si parlava di liste che avessero ottenuto almeno il 3 per cento” In tal senso il professor Luciani, nella sua audizione..
Ma anche questa seconda lettura è insostenibile Oltre a sottovalutare il dato dell’esaustività del comma 5 per le coalizioni monolista di cui al n. 2, per cui al comma 6 occorreva individuare in qualche modo il caso residuo, e ciò non poteva che essere fatto col riferimento al solo n. 1.. La presenza di almeno una lista con il 3 per cento è richiesta anche dall’articolo 16, quando fissa le condizioni preliminari di ammissione delle coalizioni, ma non è vera la reciproca: non è scritto in nessun luogo della legge che la singola lista, per essere ammessa al riparto, debba versare nelle condizioni di quell’unica che legittima la coalizione plurilista ad accedere all’assegnazione provvisoria. Tanto è vero ciò, che per prevederlo nelle regioni a coalizione vincente superiore al 55 per cento, il legislatore l’ha dovuto scrivere espressamente (e non l’ha ripetuto per le altre).
Non pare quindi esservi dubbio che il riferimento alle “liste ammesse” ai sensi dell’art. 16, comma 1, lettera b), numero 1 ha esattamente il significato di “ammettere” al riparto anche liste che abbiano ottenuto un consenso inferiore al 3% purché esse siano collegate in coalizione almeno ad una lista, che quel 3% abbia conseguito. Né è di ostacolo l’apparente ambiguità consistente nel fatto che il soggetto grammaticale dell’art. 17, comma 6, sono le “liste ammesse” e quello del comma 1, lettera b), numero 1 dell’art. 16 sono le “coalizioni di liste”. Com’è, infatti, evidente nell’impianto legislativo le “coalizioni” – soprattutto quelle di cui al comma 6, chiaramente limitato alle plurilista – non sono altro che “aggregazioni di liste”, raggruppamenti strumentalmente rivolti a consentire il collegamento tra liste proprio al fine che queste siano più facilmente “ammesse” al riparto dei seggi ed al raggiungimento della maggioranza necessaria per l’ottenimento del premio. Trattando di “liste ammesse”, dunque, l’art. 17, comma 6, non fa altro che utilizzare un’espressione ellittica e sintetica al posto della più farraginosa perifrasi “liste ammesse [per il tramite della coalizione ammessa] ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. b) n. 1”. L’ammissione al riparto, in altri termini, è frutto dell’accesso della relativa coalizione alle procedure di cui al comma 1 dell’articolo 17, ai sensi del quale si divide il totale delle cifre elettorali circoscrizionali di ciascuna coalizione di liste o singola lista di cui all'articolo 16, comma 1, lettera b), per il numero dei seggi da attribuire nella regione, ottenendo così il quoziente elettorale circoscrizionale.
Al fine di giungere all’opposta conclusione secondo cui, per accedere al riparto dei seggi, tutte le liste di cui al quesito in oggetto debbano aver superato una soglia del 3 %, sarebbe necessario estendere a tale ipotesi l’eccezionale previsione stabilita per il diverso caso della ripartizione dei seggi nell’ipotesi in cui non sia “scattato” il premio di maggioranza: ciò configura una violazione del mentovato criterio interpretativo di cui all’articolo 14 delle preleggi e, pertanto, va respinto sia in via di principio, sia per le modalità con cui è avvenuto nel caso di specie.
In materia coperta da riserva di legge, si è proceduto infatti ad un’eterointegrazione della norma ad opera di atti amministrativi più o meno espliciti dell’Amministrazione dell’interno, che ha orientato le scelte dell’Ufficio incaricato dell’applicazione della norma secondo criteri che rifuggono da un corretto supporto ermeneutico, per influire sulla decisione finale che ha portato alle proclamazioni dei senatori eletti In tal senso sono apparse particolarmente convincenti le considerazioni espresse, nel corso della sua audizione, dal professor Lanchester.. Sul punto, è particolarmente significativo che un autorevole accademico oggi chiamato a rivestire la carica di Ministro dell’interno – il professor Giuliano Amato – abbia scelto una sede formale (l’Assemblea della Camera dei deputati, in risposta all’interrogazione 3-00091, in un intervento in cui ha espresso a titolo personale la convinzione che in materia di diritti elettorali non si possano dare interpretazioni che si distanzino da quella letterale) per precisare che il modulo predisposto dal Ministero dell'interno MOD. 65 (E.P.) era costruito in modo da presupporre una particolare interpretazione della legge elettorale: quella secondo cui la legge prevedeva l’ammissione al riparto dei seggi delle sole liste che avevano ottenuto almeno il 3% dei voti validi espressi sul piano regionale.
Ciò coincide con quanto sostenuto nel verbale delle operazioni dell’Ufficio elettorale regionale per il Piemonte, alla citata pagina 19; effettivamente, il § 10 prescrive che l’Ufficio elettorale regionale proceda “ad individuare, nell’ambito di ciascuna coalizione ammessa al riparto dei seggi, le liste tra le quali ripartire i seggi assegnati” e, nel farlo, che esso calcoli a quanto corrisponda il 3% dei voti espressi sul piano circoscrizionale, per poi accertare che ammesse al riparto sono solo le liste che hanno superato tale soglia “Per la coalizione avente come capo Prodi Romano ammesse al riparto dei seggi sono le seguenti: 1) Lista avente il contrassegno Democrazia è Libertà-La Margherita cifra elettorale circoscrizionale 315.191 2) Lista avente il contrassegno Insieme per l’Unione cifra elettorale circoscrizionale 118.974 Lista avente il contrassegno Democratici di Sinistra cifra elettorale circoscrizionale 453.524 Lista avente il contrassegno Partito della Rifondazione comunista cifra elettorale circoscrizionale 216.804 Lista avente il contrassegno Di Pietro Italia dei Valori cifra elettorale circoscrizionale 88.244”.. Nulla si dice, in questo paragrafo, in ordine al fatto che questo riparto sia prescritto dalla relativa disposizione Intitolato: “Individuazione, nell’ambito di ciascuna coalizione di liste ammesse al riparto, delle liste tra le quali ripartire i seggi assegnati in sede di riparto regionale (articolo 17, comma 3, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e successive modificazioni)”: corsivo aggiunto.
solo per le regioni in cui sia stato superato il 55 per cento, e questo non era il caso del Piemonte, il cui Ufficio elettorale fu quindi “orientato” dalla tecnica prescelta dal redattore del verbale a considerare analoghi i casi del superamento della soglia del 55 per cento e di non superamento della medesima, benché essi fossero espressamente contrapposti nella norma.


5. Eppure, paradossalmente, la considerazione svolta nell’atto di sindacato ispettivo sopra richiamato non è probante proprio in relazione alla questione delle “liste ammesse al riparto”, perché su questo punto al § 13 (pagina 27) il verbale seguiva la scansione della legge elettorale vigente, nel suo tenore letterale proprio come ricostruito nella presente Relazione. Il paragrafo 13 prevede - ai sensi dell’articolo 17, comma 5 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533, e successive modificazioni - il riparto dei restanti seggi tra le altre coalizioni di liste e singole liste ammesse al riparto di cui al paragrafo 7”: in tale paragrafo si elencano semplicemente i requisiti di cui all’art. 16, comma 1, lett. b), per cui lo stesso verbale smentisce la tesi secondo cui esiste una sola “ammissione”, e cioè quella delle liste. Di ammissioni ve ne sono ben due: quella delle coalizioni e quella delle liste, ed il rapporto tra le due è regolato all’articolo 17 rispettivamente dal comma 1 e dai commi 3 (per le regioni sopra soglia del 55%) e 5-6 (per le regioni sotto soglia del 55%).
Un analogo problema già si pose durante la delicata controversia interpretativa che si svolse subito dopo l’entrata in vigore della legge 23 febbraio 1995, n. 43, che modificò il sistema elettorale previsto per i Consigli regionali dalla legge 17 febbraio 1968, n. 108.
L’articolo 7 della legge n. 43 del 1995 introduceva una soglia di sbarramento per le liste (provinciali) che non avessero raggiunto almeno il 3% dei voti validi nell’intera regione (salvo specificare successivamente che qualora tali liste fossero collegate ad una lista regionale che avesse superato il 5%, allora esse sarebbero state computate ai fini della distribuzione dei seggi). Il problema interpretativo sorgeva perché tale previsione non era stata coordinata, dalla legge del 1995, con quella dell’articolo 15, comma 3, lettera b) della legge n. 108 del 1968, secondo cui spetta agli uffici centrali circoscrizionali procedere “al riparto dei seggi tra le liste in base alla cifra elettorale di ciascuna lista. A tal fine divide il totale delle cifre elettorali di tutte le liste per il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione più uno, ottenendo così il quoziente elettorale circoscrizionale” (corsivo aggiunto).
Si trattava quindi di stabilire se il criterio di determinazione del quoziente elettorale, previsto dalla legge del 1968, fosse compatibile con la logica del nuovo sistema elettorale per i Consigli regionali: esso prevede un criterio proporzionale di elezione di 4/5 dei consiglieri sulla base di liste provinciali concorrenti, mentre per il restante quinto opera un sistema maggioritario sulla base di liste regionali concorrenti collegate con almeno un gruppo di liste provinciali. In particolare, per i 4/5 opera un rinvio alle “disposizioni contenute nella legge 17 febbraio 1968, n. 108 e successive modificazioni”, prevedendo poi, per la distribuzione dei seggi, il citato sbarramento del 3%,; per il restante 1/5 vi è l’attribuzione di un premio di maggioranza che consente di conseguire almeno il 55% dei seggi del collegio.
Nel quadro del rinvio alla legge del 1968, non creano problemi né la determinazione della cifra elettorale di ciascuna lista provinciale (data dalla somma dei voti di lista validi) né il riparto dei seggi tra le liste in base alla cifra elettorale di ciascuna lista: a tal fine l’ufficio come s’è detto divide il totale delle cifre elettorali di tutte le liste per il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione più uno, ottenendo così il quoziente elettorale circoscrizionale; attribuisce quindi ad ogni lista tanti seggi quante volte il quoziente elettorale risulti contenuto nella cifra elettorale di ciascuna lista. Il problema è la disciplina dell’incapienza: se, con il quoziente calcolato come sopra, il numero dei seggi da attribuire in complesso alle liste supera quello dei seggi assegnati alla circoscrizione, le operazioni si ripetono con un nuovo quoziente ottenuto diminuendo di una unità il divisore; i seggi che rimangono non assegnati vengono attribuiti al collegio unico regionale.
Orbene, visto che l’articolo 17 cit. della legge n. 43 del 1995 non era redatto secondo la tecnica della novellazione, nel prescrivere che “non sono ammesse all'assegnazione dei seggi” le liste sotto soglia esso si riferiva senz’altro alla fase del riparto dei seggi, ma restava aperto il dubbio se, nel silenzio della legge (anzi, nell’opposta dizione della legge del 1968: “tutte le liste”), esso si estendesse anche alle operazioni di computo suddette. Nella fattispecie, se anche al numeratore della frazione destinata ad esprimere il quoziente per i calcoli rientravano le cifre elettorali di tutte le liste (anche quelle destinate comunque a non ricevere seggi perché sotto soglia), i conteggi differivano e potevano locupletare una lista sopra soglia invece di un’altra.
In una prima fase, il Consiglio di Stato Decisioni della Sezione V, nn. 875 del 6 agosto 1996, 453 del 18 aprile 1996, 309 del 26 marzo 1996 e 48 del 13 gennaio 1996., confermando varie decisioni di primo grado Tra le altre, TAR Lazio, sezione I-ter, 26 febbraio 1996, n. 286., aveva interpretato la disciplina delle due leggi prevedendo che il quoziente elettorale circoscrizionale si computasse dividendo il totale delle cifre elettorali di tutte le liste; soltanto dopo aver ottenuto il quoziente, infatti, l’ufficio centrale circoscrizionale procede alla ripartizione dei seggi, e solo successivamente alla determinazione dei seggi residui, rimasti da attribuire in sede di Collegio unico regionale (fase nella quale soltanto si applica la soglia di sbarramento).
Tale linea interpretativa teneva conto del fatto che la determinazione della cifra elettorale di ciascuna lista, ai fini del calcolo dei quozienti, costituisce “un’operazione logicamente e giuridicamente anteriore – e quindi autonoma – rispetto all’assegnazione dei seggi”. Ne derivava che, mentre l’articolo 7 della legge del 1995 esclude dal riparto dei seggi assegnati alla quota proporzionale le liste che non abbiano raggiunto il 3% dei voti validi nell’intera regione, la disciplina della fase di determinazione dei quozienti elettorali comportava l’inclusione, nel numeratore della frazione che dava luogo al quoziente, delle cifre elettorali di tutte le liste.
Tali decisioni della V sezione respingevano anche l’argomento secondo cui la legge – così interpretata – avrebbe portato ad un aumento del numero dei seggi tale da far superare l’esatta percentuale del 55% dei seggi alla lista con la maggiore cifra elettorale, in violazione della disciplina sul premio di maggioranza: la lettera della norma in esame “è chiarissima nel riferire ai seggi e non alla percentuale l’arrotondamento” all’unità inferiore previsto dall’articolo 3, secondo comma, n. 7 della legge n. 43 del 1995. La prima inversione di tendenza, in sede politico-legislativa, ebbe origine proprio da questo punto: un’interpretazione autentica contenuta nell’articolo 5, comma 7 della legge 15 maggio 1997 n. 127, affermò che le parole: «qualora tale seconda verifica dia esito negativo, assegna alla lista regionale una quota aggiuntiva di seggi che, tenuti fermi i seggi attribuiti ai sensi dei numeri 4) e 5) e quelli attribuiti in ambito provinciale, consenta di raggiungere il 55 per cento del totale dei seggi del consiglio nella composizione così integrata con arrotondamento all'unità inferiore» devono interpretarsi nel senso che tale arrotondamento è da riferirsi ai decimali da rapportarsi alla percentuale complessiva e non al numero dei seggi, che devono pertanto comunque raggiungere o superare il 55 per cento del totale dei seggi del consiglio nella composizione così integrata.
Indi, a capovolgere definitivamente la vecchia tesi, giunse l’Adunanza plenaria, con decisione del 10 luglio 1997 n. 13, dichiarando che per l’assegnazione dei seggi di quota proporzionale, nel Collegio unico regionale, vale il principio della non computabilità dei voti validi delle liste che non abbiano superato lo sbarramento del 3%. L’Adunanza plenaria rilevò che consentire ai voti validi delle liste escluse dall’assegnazione di seggi di concorrere alla determinazione dei quozienti, significherebbe alterare la ripartizione dei seggi. Occorre invece tener conto dell’effettiva portata della norma alla luce di una necessaria interpretazione logico-sistematica, ispirata alla specifica funzione cui la norma stessa – nel porre un preciso meccanismo di determinazione del quoziente elettorale – è inequivocabilmente destinata. Il computo dei voti attribuiti alle liste rimaste al di sotto della soglia di sbarramento implicherebbe una sorta di riutilizzazione dei voti stessi, che non sono utili per i diretti destinatari; tali voti, come messo in luce nella decisione citata, se si accogliesse la prospettazione dei ricorrenti verrebbero ad incidere, in maniera indiretta e, per così dire, involontaria, nella ripartizione dei seggi tra gli altri schieramenti rimasti in lizza, diversi rispetto a quelli cui i voti stessi erano stati destinati Si sono uniformate a tale decisione le sentenze: Consiglio di Stato, Sez. V, 24/03/1998 n. 358; Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sez. I-ter, 19 luglio 2000 n. 6094; Consiglio di Stato, Sez. V, nn. 5513 e 5514; Tribunale Amministrativo Regionale della Calabria, Sede di Catanzaro, Sezione Prima, 15-21 luglio 2005, n. 1342; Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Seconda, 16 febbraio 2006, n. 2298. La reiezione delle eccezioni di costituzionalità, sollevate in tale materia, è stata disposta dalle sentenze Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione Prima, 6 novembre 2001, n. 1588/01 e Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, Sezione Seconda, 16 febbraio 2006, n. 2136/06..
Quando la norma, contenuta nell'art. 7 della legge n. 43 del 1995, statuì che "non sono ammesse all'assegnazione dei seggi le liste provinciali il cui gruppo abbia ottenuto, nell'intera regione, meno del 3% dei voti validi", in dottrina vi fu chi sostenne la possibilità di intendere tale "assegnazione" non soltanto "come l'atto conclusivo del procedimento elettorale, ossia come il risultato del momento di attribuzione dei seggi, ma, in un senso che pare anche tecnicamente più corretto, come l'intero procedimento che, applicando il meccanismo complesso previsto dalla legge elettorale, consente la traduzione dei voti in seggi" Francesco Rimoli, Elezioni regionali e giudice amministrativo: un esercizio di ermeneutica svolto sul quaderno della politica, in Giurisprudenza costituzionale, 1996, p. 3877.
Benché quindi la clausola di sbarramento fosse esplicita solo per il procedimento “a valle”, secondo tale autore l'attribuzione di valenza semantica diversa e più comprensiva al concetto di "assegnazione" dei seggi avrebbe consentito di concepirlo tout court come procedimento e non solo come atto conclusivo dello stesso: in quel caso, essendovi la norma esplicita di esclusione dal computo per l'ammissione delle liste sotto soglia, secondo l'autore in questione si sarebbe potuta "superare l'impasse generata dall'applicazione dell'analogia in senso proprio", perché non di analogia si sarebbe trattato, ma di interpretazione che traeva spunto dalla lettera della norma.
Da tutto il ragionamento svolto in quella circostanza consegue che, per dare all’assegnazione valore di concetto unitario, occorre disporre di un dato testuale suscettibile di estenderlo dal riparto alla determinazione del quoziente: questo dato nel caso all’esame della Giunta manca, per cui, non essendovi la soglia di sbarramento nella lettera della norma nel comma 6 (a differenza del comma 3 dell'art. 17), i voti coalizionali entrano tutti nel calcolo del numeratore della frazione che porta al quoziente; aver mancato di effettuare tale calcolo è particolarmente odioso per chi, pur avendo superato il 3%, si è trovato incapiente in sede di riparto dei seggi infracoalizionali per il diverso tipo di calcolo, effettuato “depurando” dal numeratore le cifre delle liste inferiori al 3 per cento. Esula certo dal caso specifico della regione Piemonte chiedersi se l’Ufficio avrebbe potuto, per conciliare le due prescrizioni, considerare le liste sotto soglia ai fini dell’individuazione del quoziente, ma non ai fini del riparto; si tratta di un problema che non altera le conclusioni del Relatore (contestando il ricorso Intini sia l’esclusione “a monte” del calcolo – per il conteggio del quoziente – sia “a valle” dello stesso, avendo la lista da lui guidata totalizzato un risultato inferiore al 3% dei voti validi), ma la cui disamina – in comparazione col precedente del CUR – può contribuire a far luce sulla praticabilità di un possibile percorso alternativo nella lettura della norma.
Comunque, riprendendo il percorso dettato dal modello di verbale, una volta che vi è stata l’individuazione di una coalizione di liste o singola lista, come “ammesse al riparto”, ne discende che ad essa spettano i 9 seggi che l’Ufficio elettorale per il Piemonte assegna, nell’unica parte compilata del § 13. Ad essa - e nella consistenza dei voti che di essa è dichiarata, ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. b), n. 1, nel paragrafo 7 - andava riferito il successivo conteggio di spettanza dell’Ufficio: dividere il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle coalizioni di liste e singole liste ammesse, di cui al paragrafo 7, per il numero dei seggi restanti, ottenendo il quoziente con cui operare il successivo riparto.
Invece, l’Ufficio elettorale regionale ha preferito lasciare non compilata tale parte del paragrafo, e ricavare un diverso quoziente dal prospetto IV previsto dal § 14 (che si richiama alle liste ammesse di cui al paragrafo 10) del medesimo verbale. Tale scelta va censurata, perché è all’origine di una proclamazione erronea, effettuata in aperta contraddizione con il tenore letterale della norma da applicare; anche se, occorre ribadirlo, per la regione Piemonte tale errore sulla determinazione dell’esatto quoziente elettorale non determina sostanzialmente alcuna variazione nell’assegnazione dei seggi già convalidati.


6. La conclusione cui è addivenuto il Relatore, e sulla quale egli richiede che la Giunta convenga, è quella della totale aderenza alla lettera della legge, non trovandosi al cospetto di una norma palesemente inapplicabile. Ne consegue la necessità di aprire la fase di contestazione dell’elezione all’unico seggio del Piemonte escluso dalla convalida decisa l’11 ottobre 2006.
Qualora però la maggioranza della Giunta dovesse ritenerlo, si potrebbe dar corso all’ultimo possibile margine di valutazione che residua ad un organo di natura giurisdizionale in sede di applicazione della legge: se cioè la disciplina legislativa così ricostruita resista ad uno scrutinio di ragionevolezza, e nel dubbio valutare se sollevare d’ufficio Sulla possibilità di sollevare d’ufficio dubbi di costituzionalità della norma che la Giunta è chiamata ad applicare, cfr. l’intervento del senatore Gianquinto nella seduta della Giunta delle elezioni del 27 febbraio 1969: il dato interessante anche ai fini del § 5 perché, in quella circostanza, il senatore dichiarò che la norma in questione (l’allora articolo 19 comma secondo della legge elettorale per il Senato, secondo cui la cifra elettorale di ogni Gruppo di candidati era data dal totale dei voti validi ottenuti dai candidati del Gruppo stesso, presentatisi nei collegi nei quali nessun candidato aveva ottenuto un numero di voti validi non inferiore al 65 per cento dei votanti) “rende inutilizzabili un certo numero di voti validi” e ciò contrastava, a suo avviso, “con i principi costituzionali relativi alla eguaglianza del voto di tutti i cittadini” (verbale n. 17). questione di costituzionalità innanzi alla Corte costituzionale.
A tal proposito, giova ricordare la Giunta ha già affrontato e risolto - con il Documento n. XXXI della IV legislatura (Relazione sulla elezione contestata nella Regione della Lombardia – senatore Bruno Amoletti) Atti parl. Sen., IV Leg., doc. n. 31, 17-23: la relazione terminava con un dispositivo in cui si proponeva l’annullamento della ele­zione «ritenuta la manifesta infondatezza della que­stione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa dell’on. Amoletti» in ordine all’art. 19, comma 3 l. 6 febbraio 1948, n. 29 e agli art. 48-53 t.u. n. 361, cit. in relazione agli art. 3, 48, 51 e 57 Cost.. Le conclusioni furono approvate dall’Assem­blea del Senato (cfr. Atti parl. Sen. 10 marzo 1964, 5406) e trovarono conforto nella relazione sull’elezione contestata del senatore Stefanelli (Atti parl. Sen., V Leg., Doc. III, n. 3, 8 ss.), non discussa in Assemblea. Di contrario avviso si mostrò la Giunta della Camera nella seduta del 30 gennaio 1964 (cfr. il resoconto sommario della Camera 30 gen­naio 1964, 8, cui fa riferimento anche la relazione sul senatore Amoletti, confutandone gli assunti): la giunta respingeva una serie di reclami in terna di collegio unico nazionale considerando tra l’altro «che l’eventuale rinvio da parte della Camera alla Corte costituzionale dell’art. 83 t.u. n. 361, cit., ai fini del giudizio di costituzionalità, è da escludersi in base ai principi generali sull’autonomia degli or­gani costituzionali e sulle loro competenze». Come fa notare Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, 789, n. 264, nella conseguente relazione Basile (Atti parl. Dep., IV Leg., doc. IX, n. 2, 3) la presa di posizione della Camera apparve meno decisa di quella assunta nella seduta del 30 gennaio 1964: si afferma, tra l’altro che «non sarebbe stato ammissibile nè corretto affrontare e promuovere, da parte di un organo parlamentare, alcuna procedura per interessare formalmente del problema la Corte co­stituzionale. D’altra parte la giunta ha osservato che la difesa non ha fatto della questione di legittimità costituzionale una richiesta formale e preliminare, ma una tesi di merito, discussa in via subordinata». Su questa posizione di maggior cautela pare attestarsi anche un precedente del Senato della V legislatura, la relazione della Giunta sulla elezione conte­stata del sen. La Rosa (cfr. Atti parl. Sen., V leg., doc. III, n. 1, p. 4), dove si legge testualmente: «Poiché, come si è detto, la sollevata questione di illegittimità costituzionale è apparsa alla Giunta manifestamente e palesemente infon­data nel merito, non appare necessario, neppure in questa sede, affrontare ex professo i suddetti problemi: in tal modo tutte le implicate questioni re­stano impregiudicate, senza costituire, in alcun modo, precedente. Pertanto, ove fosse sollevata in futuro una questione di illegittimità costituzionale che, in astratto, offrisse qualche elemento di fondatezza, in quella occasione la Giunta delle elezioni affronterà funditus le varie questioni attinenti alla pro­ponibilità di questioni di legittimità costituzionale nelle varie fasi del procedimento elettorale politico. Le suddette precisazioni sono state fatte princi­palmente allo scopo di evitare che il silenzio al riguardo potesse far ritenere - anche sulla base del dispositivo adottato dalla Giunta - che siano pacifiche determinate tesi (circa la natura delle attività svolte dalle Camere in sede di contenzioso elettorale politico), le quali suscitano invece varie perplessità». Si tratta di un precedente citato da ultimo nella relazione sulla verifica delle elezioni senatoriali del 26-27 giugno 1983 nella regione Lazio (che si conclude con le parole “le sollevate eccezioni di illegittimità costituzionale non sembrano sostenute da alcun apprezzabile argomento, di modo che non appare necessario affrontare ex professo la questione della legittimazione della Giunta a provocare l’intervento della Corte costituzionale: questione che rimane impregiudicata, e di cui la Giunta dovrà eventualmente occuparsi in futuro”), che fu presentata il 15 febbraio 1984 dal relatore Di Lembo e fu approvata il 12 giugno 1985 dalla Giunta delle elezioni del Senato (Atti parl. Senato, IX leg., seduta della Giunta del 12 giugno 1985). il seguente problema di carattere ge­nerale: una questione di legittimità costitu­zionale di una legge o di un atto avente forza di legge può essere rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso del giudizio relativo ad una elezione contestata? A tale problema la Giunta ritenne di dare una soluzione positiva per i motivi che di seguito si riportano integralmente.


Rispetto a tale pregevole dispiegamento di dottrina giuridica, quella sopraggiunta nei decenni successivi non può che essere di ulteriore conforto, rispetto all’assunto della proponibilità della questione di legittimità costituzionale in sede di verifica dei poteri.
Anzitutto, seguendo il percorso tracciato dalla relazione sul caso Amoletti, l’Elia evidenziava che “o si riesce a investire la Corte passando attraverso la verifica dei poteri, o altrimenti il supremo organo di giustizia costituzionale potrà sindacare la conformità a costituzione delle sole leggi elettorali amministrative e non già di quelle politiche: che è conclusione quanto meno conturbante L. Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, 790, in cui si confuta anche la tesi del Buzzelli sulla disapplicazione della legge elettorale incostituzionale, citata nella relazione sul caso Amoletti, segnalando le “conseguenze particolarmente gravi” che avrebbe comportato. Nel senso della giurisdizionalità dell’attività della Giunta v. anche S. Tosi, Diritto parlamentare, Milano, 1974, 63, 65 (pur nel contesto di un impianto critico dell’istituto); nel medesimo senso C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico 9, I, Padova, 1975, 483, per il quale l’attribuzione al Parlamento della decisione gli farebbe assumere la titolarità di una funzione sostanzialmente giurisdizionale; il rilevo dato ai diritti induceva Mortati ad affermare decisamente che la deroga ai principi costituzionali non ha più giustificazione. Il carattere paragiurisdizionale della procedura è affermato pure in T. Martines, G. Silvestri, G. De Caro, V. Lippolis, R. Moretti, Diritto parlamentare, Milano, 2005, 54. . È ben vero che l’opinione dottrinaria sul punto resta non univoca V. Lippolis, Art. 66, in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Roma-Bologna, 1986, p. 175., ma è innegabile che, per le attività non riconducibili alla funzione legislativa, le Camere restano prive di meccanismo interno di vaglio dei profili di costituzionalità: il parere della Commissione affari costituzionali, il giudizio della Presidenza sugli emendamenti e la stessa valutazione esterna del Capo dello Stato, in fase di promulga, sono tutti meccanismi strettamente interrelati con il procedimento legislativo e non sono suscettibili di alcuna forma di estensione al vero e proprio “foro speciale” individuato dalla stessa Costituzione in sede di giudizio elettorale sui titoli di ammissione dei parlamentari.
Le “virtualità di tipo giurisdizionale” dell’attività di verifica dei poteri fanno concludere che, anche a non voler aderire del tutto alla tesi sulla piena giurisdizionalità delle funzioni, almeno si deve “ammettere - per rispetto di quell’interesse (costituzionale) alla osservanza della Costituzione» posto alla base del giudizio di legittimità costituzionale - la idoneità, e cioè la giurisdizionalità, «ai limitati fini della sollevabilità della questione di costituzionalità» (come affermato dalla Corte costituzionale, a proposito della sezione disciplinare del CSM, con la sentenza 2 febbraio 1971, n. 12, in Giur. cost, 1971, pp. 83-105)”. Di Ciolo-Ciaurro, Il diritto parlamentare nella teoria e nella pratica, Milano, 2003, p. 206.
Tale riferimento giurisprudenziale, sopraggiunto alla relazione sul caso Amoletti, rende anzi possibile un’evoluzione ulteriore rispetto al contesto di quella prima, pur esaustiva disamina. Essa infatti così proseguiva, nell’affrontare la competenza della Giunta e dell’As­semblea in ordine alla questione di legitti­mità costituzionale:


Già l’Elia rilevava, in quegli stessi anni, come la giurisprudenza restrittiva sulla legittimazione del giudice istruttore civile a proporre questione incidentale di costituzionalità era sottoposta a critiche che, se accolte dalla Corte, avrebbero comportato un ripensamento in ordine alla possibilità per la Giunta di sollevare la questione di costituzionalità che risultasse rilevante “rispetto ad una decisione spettante alla giunta nella esplicazione dei suoi poteri istruttori” L. Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enciclopedia del diritto, vol. XIV, Milano, 1965, 789-791, in cui peraltro si notava come, approvando le conclusioni della giunta sul caso Amoletti, “l’assemblea non si è soffermata, durante la discussione, su questo punto capitale” della proponibilità della questione di legittimità costituzionale in sede di verifica dei poteri (n. 264).. Ma poi questo cambiamento di giurisprudenza effettivamente sopraggiunse Corte costituzionale 10 giugno 1966, n. 62, in Giur. Cost., 1966, 931-942, sulla legittimazione del giudice istruttore civile a sollevare incidente di costituzionalità. e la dottrina coerentemente ne fece scaturire l’affermazione secondo cui la mancanza della competenza ad emettere provvedimenti decisori non osta alla configurazione della Giunta stessa come giudice a quo Di Ciolo-Ciaurro, voce Elezioni-elezioni politiche, contenzioso, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XII, 1989, 21.. Ciò tanto più alla luce proprio della citata sentenza sulla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, dalla quale emerge la possibilità di includere l’organo minore (investito di particolari competenze) ed escludere l’organo maggiore Sentenza 2 febbraio 1971, n. 12, in Giur. cost, 1971, pp. 83-105..
Il carattere definitivo di un atto a contenuto intrinsecamente decisorio, del resto, prevale sulla forma esteriore del provvedimento giurisdizionale anche ai fini dell’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione, costituendo jus receptum che il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio, cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale (cfr. da ultimo Cass. S.U. civ., sentenza 26 gennaio 2005, n. 1521). Sul fatto che la delibera della Giunta in ordine alle proposte del relatore sui ricorsi presentati, già in tale fase, abbia immediata potenzialità lesiva delle posizioni del ricorrente, depone l’univoca previsione dell’articolo 11 del Regolamento parlamentare di verifica dei poteri del Senato, che al comma 2 prevede che “le deliberazioni di convalida sono immediatamente comunicate al Presidente del Senato” (a differenza di quelle di contestazione, che aprono la procedura di contestazione di cui al capo IV, in esito alla quale l’articolo 17, comma 4 prevede che debba essere presentata “al Senato” una “relazione scritta sulla elezione contestata, dopo essere stata approvata dalla Giunta”).
In proposito va ricordato che la configurazione regolamentare della verifica dei poteri nelle due Camere è anch’essa mutata, rispetto a quanto descritto nel 1964: l’articolo 135-ter del Regolamento del Senato annette alla proposta della Giunta una resistenza passiva particolarmente rafforzata, oltre a gravare dell’onere di motivazione chiunque in Assemblea (nella composizione qualificata di almeno venti senatori) voglia avanzare proposte in difformità dalle sue conclusioni.
Ma un ulteriore sviluppo ordinamentale è rilevante ai presenti fini: quello che – nei nuovi Regolamenti parlamentari di verifica dei poteri, approvati al Senato nel 1992 ed alla Camera nel 1998 – ha adeguato ai princìpi del contraddittorio e della motivazione (decisivi per qualificare la verifica dei poteri come funzione giurisdizionale) le varie fasi procedimentali in essa contemplate. Invero, restano escluse «le proposte di convalida senza istruttoria (quelle che una volta erano dette di “convalida pura e semplice”) e forse un’interpretazione sistematica e storica porterebbe a rispondere di no, considerando che esse costituiscono l’esplicazione normale e fisiologica del procedimento di elezione, proclamazione e verifica dei deputati» G. Malinconico, La Giunta delle elezioni, in Rassegna parlamentare, n. 1/2001, p. 186.. Ma questo consente di superare, nel caso di specie oggi all’esame della Giunta, la precondizione con cui sia la dottrina Di Ciolo-Ciaurro, voce Elezioni-elezioni politiche, contenzioso, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. XII, 1989, 21. che la citata relazione sul caso Amoletti Peraltro sul punto superata nella stessa prassi del Senato nel 1984, quando la Giunta esaminò – per poi respingerla – la questione di costituzionalità sollevata dal Partito nazionale dei pensionati in esito all’istruttoria del relatore, senza che neppure si fosse aperta la procedura di contestazione dell’elezione e basandosi semplicemente sulle deduzioni contenute nel ricorso: cfr. la citata Relazione sulla verifica delle elezioni senatoriali del 26-27 giugno 1983 nella regione Lazio, presentata il 15 febbraio 1984 dal relatore Di Lembo, rispetto alla quale non determinò alcun fatto nuovo la diversa questione del Comitato costituito dalla Giunta per un accertamento sulle schede. delimitano alla sola fase di contestazione – quindi quella della udienza pubblica – la fase nella quale la Giunta può sollevare la questione di costituzionalità.
Infatti l’articolo 12 del Regolamento camerale ammette le parti all’istruttoria, una volta che essa sia decisa dalla Giunta; analogo obbligo consegue in Senato – ai sensi dell’articolo 10 del Regolamento di verifica, in caso di mancata decisione del relatore in ordine alla contestazione od alla convalida, con la decisione – che nel caso concreto è stata assunta l’11 ottobre 2006 – di ammettere le parti all’esame degli atti e dei documenti e di costituire un Comitato inquirente per svolgere atti istruttori, funzionali alla decisione della Giunta. I lavori di questo Comitato si sono svolti previa informativa del relativo calendario e contenuto alle parti, che hanno avuto facoltà – ed in taluni casi se ne sono avvalse – di intervenire per iscritto nel procedimento.
C’è stato chi, in Giunta, ha opinato sulla peculiare natura degli adempimenti istruttori richiesti al Comitato inquirente (istituto che, soppresso alla Camera nel 1998, mantiene invece una sua vitalità in Senato, proprio perché consente un raggio di incombenti più ampio e diverso da quello della mera revisione delle schede) Nel caso di specie, l’istruttoria su una mera quaestio iuris sarebbe stato al di fuori della portata dei Comitati oggi previsti alla Camera, per cui – anche per dare adeguata pubblicità ai relativi lavori – si sarebbe dovuto attivare la procedura conoscitiva di cui al rinvio al Regolamento generale., che nel caso di specie ha in buona parte ascoltato pareri di accademici illustri sulla questione di diritto controversa. Nel nostro ordinamento, come in tutti quelli continentali, si sostiene che iura novit curia e che pertanto nessuna consulenza è possibile al magistrato sull’applicazione del diritto. È però altrettanto vero, nel diritto parlamentare italiano, c’è un filone ultrasecolare (che risale fino alla relazione di Pasquale Stanislao Mancini sulle immunità statutarie) Doc. n. 2ter della sessione 1869-70 (seconda della X legislatura) della Camera dei deputati del Regno d’Italia: Relazione alla Camera dei Deputati “Sull’interpretazione dell’art.45 dello Statuto costituzionale del Regno”, redatta dalla Commissione presieduta da Pasquale Stanislao Mancini, e presentata alla Camera nella seduta del 30 luglio 1870. di diretta derivazione anglosassone; possiamo anzi dire - senza tema di smentita - che il diritto in Parlamento si sedimenta su precedenti, consuetudini e casistiche, per cui non appare a sproposito la scelta di rivolgersi ad uno degli strumenti classici del Common law: l’intervento nel giudizio dell’amicus curiae, che – senza sostituirsi al decisore finale, che è e resta l’organo collegiale politico – lumeggia in ordine al diritto vigente.
Quanto alla critica secondo cui nessuna consulenza giuridica è possibile ad opera di soggetti che si sono già pubblicamente pronunciati, giova ricordare che proprio nel Common law la nozione di “disinteresse dell’amicus curiae Desumibile dalla seguente definizione di amicus curiae data dal Jowitt's dictionary of English Law: "A friend of the court, that is to say a person, whether a member of the bar not engaged in the case or any other bystander, who calls the attention of the court to some decision, whether reported or unreported, or some point of law which would appear to have been overlooked". è stata da tempo superata: citando l’evoluzione dell’istituto negli Stati Uniti d’America, la Corte suprema irlandese ha statuito che “mentre è ancora vero che ad un amicus curiae si consente di intervenire perché la Corte sente la necessità di essere assistita nel pervenire ad una corretta soluzione della vicenda di causa mediante l’esaustiva informazione su tutti i precedenti, le normative e gli altri materiali rilevanti per la sua decisione, non ci si attende più che l’amicus sia totalmente disinteressato all’esito della controversia” Cfr. la sentenza 14 luglio 2003 della Corte suprema della Repubblica d’Irlanda nel caso I. v. Minister for justice, equality and law reform (on the application of the United nations high commissioner for refugees)..
Tornando alla natura giurisdizionale dell’attività di verifica, non si può negare che l’attivazione delle procedure di cui all’articolo 10, commi 2 e 3 del Regolamento di verifica dei poteri del Senato, abbia dato ingresso già nella fase in cui oggi versa la Giunta – alla conclusione dei lavori del Comitato inquirente – ad elementi di contraddittorio con le parti, in condizione di perfetta parità: si è dato luogo alla “virtualità di tipo giurisdizionale” che – ai sensi della citata giurisprudenza costituzionale – fa concludere «ai limitati fini della sollevabilità della questione di costituzionalità» per la legittimazione della Giunta come giudice a quo già in questa fase dell’attività di verifica dei poteri.
Già in precedenza, del resto, era stato affermato che “la Giunta delle elezioni esercita sempre una funzione giurisdizionale dal momento in cui è investita di un ricorso”, per cui sarebbe inesatto distinguere “la fase istruttoria della Giunta dalla fase dell’udienza pubblica, quasi che solo in quest’ultima, e non anche nella precedente, la Giunta esercitasse una funzione giurisdizionale” Intervento del senatore Ricci nella seduta della Giunta delle elezioni del 24 luglio 1969, tratto dal verbale n. 27.. È ben vero che nella fattispecie allora in discussione – l’istanza di ricusazione di un componente della Giunta per conflitto di interessi – la Giunta preferì non prendere posizione, nonostante fosse stato ricordata l’esistenza di consolidate opinioni dottrinali sull’applicabilità della disciplina della ricusazione all’udienza pubblica Virga, La verifica dei poteri, Palermo, 1949, p. 64; Mazziotti di Celso, Osservazioni sulla natura dei rapporti tra la Giunta delle elezioni e la Camera dei deputati, in Giur. cost., 1958, p. 430.. Ma è altrettanto vero che, con tutte le contraddizioni insite nelle modalità di composizione dell’organo, la sua natura giurisdizionale pare difficilmente conciliabile con un funzionamento “a corrente alternata” dei principi generali di garanzia della terzietà e dell’imparzialità dei componenti del collegio giudicante, quale che sia la fase nella quale essi possano essere chiamati ad incidere col voto nella decisione.


7. Come s’è già detto, la scelta interpretativa seguita dal Relatore è quella della perfetta aderenza alla mera lettera della norma, per darne una lettura che abbia un senso compiuto.
Ma vi è chi (Luciani, Agosta) ha sostenuto con veemenza che il senso compiuto non significa un significato. Questo richiederebbe il ricorso ad una logica di sistema anche quando la lettura è comunque piana: si verserebbe, altrimenti, nel caso di disposizioni fini a se stesse, “disposizioni dispotiche” Antonino Spadaro, Dall’indisponibilità (tirannia) alla ragionevolezza (bilanciamento) dei diritti fondamentali. Lo sbocco obbligato: l’individuazione di doveri altrettanto fondamentali, in Politica del diritto, marzo 2006, pp. 167-182, afferma che “un diritto fondamentale è «ragionevole» non quando il valore ad esso sotteso è del tutto «relativo» (pena la sua degradazione a semplice situazione giuridica tollerata dall’ordinamento insieme a tante altre, del tutto comuni), né quando all’opposto ha pretesa di «assolutezza» (finendo col diventare schmittianamente tirannico e menomando così, con la sua intransigenza, altre situazioni giuridiche)”..
In particolare, quando la legge delimita il campo dei partecipanti alla assegnazione iniziale dei seggi – ammettendo le coalizioni di liste “che abbiano conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi e che contengano almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 3 per cento” – lo farebbe perché i seggi ottenuti dalla coalizione potrebbero, al limite, essere assegnati ad una soltanto delle liste che la compongono; in tal caso, si richiede non solo che la lista sia inserita in una coalizione sostenuta da almeno un quinto del voto regionale, ma anche che almeno una di esse soddisfi uno standard minimo di consenso, pari al 3 per cento. A questo punto, non avrebbe senso il requisito aggiuntivo richiesto ad una coalizione che già rappresenta una quota ragguardevole del voto regionale (cioè avere al proprio interno anche una lista con il 3 per cento), a meno che non si ricolleghi con una clausola di sbarramento per tutte le altre. Il diritto positivo, quindi, recherebbe una norma inspiegabilmente vessatoria, a meno di un’interpretazione secondo ragionevolezza, che – dichiarata incostituzionale la norma, nella ricostruzione qui inevitabilmente data – non potrebbe che giustificare l’estensione della clausola di sbarramento dal caso normato (comma 3) a quello non normato (comma 6).
Ma se così è, non l’interprete o il giudice (e neppure il giudice di quel particolare giudizio che è la verifica dei poteri), ma la sola Corte costituzionale Più volte sollecitata dalla dottrina ad esprimersi su questi ed altri punti della sempre viva tematica elettorale: cfr. Antonio D'Andrea, L’insostenibile ragionevolezza della nuova legge elettorale, in Quaderni costituzionali, marzo 2006, pp. 109-112; Alberto Russo, "Irragionevolezza" del sistema proporzionale puro? Un caso emblematico, in Quaderni costituzionali, giugno 2002, pp. 309-334. può valutare se l’articolo 17 comma 6, ricostruito come ha fatto questo Relatore, vìola canoni di ragionevolezza che risalgono all’articolo 3 della Costituzione (cfr. supra, § 3) Depone in tal senso l’affermazione secondo la quale la Corte può ricercare all’interno dell’ordinanza di rimessione il significato della censura proposta, anche quando le venga sollevata una questione per il generico contrasto di una legge con «i principi generali dell’ordinamento giuridico e con quelli del sistema costituzionale» o ancora con le «esigenze razionali del diritto»: così F. Modugno, Ancora sulla mancata determinazione del thema decidendum e sull’«eccesso di potere legislativo», in «Giur. cost.», 1982, p. p. 2091. .
La scelta del Relatore è di non addentrarsi in elementi logico-giuridici a sostegno dell’interpretazione letterale da lui offerta, utilizzando il “senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Non compete al giudice altro che questo modo di procedere, avendo a disposizione una norma che non sia inapplicabile. Al contempo, se la maggioranza ritenesse di prospettare un dubbio di costituzionalità dal quale discende la definizione del giudizio in corso (rilevanza che il giudice a quo è tenuto a valutare, secondo quanto dispone l’articolo 23, comma 20 della legge 11 mar­zo 1953, n. 87), si potrebbe considerare in che misura nella fattispecie tale rilevanza sussista: al riguardo è sufficiente ricordare che proprio la norma di cui all’articolo 17, comma 6 del decreto legislativo n. 533 del 1993 — nei cui confronti andrebbe solle­vata d’ufficio l’eccezione di illegittimità, nell’interpretazione qui data, in contrasto con quella dell’Ufficio elettorale regionale per il Piemonte — è quella in base alla quale si determinano i quozienti e, quindi, il riparto dei seggi a favore di ciascuna lista nelle regioni in cui è stato attribuito il premio di maggioranza introdotto dalla legge n. 270 del 2005 per il Senato.
Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, essa discenderebbe da quanto s’è sopra argomentato (§§ 3 e 4) sulla ricaduta del principio di ragionevolezza per l’ipotesi di eccesso di potere in una legislazione funzionalizzata da vincoli teleologici esterni In proposito, un’esaustiva disamina del punto di intersezione tra i due istituti si rinviene in Gino Scaccia, Eccesso di potere legislativo e sindacato di ragionevolezza, in Politica del diritto, settembre 1999, pp. 387-422.. Lo schema di giudizio nella sentenza della Corte costituzionale n. 14 del 1964 richiedeva di accertare – anche a mezzo dell’esame degli atti parlamentari Da cui deve risultare che «le ragioni pro e contro siano state dibattute» e che siano state pertanto rispettate le esigenze di un dibattito democratico. – se l’apprezzamento del legislatore fosse stato inficiato da criteri illogici, arbitrari o contraddittori: «ci sarebbe anche vizio di legittimità se si accertasse che la legge abbia predisposto mezzi assolutamente inidonei o contrastanti con lo scopo che essa doveva conseguire». Tale scrutinio per la Corte riguarda anche il caso in cui “l’opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza,vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di «eccesso di potere» e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l’ordinamento assegna alla funzione legislativa” (sentenza n. 313 del 1995).
L’attività di ricerca della ratio legis rappresenta un passaggio logico fondamentale nelle diverse forme del sindacato di ragionevolezza della legge, come la stessa Corte costituzionale ha in più occasioni ricordato V. ad es. decisioni C. cost. nn. 196, 226/1998; 89, 193, 386/1996; 68, 299/1995; 24, 55, 66, 109, 118, 151, 184, 223, 404/1994; 110, 216, 258, 271, 274/1993; 243/1992; 3, 123, 188, 190, 277, 320, 355, 413, 431, 493, 526/1990., e come sostenuto in dottrina: “in effetti le valutazioni di ragionevolezza in senso stretto (che vanno tenute distinte da quelle di eguaglianza-disparità di trattamento) sono ricostruibili secondo uno schema argomentativo in cui, a partire dalla ratio della norma impugnata, la Corte ripercorre in un’inferenza pratica il ragionamento del legislatore e porta alla luce, attualizzandolo, il fondamento giustificativo della regolazione normativa per saggiarne la complessiva plausibilità. (…) i riscontri di ragionevolezza implicano infatti valutazioni multiformi: di razionalità sistematica, di efficienza strumentale, di giustizia-equità della legge” Gino Scaccia, Eccesso di potere legislativo e sindacato di ragionevolezza, in Politica del diritto, settembre 1999, pp. 410-411, in cui così si definisce ciascuna di tali valutazioni: “il giudizio di coerenza, che si svolge secondo riferimenti valutativi ricavati dalla «logica degli istituti»91 (è perciò «strumento» diretto ad accertare la razionalità intrinseca della legge), ed assicura l’innesto delle regolazioni legislative in un tessuto ordinamentale esente da contraddizioni92. Ad un livello più compromesso sul piano delle scelte di valore si collocano i riscontri di «efficienza strumentale» della legge, che saggiano la consistenza e la plausibilità del rapporto di connessione causale mezzi-fini da essa posto. In questa sfera di controllo, accanto a giudizi che richiedono apprezzamenti di natura tecnico-scientifica (pertinenza, imperizia), stanno valutazioni intessute di giudizi di valore, perché aperte al confronto con parametri esterni alla legge (le valutazioni di congruenza, ma anche quelle di conformità alla Natur der Sache) o frutto di bilanciamenti complessi (proporzionalità-adeguatezza). Infine, in ipotesi più rare, ma non assenti, il sindacato di ragionevolezza percorre strade logicamente e formalmente autonome rispetto a referenti logico analitici per attingere le argomentazioni della decisione da un’area di riferimenti equitativi, culturali, lato sensu politici. In questi casi sembra possibile parlare di un sindacato di giustizia-equità”. .
Orbene, la ratio legis prefigurata dal resistente, nella memoria del professor Luciani, è sostanzialmente additiva rispetto alla lettera della legge, e pertanto non può essere accolta dalla Giunta in sede di giudizio sulla verifica dei poteri. Essa però può ben rappresentare un percorso lungo il quale valutare se sia in contrasto con il principio di ragionevolezza desumibile dall'art. 3 Cost. non già l'opzione interpretativa sostenuta dal ricorso Intini (come ritiene il parere prodotto del resistente), ma il testo stesso della legge. Questo determinerebbe conseguenze gravemente illogiche e contraddittorie con il sistema delineato dal legislatore del 2005, quando ha temperato con due correttivi il metodo essenzialmente proporzionale nell’assegnazione dei seggi: a) un premio di coalizione; b) una pluralità di "soglie" di accesso alla rappresentanza. Se la ratio della loro introduzione è quella appena indicata, dovrebbe allora riguardarsi come destituita di senso ogni differenziazione tra l'ipotesi in cui vi sia stata una coalizione che abbia attinto il 55% dei seggi con le sue sole forze e l'ipotesi in cui vi sia stata una coalizione che abbia attinto tale risultato grazie al conferimento del premio. In entrambi i casi le esigenze sottese al sistema elettorale manterrebbero intatta la propria validità, nel senso di precludere l'accesso agli Splitterparteien (partiti cd. scheggia) indipendentemente dall’attribuzione del premio di coalizione.
È ben vero che da altre parti è stato sostenuto che proprio il canone di ragionevolezza impone un quoziente “minimo più meritevole” al fine di far transitare una coalizione maggioritaria dal 50,1% al 55% dei seggi; si sostiene cioè che, in presenza dell’attribuzione del premio di maggioranza, la soglia di sbarramento non trova più la sua giustificazione: lo sbarramento del 3 per cento sarebbe razionale quando la coalizione vincente ha “per forza propria” superato il 55% (quasi fosse un premio ai grandi partiti contro la frammentazione della rappresentanza parlamentare della loro coalizione), ed invece non lo sarebbe nel caso opposto.
Ma in scienza elettorale c’è proprio chi giudica meritevole di essere difesa contro la frammentazione (grazie alla soglia di sbarramento) la coalizione che non ha avuto la forza di arrivare al 55%; semmai, potrebbe apparire opinabile il caso-limite secondo cui una coalizione vincente del 20,5 per cento, composta di sei liste del 2,9 % e di una del 3,1%, veda quest’ultima potenzialmente conseguire il 55% dei seggi e le altre restare non rappresentate. La tesi secondo cui è incongruo ritenere che la soglia del 3 per cento – nonostante la sua modestia – sia posta a presidio di valori di sistema così elevati, non è però confutabile se non con argomenti di merito, cui un giudice chiamato ad applicare la legge non può dare accesso nel suo giudizio.
Se quindi la maggioranza della Giunta concorda con questo Relatore sull’inevitabilità dell’interpretazione letterale invocata dal ricorrente (che determinerebbe l’immediata apertura della procedura di contestazione), ma dovesse contestualmente ritenere la sussistenza del fumus boni iuris dell’allegazione secondo cui la lettura imposta dalla norma della legge vìoli il parametro di costituzionalità contenuto nell’articolo 3 della Costituzione, si dovranno di conseguenza valutare tempi e modi con cui investire la Corte costituzionale della relativa questione.

MANZIONE, relatore per la regione Piemonte


ALLEGATO 2
RESOCONTI STENOGRAFICI DEL
COMITATO INQUIRENTE PER IL PIEMONTE

GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MARTEDÌ 7 NOVEMBRE 2006
1ª Seduta

Presidenza del Relatore
MANZIONE

Interviene il professor Giuliano Vassalli, Presidente emerito della Corte costituzionale.

La seduta inizia alle ore 14,05.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi il ciclo di audizioni del comitato inquirente si apre oggi ospitando l'autorevole figura del professore Giuliano Vassalli, professore emerito di diritto penale all'Università la Sapienza che ringraziamo per la sua presenza. Da deputato fu componente della Giunta delle autorizzazioni e da Senatore fu presidente della Commissione giustizia. Il vigente codice di procedura penale reca la sua firma, essendo stato Ministro di Grazia e Giustizia dal 28 luglio 1987 al 31 gennaio del 1991, data in cui assurse alla Corte Costituzionale divenendone vice Presidente dal 1996 e Presidente dal 1999 al febbraio del 2000. Accademico dei lincei e titolare di cariche prestigiose nella Fondazione internazionale penale e penitenziaria, nell'Associazione internazionale di diritto penale e nella Società internazionale di difesa social, mi piace ricordare che l'Unione delle camere penali lo annovera come socio d'onore; la tessera ad personam in un'associazione che raggruppa solo persone giuridiche, cioè le singole camere penali, è un privilegio che prima di lui fu accordato solamente a Gian Domenico Pisapia e che dopo di lui ha ricevuto soltanto un presidente emerito della Repubblica, il nostro collega senatore Francesco Cossiga.
Onorevoli colleghi vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell'11 ottobre scorso con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione, né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto, in ragione di un'esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell'onorevole Intini.
Tale esigenza potrà utilmente essere soddisfatta con lo svolgimento lungo tutto il mese di novembre di audizioni di autorevoli docenti universitari in materie giuridiche ed elettorali, allo scopo di comprendere tutti i profili interpretativi sollevati in ordine all'articolo 17 della legge elettorale per il Senato. Com'è noto, essa è stata modificata al termine della scorsa legislatura con scelte risultate controverse sia all'epoca sia attualmente ma, ai nostri fini, è necessario soffermarsi soprattutto sulla questione dello sbarramento al 3 per cento e della sua applicabilità in sede di riparto infracoalizionale dei seggi.
L'attività istruttoria è condotta da un organo previsto espressamente dall'articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri, cioè il Comitato inquirente. Si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per una questione di puro diritto, per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della Giunta di farsi un'opinione sulla vicenda.
Operativamente rivolgerò all'audito una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l'opportunità di rispondere immediatamente; indi, saranno possibili ulteriori domande da parte di tutti i colleghi che fra i presenti sentiranno l'esigenza di proporre dei chiarimenti. Darò quindi, non facendosi osservazioni, integrale lettura alle domande fatte pervenire nei termini regolamentari dal ricorrente. Infine, il professore Vassalli potrà replicare rispondendo alle domande rivoltegli e vi sarà la chiusura dei lavori. Avverto infine che, come deliberato dalla Giunta, i lavori saranno oggetto di resocontazione integrale con il metodo della sbobinatura della registrazione che è stata attivata. Prego pertanto gli onorevoli colleghi di sincerarsi che il microfono sia acceso prima di prendere la parola.
Professore Vassalli inizio con i quesiti che nascono dal ricorso presentato e dalle memorie depositate dal controinteressato.
La prima domanda che rivolgo all'illustre ospite riguarda le preleggi, cioè quelle norme sull'interpretazione delle leggi che, anteposte al codice civile, fanno da guida a tutta l'ermeneutica giuridica del nostro ordinamento, tant'è vero che si ritiene comunemente che non possano essere derogate perché, in buona parte, incorporano principi di civiltà giuridica poi consacrati nella stessa Carta Costituzionale. Ebbene, nel passaggio dallo Stato liberale post-unitario al regime autoritario fascista, si ebbe una modificazione di queste disposizioni che dettano i canoni di interpretazione della legge. Nell'articolo 4 delle disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione delle leggi in generale, premesse al codice civile del 1865, si disponeva che «le leggi penali e quelle che restringono il libero esercizio dei diritti o formano eccezioni alle regole generali o alle altre leggi, non si estendono oltre i casi e i tempi in esse espressi». Nell'articolo 14 delle disposizioni sulla legge in generale premesse al codice civile del 1942 tuttora vigente, si legge invece che «le leggi penali e quelle che fanno eccezioni a regole generali o altre leggi, non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Ho premesso che la dottrina è univoca, nel senso che le preleggi incorporano principi di civiltà giuridica divenuti poi di rango costituzionale, ma qui abbiamo semmai il caso opposto: l'espunzione dalle preleggi del 1942 dell'inciso previsto dal codice redatto da Pasquale Stanislao Mancini, quelle che restringono il libero esercizio dei diritti; si può ritenere che il favor libertatis sia così venuto meno, oppure la giurisprudenza costituzionale ha corretto questa conclusione? Si può sostenere che tra le regole generali cui non si può fare eccezioni, alle quale oggi si limita l'articolo 14 delle preleggi, rientrano anche i diritti pubblici di libertà?
Un secondo quesito riguarda il rapporto fra interpretazione letterale e intenzione del legislatore di cui all'articolo 12 delle preleggi. L'insufficienza o non univocità della lettura della norma sono precondizioni per il passaggio dall'interpretazione letterale a quella logico-sistematica, oppure i due criteri si integrano e, se sì, in che modo?
Il terzo quesito è sull'articolo 17, comma 6, del decreto legislativo n. 533 del 1993 come novellato dalla legge n. 270 del 2005. Il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse è, secondo lei, professore Vassalli, univoco, oppure la frase «liste ammesse» rende difficile l'interpretazione letterale e necessario il ricorso agli altri tipi di interpretazione? Prego Professore.

VASSALLI. Prima di tutto una parola per ringraziare lei, la sua persona e il Comitato inquirente per avermi chiamato e per la fiducia riposta in quel poco che potrò dire, di fronte alla completezza straordinaria della relazione e alla chiarezza dei quesiti che lei mi ha adesso rivolto.
Dunque, l'articolo 12 e le preleggi in generale sono per me è veramente fondamentali, basilari nella risoluzione del quesito che è sottoposto alla Giunta delle elezioni. Sono norme, queste, che sono frutto di profonda meditazione e di esperienza potremmo dire plurisecolare. Erano già nei nostri giuristi del '700: non posso farvi perdere tempo, ma vorrei richiamare le citazioni del Sabelli che sono del 1748 e che sono diciamo un po' un preludio ai nuovi tempi del secolo successivo. Comunque, tali princìpi datano quanto meno dal codice civile del 1865 di Pasquale Stanislao Mancini: quindi sono delle norme che si presentano nel nostro ordinamento già con una forza della tradizione che trae, secondo me, anche alimento dal fatto che - salvo per quel punto che ha formato oggetto del suo primo quesito, cioè del libero esercizio dei diritti - si ripetono letteralmente, cosa abbastanza eccezionale, nel tempo e nei secoli. L'articolo 14 delle preleggi, ripete integralmente l'articolo 4 del testo previgente, nel primo e secondo capoverso; nei secoli è cambiata solo una parola, perché invece di "qualora", che forse è un linguaggio un po' antiquato, si dice "se" all'inizio del secondo comma.
Quindi, anche per questa convalida che hanno avuto attraverso regimi così diversi, quello del 1865 e quello del 1942, le preleggi si segnalano per una forza molto grande, molto pregnante: esse sono del resto le uniche norme del nostro ordinamento, in qualunque campo, ad essere state assunte appunto come premesse di tutta la legislazione; sono premesse al codice civile ma si premettono a tutta la legislazione perché sono norme generali sulla interpretazione delle leggi. Quindi, vengono alla ribalta con l'esigenza di un particolare riguardo, di un particolare rispetto; non abbiamo altre fonti in questa materia; sono fonti che si possono paragonare senz'altro ad una estensione della Costituzione, una Costituzione sostanziale. Ma comunque, senza andare ad ipotesi di questo genere, è chiaro che sono le uniche norme dell'ordinamento e che sono vincolanti senza eccezioni per tutto l'ordinamento, ancorché anteposte al codice civile.
Ancora vorrei dire, su questo, che la formulazione ripetuta di queste norme deve richiamare l'attenzione dell'interprete. Sono norme di divieto: non si può, ecco, non applicare la legge; “non si può”. “Non si può”. Due volte fu ripetuto, nel 1865 e nel 1942, e mai è stato modificato. “Non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore”, oggetto del suo secondo quesito. Questo è molto vincolante perché sono norme di divieto. E perché? Perché vuole, il legislatore, resistere alla tentazione – che a ogni passo della nostra storia giudiziaria e quella di altri paesi subisce l'interprete – di cercare di evadere da questo contenuto letterale della legge; è la tentazione di trovare motivi, ora abbastanza apparentemente forti, ora arrampicamenti come in qualche caso si è verificato, per evadere dalla legge. Ecco perché la formulazione negativa, la formulazione di divieto; le preleggi ci dicono: «bada bene, interprete, che non devi evadere dalla legge; se poi non trovi chiarezza nella legge stessa e vai alla ricerca di una ratio, allora devi stare attento che la ratio può valere per casi veramente analoghi, ma con divieti molto precisi». Il primo divieto è quello delle leggi penali, che qui non ci riguarda; il secondo è quello delle norme eccezionali o derogatorie rispetto ad un principio; il terzo è quello del libero esercizio dei diritti.
Vengo subito a questo, ma vorrei premettere (se mi è lecito perché ho paura di dimenticarmene dopo) che nel caso nostro, nel caso che oggi è sottoposto alla Giunta delle elezioni, l'eccezione deriva chiaramente dal criterio dell'associazione dei seggi tra liste concorrenti effettuata in ragione proporzionale con l'eventuale appropriazione del premio. Se il principio per il Senato è quello proporzionale, non può essere altro. Il fatto che, come ho letto in qualche memoria diversa, si dice: «sì, ma proporzionale vuol dire con tutto il suo carico di soglie di sbarramento ed altro», non mi pare che sia giusto. Mi pare che la soglia di sbarramento sia chiaramente una eccezione a questo principio proporzionale che è stato sancito a ragion veduta. Si dice tanto che questa legge non sia chiara: ricordo le dichiarazioni dell'onorevole Bressa che la votò nella legislatura precedente, riportate nella relazione del senatore presidente Manzione. Questo può anche essere vero (non lo so perché non l'ho studiata completamente a fondo, ma, insomma, può essere vero che ci siano delle norme non chiare, immeritevoli, anche cattive); ma se ci sono delle norme chiare sono quelle degli articoli 16 e 17. Sono di una chiarezza ineccepibile, del resto, a proposito del terzo quesito, avremo occasione di esaminarlo.
Chiedo scusa per questo excursus e ritorno non all'articolo 12 ma all'articolo 14: rispetto all'articolo 3 delle disposizioni sulle leggi in generale del codice del 1865, il 12 rimane intatto nella sua forma precisa. Invece, l’articolo 14 reca quella differenza di cui alla domanda, diciamo finale della prima parte, enunciata dal presidente Manzione.
Prima di tutto, nel 1942 era difficile parlare; era difficile che in regime fascista, per quanto permeato da molte posizioni di matrice liberale, era difficile che si potesse proclamare l'esercizio del diritto. Ricordiamoci che era uno Stato autoritario se non totalitario: non pronunciava mai le parole "diritto" o "esercizio di un diritto"; era lo Stato che decideva al posto dell'individuo, almeno in linea di principio.
È chiaro che non le poteva trasferire, come tutte le altre ereditate dal 1865, nelle preleggi. Ma oggi siamo in un regime costituzionale completamente diverso che esalta invece i diritti individuali, che esalta, quindi vuol proteggere, il loro libero esercizio. Noi ci troviamo in presenza di una norma, che - mi sia permesso di dirlo anticipando forse qualche cosa - che è chiaramente restrittiva di un diritto fondamentale, quello di elettorato passivo; perché mi dovete togliere questo diritto quando non mi è tolto dalla legge, come invece è tolto nel caso del raggiungimento o del superamento del limite del 55 per cento e soltanto per una ipotesi? Perché me lo dovete estendere?
Perciò questa norma è sia eccezionale che restrittiva dell'esercizio dei diritti ma, dalla sua domanda, ho percepito una... voglio dire una indicazione ma insomma, un pensiero molto interessante. In ogni caso, nel nostro ordinamento - interpretato secondo i princìpi costituzionali o, più in generale, secondo i princìpi generali – la restrizione al libero esercizio dei diritti, se tali sono, è una eccezione; è a sua volta una norma eccezionale. Non c'è stato bisogno di aggiungere “libero esercizio dei diritti” perché in un regime costituzionale come il nostro... ecco, la regola generale è questa.
Ora, circa indicazioni specifiche di sentenza della Corte Costituzionale, non ero particolarmente preparato su questo punto e non le potrei citare così, a memoria; però, posso dire che tutto lo spirito della giurisprudenza costituzionale, attraverso i suoi cinquanta anni di vita, è certamente nel senso di considerare, alla stessa stregua di quello che è stabilito per le norme eccezionali, la norma della restrizione del libero esercizio dei diritti.
Quindi, io per ora per non azzardarmi avrei risposto al primo quesito e passerei dunque al secondo. L'articolo 12 delle preleggi dice, nel primo comma, non solo quello che ho letto prima «proprio delle parole secondo la connessione di esse», ma “dalla intenzione del legislatore”. Da moltissimo tempo, da cent'anni, in gran parte della dottrina (quella civilistica, dei commentatori, dei trattati), si condanna questa “intenzione del legislatore” come una intrusione e si fa appello ripetutamente alla oggettività nella quale deve collocarsi la norma, al suo contenuto oggettivo che si distacca dal legislatore. E questa critica, alla posizione dell'intenzione del legislatore, è fatta anche adducendo un ragionamento: "ma sono norme desuete, il legislatore c'era un tempo, il legislatore c'era quando c'era il sovrano, quando c'era l'imperatore ecc.". Io ho premesso di non essere affatto di questo avviso. L'intenzione del legislatore, che è stata conservata nelle preleggi, ha una sua validità.
Quanto vado dicendo c'è nell'intenzione del legislatore; vedremo poi se si integra con la prima richiesta o meno, ma c'è certamente. Perché non si deve rispettare? Come, si rispettava il sovrano, si rispettava l'imperatore, si rispettava il potere assoluto, ed ora non si dovrebbe rispettare il potere parlamentare? Non è un legislatore il Parlamento? Quindi l'intenzione del Parlamento deve essere vista: quando è possibile vederla, quando c'è. Nel nostro caso non c'è una intenzione espressa del legislatore, però ci sono degli argomenti, a mio sommesso avviso validissimi, che sono quelli desumibili dalle discussioni avvenute nella Commissione affari costituzionali; nei voti più che nelle discussioni, nei voti intervenuti sia in Commissione affari costituzionali sia in Assemblea, con degli emendamenti che furono o non potettero essere discussi nel primo caso e che furono respinti nel secondo.
Perché questo non deve rientrare nel quadro delle intenzioni del legislatore? Certamente, cum grano salis, certamente l’intentio va composta con la prima parte; ecco, direi che si può tutt'al più concedere che la prima parte è primaria proprio, cioè che l'interpretazione letterale è primaria, anche rispetto all'intenzione del legislatore. L'intenzione del legislatore può essere chiamata in soccorso quando ce ne è bisogno o deve essere sempre vagliata: non va messa da parte, e può intervenire e aiutare quando... insomma deve concorrere, si integra completamente con la lettera della norma. Allora – anche dinanzi a quelli che dicono per interpretare, diciamo, l'intenzione del legislatore ci si deve distaccare, che si deve guardare al contenuto oggettivo – ribadisco che nel caso sottoposto oggi alla Giunta delle elezioni l'intenzione del legislatore sostanzialmente risulta da quella che è la lettera della norma: questa interpretazione per me va benissimo, è accettabile. C'è anche l'intenzione del legislatore che si può evincere dai lavori preparatori, ma comunque, se non si evince questa intenzione, non si può certo evincere quella contraria: domina su tutto il divieto di attribuire alla legge altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall'intenzione del legislatore.
E adesso dovrei, sento che debbo rispondere al terzo quesito.
Il terzo quesito ci porta subito in medias res, perchè ci porta al comma 6 dell'articolo 17. Ma vorrei premettere che per me, questo dell'articolo 17, è un argomento decisivo di conferma della interpretazione secondo la quale questa soglia di sbarramento del 3 per cento vale esclusivamente per i casi in cui dalle elezioni risulti che la lista che ha la coalizione vincente, ha raggiunto la soglia del 55 per cento o l'ha superata; ciò deriva dal raffronto totale e dall'esame letterale della norma dell'articolo 17, collegato all'articolo 16. Solo per il caso del superamento del 55% tale regola è espressa; solo lì è chiaramente detto; viceversa al comma 4°, che riguarda ciò che si è verificato nella Regione Piemonte e cioè che non si è raggiunto da parte della coalizione vincente il 55 per cento dei voti, non è menomamente ripetuto quel vincolo, quella regola vincolo non è ripetuta. Quindi già implicitamente, sempre stando all'articolo 12 delle preleggi, è chiaro che per quelle liste, per quelle coalizioni di lista - come quella che si è verificata nella Regione Piemonte che non ha raggiunto la soglia del 55 per cento - non vale quella esigenza di avere raggiunto, tutte le liste, il 3 per cento.
Questo già basterebbe; ma c'è l'articolo 17 al quale, giustamente, la Commissione, il Comitato inquirente, mi richiama. Ora l'articolo 17, è, in più passi, una conferma precisa e assoluta della interpretazione che esclude che per le coalizioni che non abbiano raggiunto il 55 per cento ci possa essere la soglia di sbarramento alle singole liste. Dice infatti: «l'ufficio elettorale regionale procede a una prima attribuzione provvisoria dei seggi tra le coalizioni di liste e le liste di cui all'articolo 16 comma 1 lettera b), in base alla cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna di esse e poi la procedura di divisione del totale».
Ora io osservo che questo richiamo espresso (ripetuto addirittura) all'articolo 16 comma 1 lettera b), ci porta in presenza di quel criterio base che è criterio dell'ammissione: esso è contenuto appunto nell'articolo 16 e si appaga del fatto che una delle liste della coalizione abbia raggiunto il 3 per cento. È una norma anche abbastanza razionale, insomma, perché è contro quei partiti scheggia ecc.: ma quella è la norma base, solo quella che basta che una delle liste della coalizione vincente abbia il 3 per cento. È richiamata espressamente: non capisco come taluno abbia potuto cercare di portare l'articolo 17 comma 6 a sostegno della propria tesi contraria, della propria tesi negativa. Ecco, tra l'altro, mi sembrava che ci fosse un richiamo proprio, adesso non lo riesco a trovare, ai commi 4 e 5 escludendo il comma 3; ma, comunque, se si vuole altro c'è bisogno di precisare. Non si può dire “le liste ammesse” genericamente e poi andarle a riempire secondo i propri criteri: no, la legge dice “le liste ammesse ai sensi” di quell'articolo 16 comma 1 lettera b). È una tale riprova - questo comma 6 - che depone non solo per un'interpretazione per me rispettosamente assolutamente univoca (non è possibile darne giuridicamente un'altra valida) ma conferma anche la bontà - la chiarezza direi meglio, bontà non spetta a noi giudicare in questo caso - la chiarezza di questo contesto che è perfettamente coordinato: l'articolo 16 per l'ammissione in generale, l'ammissione-base, l'articolo 17 comma 2 come premessa del comma 3 e del comma 4, con questa netta distinzione (“in caso di esito positivo”, cioè il 55 per cento, “in caso di esito negativo”) contrapposte. Ma quale analogia si può ravvisare - adesso mi lancio forse in un altro tema - ma quale analogia si può ravvisare tra due disposizioni? Due disposizioni che sono precedute con tanta chiarezza: in caso di esito positivo così, in caso di esito negativo in quest'altro modo… Non lo so. E il comma 6 è perfettamente coordinato, non c'è una scheggia del comma 6 che possa essere messa in contrasto con questa interpretazione. Chiedo scusa per essermi dilungato.

PRESIDENTE. Grazie professore. Chiedo ai colleghi se ci sono delle domande, se ci sono dei chiarimenti che vogliono essere posti al professore Vassalli che ha risposto ai quesiti che in qualche modo riprendevano le questioni che dai ricorsi e dalle memorie depositate sembravano quelli più evidenti. Se non ci sono domande da parte dei colleghi, io mi accingerei a leggere i quesiti specifici che il ricorrente, che non può partecipare a questa fase infraprocedimentale, ha comunque trasmesso al Comitato ai sensi dell'articolo 13 comma 3 del Regolamento di verifica dei poteri del Senato.
I quesiti sono i seguenti, anche se è chiaro che alcune delle questioni sono state già di fatto toccate. Primo quesito: «L'articolo 14 delle preleggi, come prima di esso avveniva con l'articolo 4 delle disposizioni sulla pubblicazione, interpretazione ed applicazione della legge in generale premesse al codice del 1865, deve intendersi nel senso che le disposizioni normative che pongono limiti e divieti al ius ad ufficium vanno sempre interpretati in senso restrittivo? È in questo senso che va letta la sentenza della Corte costituzionale n. 141 del 1996 relatore Guizzi, quando tra le altre sostiene che conformemente al principio costituzionale che assume a regola l'eleggibilità e configura l'ineleggibilità quale eccezione? Le norme che derogano al principio della generalità del diritto elettorato passivo sono di stretta interpretazione? In altri termini la giurisprudenza costituzionale considera possibile adottare l'analogia o l'interpretazione estensiva quando essa avrebbe per effetto la compressione di un diritto elettorale?».
Questo è il primo quesito. Il secondo: «Secondo la sentenza 2 novembre 1996 n. 379, relatore Mezzanotte, la tutela della Corte costituzionale che può essere investita in sede di conflitto di attribuzione dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro, garantisce le situazioni giuridiche lese sotto la vigenza del diritto parlamentare, il quale non potrebbe mai dare copertura ad attività poste in essere in violazione di diritti della persona. È corretto sostenere che la prevalenza, anche nelle Camere, della grande regola dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale, al quale sono normalmente sottoposti nel nostro sistema costituzionale tutti i beni giuridici e tutti i diritti, tuteli anche il ius ad ufficium illegittimamente conculcato?» Queste sono le due domande che l’onorevole Intini sottopone al Comitato, che non vi fa osservazioni, perché vengano lette a lei e se ritiene offra risposta, grazie.

VASSALLI. Dunque, la prima in sostanza l'abbiamo già toccata, perché non vi è dubbio che questa sentenza della Corte costituzionale del 1996 conferma proprio quello che abbiamo detto prima a proposito dell'eccezione e del divieto di analogia per le norme restrittive dei diritti. Dice proprio questo anzi, lo dice proprio specificamente: francamente non me la ricordavo, ma ora mi sovviene perché facevo parte della Corte, che statuì escludendo l’analogia in deroga appunto al principio della generalità del diritto elettorale passivo. È un principio fondamentale: nel quesito si parla di interpretazione restrittiva, ma basta dire interpretazione letterale; non è una interpretazione restrittiva, è una interpretazione letterale conforme a quello che abbiamo letto testé dell'articolo 12, 1° comma. Non mi sembra proprio che si possa definire restrittiva, perché è assolutamente da giustapporre all'articolo 12, 1° comma e 2° comma che esclude appunto l'analogia o l'interpretazione estensiva. Come piacque ai nostri giuristi medievali, si diceva sempre extensio, cioè insieme l'analogia e l'interpretazione estensiva: quindi questa parte del quesito mi pare giusta, extensio non fit in penalibus et in odiosis (perché le norme eccezionali in latino le chiamavano norme odiose, appunto perché fanno eccezione alla regola generale dell'uguaglianza di posizioni); allora quella norma che restringe che il diritto ad essere votati, ad essere eletti, per le liste che non abbiano raggiunto il 3 per cento è una norma che vale solo per quel caso lì e questo in base ad una interpretazione letterale conforme all'articolo 12 senza bisogno di parlare di interpretazioni in senso restrittivo. La sentenza Guizzi esalta come diritto fondamentale, come è giusto, il diritto elettorale e lo esalta proprio in questo diritto elettorale passivo che ha certamente una grandissima delicatezza. Quanto alla sentenza Mezzanotte - che leggo, anche questa era in un periodo in cui facevo parte della Corte, però anche questa non me la ricordavo - garantisce le situazioni giuridiche lese sotto la vigenza del diritto parlamentare. Adesso non ricordo quale era la questione concreta, però ricordo benissimo questa espressione.

PRESIDENTE. Era quella dei pianisti parlamentari.

VASSALLI. Ah certo, certo, era quella dei pianisti. Perfettamente. Il fatto si era verificato alla Camera.

PRESIDENTE. Alla Camera, sì… al Senato non accade certo.

VASSALLI. Ecco, è corretto sostenere che la prevalenza anche nelle Camere della grande regola dello Stato di diritto - e conseguente regime giurisdizionale al quale sono regolarmente sottoposti nel nostro sistema costituzionale tutti i beni giuridici e tutti i diritti - tutela, certamente a mio sommesso avviso, anche il ius ad ufficium dell'eligendo, diciamo.

PRESIDENTE. Se non ci sono quesiti ulteriori, ringrazio il professore Vassalli; dichiaro chiusa l'audizione e ringrazio i colleghi per la partecipazione. Grazie. Domani ore 14 per l'audizione che continua il programma deliberato.
La seduta termina alle ore 14,45.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE 2006
2ª Seduta

Presidenza del Relatore
MANZIONE

Interviene il professor Stefano Ceccanti.

La seduta inizia alle ore 14,05.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Colleghi buonasera. Il ciclo delle audizioni del Comitato inquirente prosegue con il professor Stefano Ceccanti, professore straordinario di Diritto pubblico comparato presso l'università di Roma "La Sapienza". Dal 1981 al 1987 fu prima Segretario nazionale, poi Vice presidente ed infine Presidente nazionale della FUCI- Federazione degli Universitari Cattolici Italiani. Ricercatore a Pisa, Roma, Trieste e Forlì ed ivi professore associato presso la facoltà di scienze politiche, fu chiamato come professore straordinario dalla facoltà di scienze politiche dell'Università La Sapienza di Roma a partire dal 2002. Nella X legislatura fu consulente scientifico presso la presidenza della Commissione bicamerale per le questioni regionali. Nell'XI legislatura fu consulente scientifico presso la vice presidenza della Commissione bicamerale per le riforme. Membro dal 2002 al 2003 del Consiglio di presidenza dell'Istituto Cattaneo e dal 2001 al 2004 del Comitato scientifico interdisciplinare della Società italiana di studi elettorali (SISE), dal 1° agosto 2006 è a capo dell'Ufficio legislativo del Dipartimento della Presidenza del consiglio cui è preposto il ministro dei diritti e delle pari opportunità.
Vi ricordo colleghi, che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell'11 ottobre scorso, con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto in ragione di un'esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell'onorevole Intini. Tale esigenza potrà utilmente essere soddisfatta con lo svolgimento, lungo tutto il mese di novembre, di audizioni di autorevoli docenti universitari in materie giuridiche ed elettorali, allo scopo di comprendere tutti i profili interpretativi sollevati in ordine all'articolo 17 della legge elettorale per il Senato. Come è noto, essa è stata modificata al termine della scorsa legislatura con scelte risultate controverse sia all'epoca, sia attualmente. Ma, ai nostri fini, è necessario soffermarsi soprattutto sulla questione dello sbarramento al 3 per centro e sulla sua applicabilità in sede di riparto infracoalizionale dei seggi. L'attività istruttoria è condotta da un organo previsto nell'articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri, cioè il Comitato inquirente. Si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per una questione di diritto, per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della Giunta di farsi un'opinione sulla vicenda. Operativamente rivolgerò al professore una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l'opportunità di rispondere immediatamente, indi, saranno possibili ulteriori domande o chiarimenti da parte di tutti coloro, mi rivolgo chiaramente ai colleghi, che sentiranno l'esigenza di ottenere ulteriori chiarimenti. Darò quindi, non facendosi osservazioni, integrale lettura delle domande fatte pervenire nei termini regolamentari dal ricorrente. Infine, il professor Ceccanti potrà replicare rispondendo alle domande rivoltegli e vi sarà la chiusura dei lavori.
Avverto che, come deliberato dalla Giunta, i lavori saranno oggetto di resocontazione integrale con il metodo della sbobinatura della registrazione che, a partire da ora, sarà attivata. Prego pertanto tutti i colleghi di sincerarsi che il microfono sia acceso, prima di prendere la parola.
Professore Ceccanti, la ringrazio per avere offerto la sua disponibilità a questa audizione.
La premessa della prima domanda riguarda la logica del sistema elettorale vigente a livello nazionale dal 2005. La dottrina, in sessanta anni di vigenza della Costituzione repubblicana, s'è rifatta alla logica intrinsecamente proporzionalista dei Costituenti per affermare che, pur nel silenzio della Costituzione in materia di sistemi elettorali, ci si dovrebbe allontanare dalla fedele trasposizione dei voti in seggi solo quando espressamente previsto dalla legge. Il sistema delineato dalla legge n. 270 del 2005 (premio di maggioranza e soglia di sbarramento) è indubbiamente un'eccezione a tutto ciò ed è quindi logico chiedersi fino a che punto operi questa eccezione; se cioè, in assenza di previsione espressa di legge, essa possa espandersi fino a disciplinare la possibile lacuna o se, in via di principio, l'eccezione ceda il passo alla regola generale. Esiste davvero, professor Ceccanti, un principio generale secondo cui effetti disrappresentativi - cioè distorsivi dell'effettiva rappresentanza - della volontà espressa dall'elettorato in assenza di previsione espressa della legge, sono inibiti?
Ammettendo comunque che tale principio sia derogato dalla legge n. 270 del 2005, la seconda domanda riguarda la necessità di ricorrere all'interpretazione logico-sistematica desumibile da questa legge. Il quesito che abbiamo già posto ieri anche al professor Giuliano Vassalli, è sostanzialmente questo: se l'interpretazione letterale è inequivoca, può il solo fatto che l'effetto sia sgradito all'interprete, giustificare il ricorso al sistema?
La terza domanda parte dalla tesi, sostenuta in dottrina, secondo cui il 3 per cento sarebbe il quoziente minimo più meritevole, al fine di far transitare una coalizione maggioritaria dal 50,01 al 55 per cento dei seggi. Si sostiene cioè che, in presenza dell'attribuzione del premio di maggioranza, la soglia di sbarramento non trova più la sua giustificazione: lo sbarramento cioè sarebbe razionale quando la coalizione vincente ha, per forza propria, superato il 55 per cento (quasi fosse un premio ai grandi partiti contro la frammentazione della rappresentanza parlamentare della loro coalizione); invece non lo sarebbe nel caso opposto. Sarebbe ammissibile una ratio legis che giudicasse immeritevole di essere difesa contro la frammentazione, grazie alla soglia di sbarramento, la coalizione che non ha avuto la forza di arrivare al 55 per cento? Si noti che tale immeritevolezza si estenderebbe sia alla coalizione vincente, che poi otterrebbe il premio di maggioranza, sia alla coalizione sconfitta.
Sono i punti centrali che sono contenuti - se lei ha avuto modo di leggere il documento che è stato approvato nella Giunta, e che li sunteggia - nel ricorso, nelle memorie aggiunte del ricorrente e nelle memorie che sono state depositate dal controinteressato (che quindi ha controdedotto rispetto al ricorrente).
Prego professore.

CECCANTI. Benissimo. Io ringrazio dell'invito e passo direttamente ai quesiti.
Ora, il primo quesito secondo me non è rilevante ai fini della decisione che noi dobbiamo assumere. In sintesi il primo quesito sottende un'idea: che si possa arrivare a fare scattare lo sbarramento nel caso contestato solo in forza di una analogia con le norme con la Camera e in assenza di una previsione espressa. Questa è la tesi sottesa alla prima domanda: non c'è una previsione espressa dello sbarramento, ma si applica lo sbarramento solo perché facciamo un'analogia della Camera.
Ma io rigetto questa interpretazione perché, secondo me, l'attributo "ammesse", nella frase "delle liste ammesse", è un vincolo di testo puntuale, preciso, letterale. Che poi, diciamo, è reso complicato dall'errore di drafting per cui dopo "liste ammesse" si cita lo "sbarramento di coalizione", può essere; ma nondimeno, quella parola - "liste ammesse" - c'è e secondo me “liste ammesse” vuol dire “liste che sono ammesse perché hanno superato lo sbarramento di lista”. Quindi, se si vuol dire che in questa materia non si possano fare interpretazioni analogiche, si sfondano porte aperte. Io sono d'accordo che non si possono fare interpretazioni analogiche: infatti io non mi baso su nessuna interpretazione analogica; io mi baso su un'interpretazione letterale di una norma pur scritta male.
Seconda questione. La seconda questione è un trascinamento della prima. Dice: si può procedere a varie tecniche interpretative quando l'espressione è inequivoca? Il problema è questo: un minimo margine di equivoco c'è nel testo, altrimenti, peraltro, non saremmo riuniti qui; ma esso è dovuto al fatto che accanto alla dizione precisa "liste ammesse" - che secondo me significa liste ammesse perché hanno superato lo sbarramento di lista - c'è poi il rinvio sbagliato allo sbarramento di coalizione. Nessuno è in grado di spiegarmi cosa vuol dire "liste ammesse" se non che sono liste che hanno superato lo sbarramento di lista; quindi tutti coloro che sostengono altre interpretazioni devono dirmi che significato ha la parola “ammesse” e fin qui nessuno la cita quasi mai; ascolto sempre molto volentieri Radio Radicale, però a Radio Radicale non si parla mai dell'attributo "ammesse" che sta in quel comma.
Ma nondimeno "liste ammesse" c'è; allora, in questi casi, siccome esistono dei margini di dubbio, dobbiamo ricorrere a delle tecniche interpretative. La tecnica interpretativa analogica è preclusa e quindi di essa non mi occupo. Accanto all'interpretazione letterale l'altro criterio interpretativo, che invece non è precluso, è il criterio sistematico-finalistico. Cioè questa norma nell'ordinamento, nel sistema delle leggi elettorali, come si colloca? Si colloca in un sistema di leggi elettorali in cui noi abbiamo per i Comuni sopra i 15.000 abitanti, per le Province e per le Regioni tutti sistemi proporzionali; lasciamo a parte la Camera che si trascina dietro il discorso “analogia”; sta nella stessa lista, ma non mi occupo della Camera. Parlo dei Comuni, delle Province e delle Regioni; in tutti e tre questi casi, le altre leggi a premio di maggioranza, lo sbarramento è sempre e comunque del tutto indipendente dal premio. Nella legge elettorale comunale - ora trasfusa nel testo unico - c'è uno sbarramento del 3 per cento che scatta a prescindere dal fatto che sia definitiva la prima applicazione provvisoria senza premio o si debba ricorrere a puntellare il sindaco eletto col premio. Lo stesso accade puntualmente nello stesso testo unico rispetto alle elezioni provinciali: sia che si dia la proporzionale perché non c'è bisogno del premio, sia che si ricorra al premio, lo sbarramento scatta sempre e comunque a prescindere dal premio. Nelle Regioni abbiamo addirittura tre tipologie di premi diversi: l'intero listino, metà listino, i seggi aggiuntivi; in qualunque di questi tre casi lo sbarramento si applica sempre e comunque a prescindere da quale dei tre premi scatti.
Quindi, dal punto di vista sistematico tutte le altre leggi a premio di maggioranza - non mi occupo della Camera - prevedono che lo sbarramento scatti sempre e comunque a prescindere dal premio. In termini finalistici questo vuol dire che le due finalità sono diverse: il premio serve a garantire a chi vince le elezioni la maggioranza garantita in seggi; lo sbarramento serve a garantire che l'assemblea non sia frammentata. Certo, poi queste due misure convergono in un quadro di stabilità, ma sono due misure che l'analisi sistematica ci dimostra essere del tutto autonome.
Terzo aspetto. Nel tentativo di trovare una ratio, che deve pur sempre esserci, all'idea che lo sbarramento e il premio siano in qualche modo agganciati fra di loro, si ricorre a quella che è una regolarità statistica ma che non è una norma, perché mi si dice: se hanno vinto di poco e quindi hanno avuto il premio, allora le liste piccole - che, vincendo di poco, sono state determinanti - non devono essere penalizzate, non devono avere lo sbarramento. Ma questa è una regolarità statistica; può benissimo darsi che io abbia vinto di poco ma che mi sia basato solo su liste grandi. Posso avere quattro liste dal 10 per cento e una dal 9 per cento e aver vinto con una coalizione di questo tipo. Non è affatto detto che io abbia avuto bisogno, per vincere di poco, nella competizione tra coalizioni, di liste piccole. Al rovescio non è affatto detto che io per vincere di molto, superando il 55 per cento, non debba aver avuto bisogno di liste piccole perché il primo riparto si fa tra coalizioni, quindi posso aver superato il 55 per cento dei seggi anche grazie ad una lista dell'uno per cento.
Quindi, stiamo applicando una regolarità statistica – è più frequente che si vinca di poco grazie a liste piccole che no – non una regola giuridica. Io a priori non lo so che cosa accadrà con la regola e la regola è strutturata apposta per svincolare la logica del premio da quella dello sbarramento. Quindi anche questa terza domanda in realtà non è risolutiva per cancellare la tesi secondo cui - pur in presenza di quel rinvio inopportuno, improprio allo sbarramento di coalizione - il punto chiave dell'interpretazione poggia sull'attributo nella frase "liste ammesse": nessuno è in grado di cancellarlo e porta a un'applicazione dello sbarramento sempre e comunque a prescindere dal fatto che il premio scatti.

PRESIDENTE. Grazie Professore. Se i colleghi non hanno domande io mi devo limitare a formalizzare le domande che invece sono state inviate dal ricorrente. In questo caso non voglio operare nessuna interpretazione, voglio essere un fedele notaio delle questione che il ricorrente, nella specie l'onorevole Intini, ha voluto le venissero sottoposte. Allora le leggo: “Dopo l'intervento stampa del 1° novembre 2005 del professor Alessandro Pace sui difetti della legge elettorale in elaborazione, Le consta che si sia sviluppato un dibattito nell'ambiente accademico sulla migliore modalità di correggere il testo? Le consta se fra i drafters del Gruppo della Margherita in Senato tale dibattito sia stato raccolto e se il tentativo di emendare il testo licenziato dalla Camera, con l'introduzione della soglia di sbarramento in Senato anche nel caso in cui fosse scattato il premio di maggioranza, sia stato considerato indispensabile ad evitare che il riparto coinvolgesse anche le liste sotto soglia?” Chiaramente qua c'è il riferimento all'emendamento Mancino che venne presentato; i colleghi che erano presenti in quella legislatura lo ricordano.
Seconda domanda, professore. “Come legge, sotto il profilo ermeneutico, di rilevanza degli atti parlamentari, il fatto che l'emendamento 4.81 dei senatori Mancino ed altri, che tendeva a sostituire le parole «ammesse al riparto ai sensi dell'articolo 16» con le altre «che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi», non sia stato dichiarato inammissibile né dalla Presidenza della Commissione, né dalla Presidenza del Senato, come invece prescritto quando un emendamento è privo di reale portata modificativa del testo?”
Queste sono le due domande che il ricorrente ha trasmesso al Comitato inquirente perché venissero sottoposte al professore Ceccanti.

CECCANTI. Mah, diciamo che fondo le due domande in una. Ora è evidente che dal punto di vista della opportunità è molto meglio, come direbbe Catalano, avere una norma scritta meglio che una norma scritta peggio: quindi giustamente la norma è stata dichiarata ammissibile perché scriveva meglio quello che già c'è scritto. Ma quello che già c'è scritto comunque c'è scritto. Da questo punto di vista io trovo radicalmente convincente quello che ha scritto il qui presente relatore Pastore in aggiunta al resoconto del 28 novembre 2005 quando diceva, in risposta a questi problemi (certo diciamo, lui lo faceva per evitare che la legge tornasse alla Camera e che avesse poi una nuova approvazione, quindi aveva un'esigenza politica sua che non è la mia, però devo dire che Pastore spiega benissimo il fatto che è risolutiva l'interpretazione letterale pur di una lettera scritta male): "non avrebbe alcun senso né alcun effetto giuridico parlare di liste ammesse a riparto e poi non applicare lo sbarramento, per applicarsi solo alle coalizioni sopra soglia già ammesse come tali a riparto stesso nel comma precedente". A me sembra questo risolutivo. Dopodiché io l'emendamento lo avrei votato e approvato perché così ci saremmo anche risparmiati questa audizione, tutti i problemi e anche la legge... io fra l'altro faccio parte del comitato che la vuole abrogare per cui non ho problemi. Però il fatto che l'emendamento non sia stato approvato non vuol dire che quelle ragioni non abbiano trovato una puntuale risposta, secondo me convincente, da parte del relatore in Aula; è vero che gli atti preparatori non sono un elemento del tutto risolutivo, ma comunque dicono alcune cose e secondo me le dicono convincentemente.

PRESIDENTE. Grazie. Se non ci sono domande per il professore si chiude qui l'audizione del professor Stefano Ceccanti (il quale consegna una breve memoria scritta riassuntiva della sua posizione); lo ringraziamo ancora una volta per la sua disponibilità.

La seduta termina alle ore 14,25.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MERCOLEDÌ 15 NOVEMBRE 2006
3ª Seduta

Presidenza del Relatore
MANZIONE

Interviene il professor Fulco Lanchester.

La seduta inizia alle ore 14,05.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. - Onorevoli colleghi, il ciclo di audizioni del comitato inquirente continua con l’autorevole figura di Fulco Lanchester, professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato nella facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. Il professor Lanchester è coordinatore del dottorato in teoria dello Stato ed istituzioni politiche e comparate, è direttore del master in istituzioni parlamentare europee e storia costituzionale.
È stato Presidente del corso di laurea in giurisprudenza della facoltà di giurisprudenza di Catanzaro, direttore del dipartimento di teoria dello Stato ed è dal 1999 preside della facoltà di scienze politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”. È membro dei comitati scientifici delle riviste “Quaderni costituzionali”, “Rassegna parlamentare” e rivista “Derecho constitucional europeo”; è coordinatore della rivista “Nomos”, edita dall’Istituto Poligrafico dello Stato.
Vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell’11 ottobre scorso, con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto, in ragione di un’esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell’onorevole Intini. Tale esigenza potrà utilmente essere soddisfatta con lo svolgimento, lungo tutto il mese di novembre, di audizione di autorevoli docenti universitari in materie giuridiche ed elettorali allo scopo di comprendere tutti i profili interpretativi sollevati in ordine all’articolo 17 della legge elettorale per il Senato.
Come è noto essa è stata modificata al termine della scorsa legislatura con scelte risultate controverse sia all’epoca sia attualmente, ma ai nostri fini è necessario soffermarsi soprattutto sulla questione dello sbarramento al 3 per cento e sulla sua applicabilità in sede di riparto infracoalizionale dei seggi. L’attività istruttoria è condotta da un organo previsto dall’articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri, cioè il comitato inquirente.
Si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per una questione di diritto, per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della Giunta di farsi un’opinione sulla vicenda. Operativamente rivolgerò al professore, preventivamente informato del contenuto anche delle altre audizioni, una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l’opportunità di rispondere immediatamente, indi saranno possibili ulteriori domande da parte di tutti i colleghi che tra i presenti sentiranno l’esigenza di chiarimenti.
Non darò lettura dei quesiti proposti dal ricorrente come invece è accaduto nella scorsa audizione, non essendo da lui pervenuta alcuna richiesta, come l’ufficio mi conferma.
Infine, il professor Lanchester potrà replicare rispondendo alle domande rivoltegli e vi sarà la chiusura dei lavori. Avverto, infine, che - come deliberato dalla Giunta - i lavori saranno oggetto di resocontazione integrale con il metodo della sbobinatura della registrazione che a partire da ora sarà attivata. Prego pertanto a tutti gli oratori di sincerarsi che il microfono sia acceso prima di prendere la parola.
Esaurito questo preliminare lunghissimo, professore vengo alle tre domande.
La prima domanda che intendo rivolgere al professor Lanchester parte dalle indicazioni della Corte Costituzionale, contraria alla analogia in malam partem in materia elettorale. Essa non appare contestata neppure da chi resiste al ricorso eppure occorre chiarirne la portata. Si riferisce ai soli requisiti soggettivi ed oggettivi per essere eletti oppure include anche le operazioni di calcolo successive allo scrutinio delle schede e culminanti nella proclamazione degli eletti? Il primo, come è noto, è l’istituto dell’elettorato passivo, mentre il secondo è considerato più genericamente il jus ad officium, inteso come il coacervo dei fatti e degli atti che attribuiscono al candidato la possibilità giuridica di conseguire la carica.
La seconda domanda riguarda la lacuna legis in presenza della quale si sostiene che deve prevalere la logica del sistema delineato dalla legge n. 270 del 2005 (premio di maggioranza e soglia di sbarramento); ma l’articolo 1, comma 2, della legge elettorale per il Senato, come modificata nel 2005, statuisce che “l’assegnazione dei seggi tra le liste concorrenti è effettuata in ragione proporzionale con l’eventuale attribuzione del premio di coalizione regionale”: allora è corretto dire che anche la clausola di sbarramento appartiene ai princìpi del sistema delineati dalla legge? O non è forse eccezionale - rispetto al principio proporzionale statuito in testa alla legge - proprio con la clausola di sbarramento al 3 per cento, che quindi sarebbe destinata ad operare solo nel caso in cui è espressamente previsto?
La terza domanda riguarda l’insufficienza dell’interpretazione letterale. Può esserne prova solo un’aporia, una contraddizione interna alla norma, oppure può dimostrarlo anche il fatto che il meccanismo delineato dalla norma non è in concreto applicabile? Nella fattispecie, ella ritiene che sia questo il caso della soglia del 3 per cento delle Regioni in cui è scattato il premio di maggioranza al Senato?
Prima di cedere la parola al professore Lanchester consentitemi di spendere una parola nei confronti del collega che oggi si è sentito male in Aula e che di solito partecipa alle nostre riunioni. Io sono stato direttamente in infermeria dovevano praticargli dei punti. Siamo vicinissimi a lui.
Prego, professore.

LANCHESTER. Ringrazio prima di tutto il Presidente, la Giunta e il Comitato inquirente per avermi convocato. Devo dire che mi sono sentito a casa perché mi avete convocato con un telegramma alla “Sapienza”; venendo dalla “Sapienza” e sapendo che questa è stata la sede dell’università fino al 1935, si sono rafforzati così ancora di più i rapporti fra l’Università e il Senato della Repubblica.
Devo dire in premessa che riunirò questi tre interrogativi facendo riferimento al parere che ho espresso quando ancora gli uffici elettorali regionali non avevano reso note le loro determinazioni; farò ulteriori osservazioni sia sul problema della interpretazione dell’articolo 16 e dell’articolo 17, sia in relazione al tema generale della difficile innovazione istituzionale in Italia (in particolare prima e dopo le elezioni).
Ribadisco che esiste una difformità nel meccanismo di ripartizione dei seggi nel caso che la coalizione di liste o la lista vincente abbia o meno ottenuto il 55 per cento e nel primo caso la ripartizione avviene tra le liste che abbiano ottenuto il 3 per cento dei voti sui validi espressi; nel secondo questa previsione viene meno eliminando ogni soglia di sbarramento; la mia interpretazione - sia prima della decisione degli uffici elettorali regionali, sia adesso - è che l’unica interpretazione consentita in questa situazione (poiché il meccanismo è applicabile ai sensi dell’articolo 17) è quella letterale.
Tutti gli altri tipi di interpretazioni sono un arrampicarsi sui vetri o un derapaggio. Vorrei dirvi – in tema di analogia, Corte Costituzionale, lacuna legis, insufficienza dell’interpretazione – che la mia idea, per essere molto chiaro, è che in materia elettorale ci si trova di fronte alla descrizione di un meccanismo: un meccanismo descritto attraverso una serie di simboli e di segni, che devono essere sufficienti a farlo funzionare; questo meccanismo funziona anche senza la clausola del 3 per cento, e quindi deve essere immediatamente applicabile. Con gli altri tipi di interpretazioni che i colleghi Luciani e Ceccanti hanno individuato - quella sistematica e logico teologico o quella sistematico-finalistica - beh, in realtà si crea, si crea ciò che il legislatore avrebbe dovuto inserire, ma non ha inserito. Sia Ceccanti, sia Luciani sostengono che c’è stato un drafting insufficiente; invece c’è stata una scelta molto precisa, perché gli uffici da quanto ho letto dai lavori preparatori - ma anche dalla relazione nel vostro schedone - gli uffici hanno avvertito il legislatore che c’era questa differenza fra l’articolo 16 e l’articolo 17 e allora il problema è stato semplicemente che il legislatore non ha avuto tempo o non ha voluto, quindi modificare il testo dell’articolo 17.
Non avendo voluto modificare il testo dell’articolo 17, ha fatto una scelta e quella scelta si è autonomizzata nel testo dell’articolo 17 così come è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Tutti gli altri interventi - quelli che sono stati operati sul sito del Ministero dell’Interno e, a cascata, dagli organi amministrativi del procedimento elettorale - in realtà sono interventi indebiti di tipo emendativo-amministrativo che violano la Costituzione per quanto riguarda il procedimento legislativo e le garanzie, appunto, dei diritti politici. Qui rientriamo nel problema dell’articolo 51 della Costituzione ma, ritorniamo, poi, all’articolo 72 comma quarto, della Costituzione, recante una riserva di Assemblea relativa al procedimento elettorale. Se si adottano criteri come quelli che alcuni vorrebbero adottare, saranno gli uffici amministrativi che redigeranno le leggi elettorali; mi sono permesso di presentare a questo Comitato non soltanto un parere aggiuntivo, ma anche una analisi sui diritti di partecipazione politica nell’innovazione istituzionale incrementale italiana. Ciò per dire che questo è un problema che sta diventando estremamente grave per il nostro ordinamento e soprattutto per la nostra democrazia a basso rendimento: il procedimento elettorale sta assumendo degli standard inferiori a quelli degli ordinamento democratici stabilizzati.
Ciò che era stato costruito, dai nostri padri o dai nostri nonni, negli anni ’40, ’50, ’60 e ’70, si sta lievemente sfarinando e sgretolando in molte parti della procedura. Trovo che anche questo sia uno dei problemi che si inserisce all’interno di questo quadro, per cui ribadisco: interpretazione letterale, perché qui bisogna evitare che vi sia possibilità di interpretazioni libere – sul tipo di quelle anni ’30 – delle leggi fondamentali dell’ordinamento. La legge elettorale, qualsiasi sia il suo tipo di copertura a livello normativo (costituzionale o meno), è una norma di regime e se il potere esecutivo ha la possibilità di modificare l’azione durante il suo svolgimento - anche semplicemente attraverso un emendamento amministrativo, un’azione emendativa amministrativa - questo è molto pericoloso. Credo di aver occupato anche troppo tempo.

PRESIDENTE. No, no, professore; anzi, la prego, se ritiene che ci siano altri temi da approfondire; i colleghi penso che stiano cogliendo con grande attenzione le osservazioni che lei stava sottoponendo al Comitato.

LANCHESTER. Mi sono anche allargato troppo, se lei e i suoi colleghi, avete osservato con attenzione i pareri; io ho fatto il parere di un pagina e, cioè, semplicemente, come il meccanismo funziona e come deve essere interpretato.
Le cinquanta pagine di altri colleghi sono estremamente interessanti e ne terrò conto nel mio prossimo saggio. Ma l’elemento essenziale dal punto di vista dottrinario non è questo: dal punto di vista dell’interpretazione della legge, il meccanismo funziona. Il meccanismo funziona con l’interpretazione letterale e quindi non ci debbono essere dubbi o non ci dovevano essere dubbi per gli uffici nell’applicazione della norma così come descritta all’articolo ...

PRESIDENTE. Grazie professore, invito i colleghi che lo ritenessero … il collega Pastore, altri? La parola al collega Pastore, prego. Era relatore del disegno di legge in Senato, il collega Pastore.

PASTORE. Io convengo nella seconda parte della sua relazione, sul punto che il procedimento elettorale non dev’essere lasciato in mano a fonti normative di grado inferiore alla legge ordinaria. E quindi questo deve essere anche una sollecitazione per noi legislatori e per quelli che verranno a tener conto di questo elemento, più o meno importante.
Sul primo punto volevo semplicemente un chiarimento. Indubbiamente la interpretazione letterale prevale su qualsiasi altra forma interpretativa, però questo vale, almeno, io ritengo che valga, se l’interpretazione letterale è un’interpretazione che non dà luogo a dubbi, non è contraddittoria, non dà luogo a distorsioni applicative particolari.
Ora la formulazione di quella norma è una riformulazione indubbiamente non felice. Il chiarimento che mi piacerebbe avere è sapere se lei ritiene che quella formulazione sia così chiaramente espressa da non destare alcun dubbio tale da comportare, comunque indurre ad applicare altri criteri ermeneutici quali quelli....

LANCHESTER. Senatore Pastore la ringrazio per la domanda; tra l’altro, il professor Luciani parla di drafting legislativo che lascia alquanto a desiderare, mentre Ceccanti lo definisce in maniera varia, imperfetto, non felice, come lo ha definito lei adesso, effettivamente scadente e incerto.
In realtà il drafting legislativo, nonostante gli sforzi interni alle Camere e qualche corso universitario, è molto spesso incerto. Anch’io ho dovuto, ma credo anche molte altre persone, rileggere più volte la legge elettorale e gli articoli 16 e 17, farmene lo schemino; ma alla fine, mi sono convinto proprio attraverso una serie di passaggi che l’interpretazione letterale è sufficiente. Certo, convengo con lei che per la legge elettorale ci dovrebbe essere la massima chiarezza, anzi il sistema elettorale - ovvero il meccanismo di trasformazione in seggi - dovrebbe essere il più limpido e chiaro: non dovrebbe capirlo soltanto il relatore o gli esponenti dell’opposizione e poi quelli che lo applicano all’interno dei collegi, ma lo dovrebbe capire il cittadino.
E a questo punto devo dire che non solo questo sistema elettorale, ma tutti i sistemi elettorali dell’ultimo periodo sono molto oscuri. Tuttavia ribadisco che, nella relativa oscurità, l’interpretazione dell’articolo 17, attraverso l’interpretazione letterale, è sufficiente.

PRESIDENTE. Ci sono altre domande da parte dei colleghi? Collega Malan? La collega Negri?
Non ci sono altre domande e il relatore per abitudine non pone domande se non quelle iniziali, sennò probabilmente avrei voluto sentirla sui limiti delle varie interpretazioni, letterale, sistemica o sistematica e teleologica; però probabilmente ne troveremo traccia anche nei suoi scritti.
La ringraziamo e mettiamo agli atti le due memorie scritte da lei consegnate; ringrazio tutti i colleghi che hanno partecipato alla audizione; i lavori riprenderanno la settimana prossima con il seguito del programma di audizioni deliberato dalla Giunta.

La seduta termina alle ore 14,30.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MERCOLEDÌ 22 NOVEMBRE 2006
4ª Seduta


Presidenza del Relatore
MANZIONE

Interviene il professor Massimo Luciani.

La seduta inizia alle ore 14,10.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Saluto il professore Massimo Luciani, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico all’Università di Roma «La Sapienza», componente dell’associazione italiana dei costituzionalisti; nelle vesti di difensore ha rappresentato più volte la Camera dei deputati dinanzi alla Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzioni. È autore di varie monografie tra le quali: Articolo 75: referendum, Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale, La produzione economica privata nel sistema costituzionale.
Colleghi, vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell’11 ottobre scorso, con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto in ragione di un’esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell’onorevole Intini. Tale esigenza potrà utilmente essere soddisfatta con lo svolgimento lungo tutto il mese di novembre di audizioni di autorevoli docenti universitari in materie giuridiche ed elettorali, allo scopo di comprendere tutti i profili interpretativi sollevati in ordine all’articolo 17 della legge elettorale per il Senato.
Come è noto, essa è stata modificata al termine della scorsa legislatura con scelte risultate controverse sia all’epoca sia attualmente, ma ai nostri fini è necessario soffermarsi soprattutto sulla questione dello sbarramento al 3 per cento della sua applicabilità in sede di riparto infracoalizionale dei seggi. L’attività istruttoria è condotta da un organo previsto dall’articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri cioè il Comitato inquirente. Si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per la questione di diritto, per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della Giunta di farsi un’opinione sulla vicenda. Operativamente rivolgerò al professore Luciani, preventivamente informato del contenuto anche delle altre audizioni, una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l’opportunità di rispondere immediatamente. Indi saranno possibili ulteriori domande da parte di tutti coloro che, fra i presenti, sentiranno l’esigenza di chiarimenti. Infine il professore potrà eventualmente replicare rispondendo alle domande rivolte che vi sarà alla chiusura dei lavori. Avverto infine che come deliberato dalla Giunta i lavori saranno oggetto di resocontazione integrale e che di tali atti sarà data contezza ai successivi docenti che saranno chiamati, oltre che alle parti e a tutti i componenti della Giunta. Si tratta di atti redatti con il metodo della sbobinatura della registrazione che a partire da ora sarà attivata. Prego pertanto tutti i colleghi che desidereranno intervenire di sincerarsi preventivamente dall’attivazione del microfono.
Professore Luciani, la prima domanda che intendo rivolgerle è sull’insufficienza o non univocità della lettura della norma. La si può considerare questa come precondizione per il passaggio dalla interpretazione letterale a quella logico sistematica?
La seconda domanda riguarda la logica del sistema delineato dalla legge n. 270 del 2005. L’articolo 1 comma 2 della legge elettorale per il Senato, come modificata nel 2005, statuisce che l’assegnazione dei seggi tra le liste concorrenti è effettuata in ragione proporzionale con l’eventuale attribuzione del premio di coalizione regionale. Allora, se questo è il testo della norma, è corretto dire che anche la clausola di sbarramento appartiene ai princìpi del sistema delineati dalla legge?
La terza domanda, che intendo rivolgere al professore Luciani, parte dalla seguente affermazione contenuta nel parere da lui reso nell’interesse del senatore Turigliatto: “La locuzione liste ammesse, contenute al comma 6 dell’articolo 17, è la medesima locuzione prevista al comma 3 per l’ipotesi di Regione in cui è stato raggiunto il 55 per cento, per cui, tale qualificazione non può avere altro senso che quello di confermare la volontà di assegnare i seggi alle sole liste che abbiano superato il 3 per cento dei voti validi” (pagina 5). A dire il vero, nel comma 3 la parola «liste» ricorre due volte. Nel primo periodo si legge: «individua nell’ambito di ciascuna coalizione di liste collegate di cui all’articolo 16, comma 1 lettera b) n. 1, le liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale almeno il 3 per cento dei voti validi espressi». Nel secondo periodo si legge: «procede quindi per ciascuna coalizione di liste al riparto fra liste ammesse dei seggi».
Quindi la locuzione “liste” contenuta nel primo periodo è funzionale alla clausola di sbarramento al 3 per cento ivi espressamente prevista. Quando il secondo periodo invece parla di “liste ammesse” sarebbe possibile argomentare che si tratti delle liste che risultano ammesse in virtù dell’applicazione dello sbarramento fatto ai sensi del precedente periodo? Se così è il parallelismo con il comma 6 sarebbe incongruo, visto che qui invece non c’è nessuna menzione espressa dello sbarramento al 3 per cento e quindi, per liste ammesse deve intendersi qualcosa di diverso: potrebbe essere allora la necessità di sincerarsi che la coalizione abbia al suo interno almeno una lista che ha superato il 3 per cento, secondo quanto previsto dall’articolo 16, comma 1, lettera b) n. 1?
A lei, professor Luciani.

LUCIANI. Sì, la ringrazio, signor Presidente. Ringrazio anzitutto il Comitato inquirente nella sua persona per questo invito - e ovviamente la Giunta in persona del suo Presidente - per avermi consentito di ulteriormente argomentare su questa delicatissima e interessantissima questione di diritto. La risposta ai tre quesiti probabilmente si intreccerà, in qualche modo.
Muoviamo ovviamente dal primo quesito se vi sia un legame tra insufficienza o non univocità della lettera della norma e passaggio, diciamo così, ad un’interpretazione di tipo logico-sistematico. Dico la verità che noi giuristi - il senatore Manzione lo sa molto bene, molto meglio di me - noi giuristi utilizziamo tutti gli strumenti interpretativi che ci sono consentiti dalla logica del diritto, ovviamente movendo dal testo. Moviamo dal testo - lo dico con particolare convinzione - perché sono convinto scientificamente che il testo sia assolutamente fondamentale e che discostarsi dal testo possa condurre a soluzioni non convincenti.
Ma è proprio il testo, qui, che ci suggerisce di percorrere certe strade. Proprio negli scritti che sono stati acquisiti dalla Giunta - e immagino ovviamente anche dal Comitato - ho cercato di mettere in luce alcuni elementi testuali che mi sembravano particolarmente interessanti: il comma 6, dell’articolo 17, indiscutibilmente parla di liste ammesse al riparto. Se c’è dunque una disposizione che parla di liste ammesse al riparto debbono esistere delle liste non ammesse al riparto; allora il mio compito di giurista è esattamente questo: cercare di dare un senso alle parole del legislatore.
Qui non c’è un discostamento dal testo della legge; anzi, c’è una valorizzazione del testo della legge. Trascurare questo elemento significa invece discostarsi dal testo. È il testo dunque che mi dice di identificare il significato di quest’espressione. Sottolineerei questo. Le preleggi non ne parlano, ma è un criterio presupposto e universalmente riconosciuto in tutti gli ordinamenti - e nella giuria generale del diritto - che il primo criterio guida per l’interprete di una disposizione normativa è il seguente: dare significato al testo, cercare di estrapolare, evidenziare quali sono i significati manifestati da quel significante.
Allora questo è il primo punto. Ho preso le mosse da un’interpretazione di tipo letterale. Non c’è stato dunque un passaggio - e non credo che si debba parlare di un passaggio - ad una interpretazione logico-sistematica, bensì credo che si debba parlare di una verifica. Ciò che è necessario in questa sede, in altri termini, è verificare se i risultati della interpretazione letterale siano o meno confermati dai risultati della interpretazione logico-sistematica. In altri termini non solo il testo deve avere un significato, ma deve avere anche un senso. Per quanto riguarda il secondo argomento relativo all’interpretazione letterale - che ho utilizzato nello scritto - certamente il terzo comma e il sesto comma non coincidono, ma entrambi parlano di liste ammesse.
E andiamo a leggere con attenzione il terzo comma; anche il terzo comma ha, se posso così dire, una menda. Non è redatto - mi permetto di dire in quest’Aula e mi scuserete, ma ormai l’ho scritto - non è redatto in modo cristallino; che cosa ci si dice? Nel primo periodo si dice che l’Ufficio elettorale regionale individua nell’ambito di ciascuna coalizione, ovviamente, le liste che abbiano conseguito almeno il 3 per cento.
Quindi fa solo questo, individua queste liste. Poi il periodo successivo mi dice che procede quindi per ciascuna coalizione di liste al riparto - tra le liste ammesse - dei seggi. Non c’è stata prima di questa un’operazione di ammissione, c’è stata solo un’operazione di individuazione. Anche questa disposizione normativa non sembra scritta in modo cristallino. Si potrà dire: però è un po’ più chiaro; può darsi, sarà un po’ più chiaro, ma certamente non ci troviamo di fronte ad un testo nemmeno qui che sia totalmente univoco: è per questo che mi sono permesso di sottolineare il fatto, che forse - se si accettasse l’altra interpretazione - non si dovrebbe discutere di uno o di otto seggi, ma forse di trecento.
Allora il punto è questo: interpretazione letterale che cosa significa? E lista ammessa? Ma su questo non mi soffermo, perché se no andrei oltre il limite che mi è stato tracciato dal Presidente, che mi aveva chiesto di parlare semplicemente del passaggio dall’interpretazione letterale all’interpretazione sistematica.

PRESIDENTE. Professore mi scusi, lei non deve assolutamente sentirsi vincolato o limitato dalle domande; le domande hanno solamente lo scopo di introdurre l’argomento, ma se lei ritiene che per approfondire la questione è necessario andare anche oltre le domande. In tal senso penso di interpretare la volontà dei colleghi: è preferibile che lei ci vada tranquillamente; non si preoccupi, prego.

LUCIANI. Molto bene, signor Presidente, la ringrazio. Appunto qui l’elemento interpretativo fondamentale riguarda la nozione di liste ammesse a riparto; qui mi sono permesso di mettere in luce la peculiarità dei richiami, dei rimandi fatti dalle varie disposizioni analizzate.
Il comma 6 non rimanda semplicemente all’articolo 16, né rimanda all’articolo 16 comma 1, e neppure rimanda all’articolo 16 comma 1, lettera b), ma all’articolo 16 comma 1, lettera b), n. 1; come mai? Ho l’impressione che qui si sia inteso in qualche modo - forse ellitticamente - fare rinvio all’articolo 16, comma 1, lettera b), n. 1, proprio perché solo lì dentro, solo nel n. 1, si parlava di liste che avessero ottenuto almeno il 3 per cento. In altri termini è necessario rinviare al n. 1, proprio perché solo lì si parlava di liste che avevano ottenuto il 3 per cento, e non è un caso invece che - come è messo in luce nello scritto - in altra occasione lo stesso articolo 17 non abbia rimandato al n. 1.
Secondo quesito: la logica della legge n. 270. Il Presidente chiedeva: ma per avventura questa logica non si esaurirebbe nell’accoppiata proporzionale più premio? Ovvero, in alternativa: la logica non ricomprenderebbe invece una triade proporzionale-premio-soglia; anzi per essere forse più precisi, “soglie”, perché sappiamo tutti che la legislazione del 2005 è stata una legislazione che ha determinato - come dire - l’affastellarsi, il sovrapporsi di numerosissime soglie differenziate a seconda delle varie disposizioni normative.
Ebbene, qual è la mia risposta? Certo, l’articolo 1, comma 2, prevede il sistema proporzionale più premio; non c’è dubbio. Ciò perché quello che interessava al legislatore in quel momento, credo, era la formalizzazione in modo forse particolarmente significativo e icastico della vera e propria rivoluzione che si era compiuta nel nostro sistema elettorale: passaggio dal sistema di tipo maggioritario con una correzione proporzionale ad un sistema di tipo proporzionale con - invece, se posso dire - una correzione a logica maggioritaria e cioè un premio di maggioranza in funzione di governabilità, di identificazione di una maggioranza stabile. Che poi questo meccanismo abbia funzionato o non abbia funzionato è altra cosa, che non interessa in questa sede.
Ora non è stato dunque necessario - in quel punto nell’incipit diciamo così della legge - menzionare forse anche lo sbarramento; ma a mio avviso lo sbarramento è perfettamente coerente. Lo sbarramento è coerente con una legge che ha, come intento, che cosa? Sì, certo, riproporzionalizzare, fare quella rivoluzione di cui abbiamo parlato prima – e cioè passare dal sistema tendenzialmente maggioritario al sistema essenzialmente proporzionale – ma con correzioni.
Ma queste correzioni, sono correzioni in alto e in basso, correzioni in alto e in basso; in questo senso, per un verso si vuole attraverso il premio di maggioranza far sì che la coalizione vincitrice acquisisca una confortevole maggioranza parlamentare ... che poi il meccanismo del premio al Senato non abbia consentito che questo si realizzasse, perché il premio è stato frammentato tra le varie Regioni (non è stato un premio nazionale) ...

PRESIDENTE. In prima previsione, invece, mi pare che fosse previsto lo stesso meccanismo per Camera e Senato.

LUCIANI. Certo, la prima previsione era questa. Vi sono stati dei dubbi di legittimità costituzionale. Confesso che questi dubbi forse si sarebbero potuti superare anche con un altro meccanismo, ma non credo che questo vi interessi perché, ormai come dire il risultato normativo...

PRESIDENTE. Quale sarebbe questo meccanismo?

LUCIANI. Anche se, diciamo, questo è al di fuori della vicenda specifica della quale ci stiamo occupando, ho l’impressione che quando la Costituzione impone la elezione del Senato su base regionale, non impedisca un meccanismo di questo genere: che si conteggino i voti acquisiti dalle singole liste o coalizioni su basi regionali che poi si sommino questi voti e che si determini a questo punto la coalizione o lista che ha ottenuto il maggiore consenso sul piano nazionale e che poi si conferisca questo premio nazionale distribuendolo su base regionale. A questo punto la distribuzione dei seggi avverrebbe su base regionale. È una tesi diciamo, che più volte mi è capitato di sostenere, ma - come dire - con il linguaggio colloquiale familiare è cosa fatta e capo ha. Ecco appunto, però, quello che mi interessava adesso era riprendere il filo del mio discorso e cioè vedere la correzione in basso; la correzione in basso a mio avviso è data proprio dallo sbarramento. Perché che funzione ha lo sbarramento?
Lo sbarramento ha la funzione di impedire l’accesso alla rappresentanza parlamentare dei cosiddetti partiti-scheggia. Ricordavo la dottrina tedesca non per germanofilia in particolare, ma perché si è maturato una importante giurisprudenza del Tribunale federale tedesco sugli splitter-partei. Questi partiti-scheggia, secondo una certa ricostruzione dottrinale e di teoria politica per l’appunto, mettono in discussione la stabilità delle coalizioni e quindi anche la stabilità parlamentare.
E allora il premio e lo sbarramento hanno in realtà logiche diverse ma che si coniugano in una, nel momento stesso in cui sono acquisiti come temperamenti sul sistema tendenzialmente proporzionale. Sicché penso che, con queste precisazioni, la mia risposta al suo quesito – signor Presidente – sia spero chiara.
La questione del rapporto tra comma 6 e comma 3, dell’articolo 17, credo di averla - e l’avevo premesso - già abbordata precedentemente; cautelativamente già detto che si sarebbero in qualche modo, appunto, intrecciate le mie risposte. Ho l’impressione - e lo ribadisco - che si tratti di due enunciati normativi entrambi non perspicui; potremmo forse discutere sul grado di perspicuità, cioè sul grado di chiarezza di questi due enunciati normativi, ma quello che mi sembra indiscutibile è che si tratti di due enunciati normativi che richiedono all’interprete uno sforzo faticoso. Allora lo sforzo faticoso che ho cercato di fare è stato quello di dare appunto un senso a questi enunciati normativi: l’ho trovato per un verso nell’articolo 3, come diceva lei, signor Presidente, nel collegamento tra il primo e il secondo periodo. Anche a me sembra che qui ci sia un collegamento tra il primo e il secondo periodo, ma, allo stesso modo, mi sembra evidente il collegamento che nel comma 6 si instaura tra il secondo periodo del comma 6 e il richiamato articolo 16 comma 1, lettera b), numero 1, sottolineo numero 1, non casualmente così precisamente richiamato. Ecco dunque che ci troviamo di fronte, ripeto, a due norme che sono equiparabili dal punto di vista dello sforzo interpretativo e che tale sforzo interpretativo richiedono a chi le legga; delle quali si può discutere, se sia più chiara la prima disposizione ovvero la seconda disposizione, ma che indubbiamente pongono dei seri problemi interpretativi.
Allora, questi problemi interpretativi - per questo nel mio scritto io ho insistito su questo punto - si possono risolvere pienamente (nei limiti il cui il giurista è in grado di ricercare il vero e non soltanto il probabile o addirittura unicamente il possibile), questi problemi interpretativi si possono risolvere soltanto verificando la bontà della propria interpretazione letterale alla luce di altri criteri di interpretazione.
Dal mio punto di vista, se è vera la premessa che facevo precedentemente sulla logica complessiva di questo sistema elettorale introdotto dalla legge n. 270, se è vera questa premessa, un’interpretazione contraria a quella letterale che mi sembra di dover proporre, è un’interpretazione che finisce per non dare alcun vero senso alla previsione normativa. Per quale mai ragione si dovrebbe differenziare tra le Regioni nelle quali la soglia del 55 per cento è stata superata e le Regioni, invece nelle quali non è stata attinta, e quindi scatta il premio di maggioranza? Per quale motivo si dovrebbe differenziare dal punto di vista del conferimento della rappresentanza alle liste componenti della coalizione? A mio avviso si trovano tutte esattamente sullo stesso piano.
Io non voglio tediare i signori Senatori, che così cortesemente mi stanno ascoltando, io non voglio tediare il Comitato ricordando cose che ho già scritto; lo scritto è acquisito e ho cercato di mettere in luce il fatto che tutti i tentativi di dare un senso a questa disparità di trattamento, a mio avviso, si sono rivelati infondati. Tanto è vero che sono inefficaci, che vi è stato chi - professor Vassalli in particolare, se non ricordo male, non in questo contesto, non nel corso dell’audizione, ma nel parere che aveva reso precedentemente - ha sostenuto che non c’era bisogno di interrogarsi sul senso e cioè sullo scopo finale poi di quella previsione normativa, perché davanti ad un testo così chiaro, a suo avviso, non si sarebbe dovuto indagare questo senso.
Io mi permetto sommessamente di osservare che il senso delle disposizioni normative, oltre che il loro significato, dev’essere costantemente indagato dall’interprete: ciò perché una disposizione normativa senza senso, è veramente un oggetto estraneo per il nostro ordinamento.
E qui, signor Presidente, io mi arresterei, se ella crede che io abbia risposto ai suoi quesiti.

PRESIDENTE. Sì, professor Luciani io la ringrazio; invito i colleghi che lo ritenessero, a formulare delle domande o chiarimenti. Non ce ne sono.
Professor Luciani, lei ha fornito una risposta molto precisa alle domande che cercavano in qualche modo di mettere a fuoco il contesto all’interno del quale siamo chiamati a muoverci. Quindi, io non posso davvero che ringraziarla e non è un ringraziamento di stile.
Resterebbe sempre il problema di qual è il limite tra il cercare di comprendere il vero, come lei lo ha definito, rispetto ad una norma, e quando invece l’interprete deve limitarsi ad applicarla quando funziona. Questo è un po’ lo snodo dal quale si parte, perché è evidente che c’è un’interpretazione più sofisticata - che va a questa ricerca del senso - e c’è invece chi sostiene che, però, il nodo è proprio questo. Credo che lo risolveremo quando ci toccherà di doverlo affrontare con poteri di deliberazione.
Si conclude qui questa quarta audizione; rinvio alla seduta di martedì prossimo il seguito del programma di audizioni deliberato dalla Giunta.


La seduta termina alle ore 14,40.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MARTEDÌ 28 NOVEMBRE 2006
5ª Seduta


Presidenza del Relatore
MANZIONE

Interviene il professor Antonio Agosta.
La seduta inizia alle ore 14,15.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi il ciclo delle audizioni del Comitato prosegue con l'autorevole figura del professor Antonio Agosta. Già Presidente della Società italiana di studi elettorali, SISE, il professor Agosta insegna Scienza politica e Sistema politico italiano all'Università degli studi «Roma Tre» dove ha promosso, con il concorso della Fondazione Adriano Olivetti, il Laboratorio di ricerca sulle elezioni e la legislazione elettorale. Ha diretto per anni, prima di lasciare quell'amministrazione, l'Ufficio di studi elettorali del Ministero dell'interno con il quale tuttora collabora come componente del Comitato scientifico per gli studi elettorali.
È membro della Commissione di studio istituita nel novembre 2006 dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali, con il compito di approfondire ed elaborare proposte concernenti la revisione ed il miglioramento della vigente legislazione elettorale.
Ha fatto parte degli uffici di Gabinetto dei ministri Scotti e Mancino, dell'ufficio legislativo del ministro Elia, della commissione Zuliani per la determinazione dei collegi uninominali nel 1993, della commissione Motzo sulla legge elettorale regionale nel 1995, delle commissioni Balboni sul sistema elettorale del CSM nel 1995 e 1996. Ha collaborato alla stesura di alcune leggi elettorali regionali fra cui quelle delle Marche e della Puglia fra il 2003 e il 2005.
Egregi colleghi, vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell'11 ottobre scorso con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione, né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto in ragione di un'esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell'onorevole Intini. Tale esigenza potrà utilmente essere soddisfatta con lo svolgimento, lungo tutto il mese di novembre, di audizioni di autorevoli docenti universitari in materie giuridiche ed elettorali allo scopo di comprendere tutti i profili interpretativi sollevati in ordine all'articolo 17, della legge elettorale per il Senato. Com'è noto essa è stata modificata al termine della scorsa legislatura, relatore il collega Andrea Pastore, con scelte risultate controverse sia all'epoca sia che attualmente; ma ai nostri fini è necessario soffermarsi soprattutto sulla questione dello sbarramento al 3 per cento e sulla sua applicabilità in sede di riparto infracoalizionale dei seggi.
L'attività istruttoria è condotta da un organo previsto dall'articolo 13, del Regolamento di verifica dei poteri, cioè il Comitato inquirente. Si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per una questione di diritto per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della giunta di farsi un'opinione sulla vicenda. Operativamente rivolgerò al professore Agosta, preventivamente informato del contenuto anche delle altre audizioni, una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l'opportunità di rispondere immediatamente, indi saranno possibili ulteriori domande da parte di tutti coloro che, tra i presenti, sentiranno l'esigenza di chiarimenti.
Infine il professore potrà replicare rispondendo alle domande rivoltegli e vi sarà la chiusura dei lavori.
Avverto infine che, come deliberato dalla Giunta, i lavori saranno oggetto di resocontazione integrale e che di tali atti sarà data contezza ai successivi docenti che saranno chiamati oltre che alle parti ed a tutti i componenti della Giunta. Si tratta di atti redatti con il metodo della sbobinatura della registrazione che, a partire da ora, sarà attivata.
Prego pertanto, tutti i colleghi di sincerarsi che il microfono sia acceso prima di prendere la parola. Voglio altresì premettere che il motivo per cui abbiamo fatto ricorso ad un accademico non propriamente di ambito giuridico è per valutare in concreto la possibilità che il dato letterale di una norma elettorale sia equivoco od illogico. Tale possibilità non è stata mai negata in astratto da nessuno dei nostri interlocutori, ma il pericolo è che l'interprete si sostituisca al legislatore dando valore di significato cogente alle sue preferenze scientifiche o meno. Questo ci ha indotto ad uscire dall'ambito dei giuristi ed a rivolgerci ad un esperto della scienza elettorale per comprendere quanto i modelli elettorali comportino scelte necessitate dalle esigenze di non produrre effetti abnormi. Ciò nella consapevolezza che la abnormità è più difficile da valutare quando si tratta di una legge che per principio si propone di produrre effetti dis-rappresentativi.
La prima domanda che intendo rivolgere al professor Agosta è relativa al rapporto esistente tra premio di maggioranza e soglia di sbarramento. Si danno casi, all'estero, nella dottrina comparatistica, di scelte differenziate sulla compresenza di questi due meccanismi? Il paragone per essere proprio deve essere fatto con i sistemi proporzionali, oppure il nostro sistema ha delle sue peculiarità a dispetto dell'autoqualificazione come sistema proporzionale che la legge si dà all'articolo 1, comma 2?
La seconda domanda che intendo rivolgere al professor Agosta è sulla possibilità che l'interpretazione logico-sistematica vari a seconda delle circostanze, cioè dei meccanismi elettorali esistenti. In proposito vorrei far riferimento ad un caso verificatosi in riferimento all'articolo 7 della legge n. 43 del 1995: la legge elettorale delle Regioni introduceva una soglia di sbarramento per le liste provinciali che non avessero raggiunto almeno il 3 per cento dei voti validi nell'intera Regione. Poiché tale previsione non era stata coordinata con quella della legge n. 108 del 1968, il Consiglio di Stato (decisioni della V sezione del 1996) aveva prescritto che il quoziente elettorale circoscrizionale si computasse dividendo il totale delle cifre elettorali di tutte le liste. Soltanto dopo aver ottenuto il quoziente, in sede di ripartizione dei seggi per il collegio unico regionale (C.U.R.), si sarebbe applicata la soglia di sbarramento. Quell'applicazione della soglia solo a valle evidentemente soddisfaceva altre varianti di quel sistema elettorale se è vero che il Consiglio di Stato, fino al capovolgimento definitivo avvenuto in adunanza plenaria del 1998, ritenne che non era abbastanza abnorme da escludere come illogica la relativa interpretazione letterale.
Ci può descrivere la logica di quel sistema e se sia possibile il computo ai fini del quoziente dei voti sotto soglia senza che le medesime liste rimaste al di sotto della soglia di sbarramento possano giovarsene?
La terza domanda si riferisce alla possibilità che tutti questi ricorsi al senso della norma, al di là del significato letterale, siano sottoposti agli uffici incaricati dell'applicazione della legge elettorale da atti esecutivi come le circolari ministeriali. Sulla vicenda del C.U.R. la V Sezione del Consiglio di Stato nel 1996 ricordò che le istruzioni ministeriali, contenute anche lì nel modello di verbale, non erano affatto vincolanti avendo natura di mero atto interno con funzione interpretativa, privo del carattere di atto presupposto del procedimento elettorale. Con la sua pluridecennale esperienza al Viminale, lei è in grado di dirci se in ambito, come quello elettorale, coperto da riserva di legge, la prassi non è piuttosto quello di indirizzare l'interprete con una norma legislativa di interpretazione autentica?
Se dopo la prima lettura alla Camera i dubbi sul significato dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 533, come novellato, fossero emersi a livello di ufficio legislativo dell'Interno - e se ragioni politiche avessero sconsigliato una modifica testuale - non crede che il Governo avrebbe comunque avuto a disposizione la possibilità di provocare, in sede di lavori preparatori al Senato, atti significanti (quale ad esempio un ordine del giorno che vincolasse il Governo ad una certa interpretazione) che nella fattispecie concreta mancarono? Grazie professore, a lei la parola.

AGOSTA. Prendo atto delle domande, che sono assai precise; l'ultima, che tocca aspetti relativi al ruolo dell'Interno nell’ambito della più complessiva “amministrazione delle elezioni”, mi darà occasione di lasciarvi un testo sullo stato e l’evoluzione dell’organizzazione elettorale italiana, argomento poco studiato e sul quale non vi è sempre la necessaria attenzione da parte del legislatore; ma, potremo riparlarne successivamente.

PRESIDENTE. Professore, mi scusi, lei ha sempre la possibilità di muoversi nel contesto, proprio per cercare di collegare le varie domande.

AGOSTA. Non intendo sottrarmi all’ordine delle domande, puntualissime. Vorrei, però, che mi consentiste un minuto o due, non soltanto per ringraziarvi dell'invito, per dirvi del grande onore non solo di trovarmi in questa sede e con voi, ma soprattutto di essere stato chiamato insieme ad alcuni maestri del diritto. Essere accostato al nome di Giuliano Vassalli, come a quello di così autorevoli costituzionalisti, che stimo profondamente e a cui sono personalmente legato da amicizia, è per me motivo di particolare orgoglio. Nello stesso momento devo dirvi con franchezza di una cosa che invece mi ha fatto un po' meno piacere nel contesto dell'invito. Mi è capitato di leggere, in dichiarazioni riportate da alcuni organi di stampa, che avreste immaginato di convocare in egual numero favorevoli e contrari alle tesi proposte dai ricorrenti. Mi stupisco, perché non vi è stato alcun mio intervento pubblico sul tema, e meno che mai memorie a corredo degli atti di ricorrenti o di resistenti. Ho preso molto sul serio l'impegno richiestomi provando a ricostruire la normativa oggetto della nostra analisi, senza posizioni preconcette. La mia costante ambizione è di seguire, in qualsiasi ricerca, una procedura scientifica rigorosa.
Nel caso concreto, ho cercato di attenermi ai criteri interpretativi che ci sono imposti dall'articolo 12 delle pre-leggi al Codice civile, seguendo strettamente la logica del testo specifico, senza ricorrere ad analogie con altre normative, e meno che mai a suggestive teorie generali in materia di sistemi elettorali. Certamente sono poi pervenuto a delle conclusioni. Ma, lo spirito che mi ha animato non è stato quello di convincere (vincere cum, ottenere la vittoria di una propria tesi con il consenso degli altri); ma, piuttosto, quello di comprendere (cioè, cum prehendere, prendere assieme, tenere conto di tutti gli elementi). Prendere in considerazione tutti gli elementi non vuol dire tenersi in posizione equidistante, ma sforzarsi di osservare il medesimo oggetto da tutti i punti di vista, per sottoporre a controllo, e consentire ad altri di verificare, il procedimento seguito per giungere ad un risultato.
Spero di riuscire a rispondere con semplicità, malgrado la complessità dei temi; riservandomi di intervenire alla fine sulla questione principale, sulla quale credo abbiate ormai idee già abbastanza chiare, che mi auguro di non complicare con inutili sottigliezze e rinvii parziali al testo normativo, per avvalorare tesi più o meno partigiane.
Procediamo per ordine. La prima domanda che mi viene fatta, se ho ben compreso, è: c'è un rapporto tra premio di maggioranza e soglia di sbarramento negli ordinamenti elettorali? La risposta semplice è no. Non c'è alcun rapporto necessario tra le due cose. Si può dare premio di maggioranza senza attuare minimamente sbarramenti; si possono attuare sbarramenti senza dare premio di maggioranza. Tra i due elementi non c'è alcun nesso se non quello che il legislatore, espressamente, in un determinato contesto di legislazione positiva decide di instaurare.
Il problema della autoqualificazione come sistema proporzionale, poi: dubito che questo possa essere classificato - come è stato definito, come è stato anche autodefinito dalla legge - un sistema proporzionale o, come altri hanno detto, un proporzionale con premio di maggioranza (anche se, il procedimento di assegnazione di “seggi ulteriori” necessari per conseguire la quota garantita di maggioranza potrebbe giustificare questa definizione). Certamente non si è trattato di un “ritorno” al precedente sistema proporzionale. Io ho provato a definire questo modello - ma qui forse esuliamo dagli interessi specifici della nostra discussione - come un “sistema maggioritario di coalizione”: su base nazionale per la Camera, su base regionale per il Senato; con successivo riparto proporzionale all'interno delle coalizioni. Lo collocherei, non voglio fare il pedante, nella famiglia dei sistemi maggioritari plurinominali con rappresentanza delle minoranze.
Un sistema che più rigorosamente avremmo potuto definire proporzionale con premio di maggioranza sarebbe stato quello proposto inizialmente, a metà settembre 2005. Infatti, le liste con più del 4 per cento nazionale dei voti avrebbero concorso singolarmente alla ripartizione dei seggi. Il collegamento sarebbe stato fatto valere successivamente, per verificare quale delle coalizioni propostesi per il Governo avesse complessivamente ottenuto il maggior numero di seggi, assicurandole eventualmente il premio necessario per raggiungere il 55 per cento. Si sarebbe trattato, dunque, di un sistema proporzionale di lista, con premio alla coalizione che avesse ottenuto più seggi.
Nel sistema effettivamente adottato, il collegamento coalizionale, invece, precede qualsiasi attribuzione di seggi. Infatti, vi sono due fasi distinte. Anzitutto, c’è uno scrutinio tra coalizioni (la legge è obbligata a dire “tra coalizioni e singole liste”: intendendo, per singole liste, per semplificare il nostro linguaggio, sia “coalizioni mono-partito”, sia, eventualmente, liste “recuperate” da coalizioni, lasciatemi usare un termine poco giuridico, complessivamente “naufragate” perché inferiori alla soglia coalizionale richiesta per l’ammissione: 10 per cento nazionale alla Camera, 20 per cento regionale al Senato. Tali liste vengono singolarmente considerate o recuperate purché siano rappresentative almeno del 4 per cento del voto nazionale alla Camera o dell’8 per cento del voto regionale al Senato). Ci troviamo, dunque, nella fase iniziale, di fronte ad una competizione tra aggregazioni politiche, costituitesi attorno ad un progetto di governo e ad una leadership, per la conquista della quota maggioritaria; e poi, solo in un secondo momento, a ripartizioni proporzionali tra liste all’interno delle coalizioni.
Il termine “proporzionale”, nell’uso comune, viene spesso utilizzato in luogo dell’espressione, che sarebbe più corretta, di “voto di lista”, con cui si fa riferimento alla modalità di espressione del voto. Il sistema elettorale applicato nel 2006 comporta un ritorno integrale, alla Camera, al voto di lista; e al Senato lo introduce storicamente per la prima volta, poiché si era sempre votato per candidature uninominali, collegate in gruppi regionali.
Un secondo uso improprio attribuisce al termine proporzionale il concetto che definirei di massima “inclusività”. Si sostiene che tanto più il sistema è inclusivo -tende, cioè, ad attribuire seggi a quante più forze politiche, anche di modeste dimensioni - tanto più è proporzionale. Questo è un errore; un sistema proporzionale è tale se i seggi vengono assegnati in proporzione matematica: se un partito ha l’uno per cento dei voti avrà tendenzialmente l’uno per cento di rappresentanza, e se un altro ha il 10 per cento dovrà ottenere dieci volte tanto. Ci sono, però, vari fattori che incidono sull’effettivo grado di proporzionalità e diverse formule per tradurre i voti in seggi. Nel nostro Paese, e anche da parte del legislatore del 2005, s’è fatta una scelta in favore del sistema proporzionale detto del quoziente naturale e dei più alti resti; questo, nel linguaggio comune così come nella dottrina prevalente, viene definito impropriamente “proporzionale puro”; ma, in realtà, è una formula più inclusiva, che tende a sovrarappresentare liste minori, assegnando un seggio anche con un numero di voti inferiore al quoziente richiesto; la formula D’Hondt, al contrario, è leggermente più selettiva e, a mio avviso, più equa. Si potrebbe richiamare uno storico dibattito, avvenuto ad Anversa alla fine del XIX secolo, tra i sostenitori del metodo D’Hondt e quelli del metodo del quoziente; o ricordare che, quando in Italia si discusse, per la prima volta, se adottare il metodo svizzero (cioè il metodo del quoziente) o il metodo belga (cioè quello del divisore o D’Hondt), il legislatore del 1919 scelse in favore del metodo D’Hondt, ritenendolo più correttamente “proporzionato”. Ma qui entriamo in una discussione che ci porterebbe lontano.
Forse non si poteva definire così, però il sistema del 2005 si dichiara proporzionale e di questo dunque dobbiamo tener conto. Il sistema proporzionale, mi ricollego alla prima domanda, è incompatibile con il sistema degli sbarramenti? No, non lo è, come dimostrano molti sistemi proporzionali vigenti (in Germania, ad esempio; o in Spagna dove, addirittura, è sancito in Costituzione che il Congresso debba essere eletto con metodo proporzionale, e si adotta la formula D’Hondt con sbarramento circoscrizionale del 3 per cento). Quindi, le due cose non sono incompatibili e il sistema degli sbarramenti non inficia il carattere di proporzionalità; poi vedremo come si applicano gli sbarramenti, con le diverse formule.
Passiamo alla seconda domanda. Spero di essere chiaro perché il tema è complesso. Dunque, la questione che poneva il Presidente è: la disciplina elettorale delle Regioni ordinarie aveva introdotto uno sbarramento: all’articolo 7 della legge del 1995 si affermava, infatti, che non possono essere attribuiti seggi a liste che abbiano meno del 3 per cento dei voti validi regionali. Continuava, però, ad esistere, non abrogata, una norma della legge originaria del 1968, che prescriveva, per calcolare il quoziente in ciascuna delle circoscrizioni provinciali, di tener conto dei voti di tutte le liste. All’apparenza le due norme sono contraddittorie perché, prevalentemente, nelle legislazioni positive che utilizzano la formula del quoziente, quando si applica uno sbarramento si escludono dalla somma dei voti espressi quelli ottenuti dalle liste inferiori alla soglia fissata. Quando si adotta il metodo D’Hondt (che consiste nel dividere ciascuna delle cifre elettorali delle liste successivamente per uno, per due, per tre, e così via, fino al numero corrispondente ai seggi da assegnare), escludere le liste inferiori sin dall’inizio delle operazioni di calcolo o solo al momento conclusivo del riscontro dei seggi attribuibili, fa poca differenza. Invece, fa differenza se si adotta il metodo del quoziente: se, per ipotesi, in una circoscrizione sono stati espressi un numero di voti, che convenzionalmente facciamo uguali a cento, e dovranno essere assegnati cinque seggi, il quoziente naturale sarà pari a cento diviso cinque: scatterà un seggio intero, cioè, al raggiungimento del quoziente, corrispondente al venti per cento. Ma, se sotto un’eventuale soglia di sbarramento fosse disperso, e dunque non considerato, un numero di voti pari, ad esempio, a dieci, il quoziente dovrà essere calcolato dividendo i novanta voti delle liste ammesse per i cinque seggi da ripartire: e, in tal modo, il quoziente sarà corrispondente al diciotto per cento dei voti. Un quoziente più basso è apparentemente più facilmente conseguibile dalle liste minori, tra quelle ammesse; ma, è altrettanto vero, che partiti con un numero più grande di voti sono in grado di ottenere direttamente più seggi a quoziente intero. La modifica del quoziente richiesto provoca, dunque, una serie di variazioni: sia nel numero dei seggi immediatamente assegnati che nell’entità dei voti residui.
Nel caso della legge elettorale del 1995, avevo proposto un’interpretazione secondo cui sarebbe stato opportuno utilizzare entrambe le norme: sia quella originaria che obbligava a considerare tutti i voti espressi nella circoscrizione provinciale ai fini della determinazione del quoziente – quindi i cento voti e non solo i novanta delle liste ammesse, per richiamare l’esempio appena fatto – sia l’altra che escludeva dall’assegnazione finale complessiva dei seggi le liste inferiori alla soglia regionale richiesta. Perché sostenevo questo? Non soltanto per un rispetto formalistico della contemporanea vigenza delle norme, ma per ragioni più sostanziali. Innanzitutto, perché si sarebbe reso più coerente il procedimento di restituzione alle circoscrizioni provinciali dei seggi residui attribuiti nel CUR (collegio unico regionale). In sede di CUR, infatti, si compiono due operazioni: la prima è quella di attribuire l’insieme dei seggi, non assegnati localmente a quoziente intero, sulla base della totalità dei voti regionali residui o inutilizzati nelle circoscrizioni; la seconda è quella di restituire i seggi spettanti a ciascuna formazione politica a una, o a più di una, delle sue liste circoscrizionali, secondo una graduatoria determinata dall’indice percentuale di approssimazione di ciascun resto al rispettivo quoziente circoscrizionale.
Il mio problema era quello di fare in modo che la graduatoria di restituzione seguisse un ordine riferito ad un medesimo criterio di misurazione, costante in tutte le circoscrizioni. Calcolare sempre il quoziente con riferimento alla totalità dei voti espressi, avrebbe consentito di comparare più correttamente il valore dei resti ottenuti dalla lista nelle diverse circoscrizioni provinciali. Il caso è dunque assolutamente diverso da quello delle Regioni nell’elezione del Senato, dove esse costituiscono un’unica circoscrizione; nel caso delle circoscrizioni provinciali per l’elezione del Consiglio regionale, invece, queste vanno raffrontate, assegnando il seggio spettante alla lista nella circoscrizione in cui i voti residui erano stati più vicini a conseguire un seggio con il quoziente intero richiesto. Ma, questa individuazione del resto relativamente più grande non può essere effettuata, da una parte, su un metro uguale a cento centimetri, da un’altra su un metro corrispondente a novanta centimetri, da un’altra parte ancora con un metro di ottantacinque e così via; è come se io volessi commisurare delle figure non fotografate nella stessa scala: un’immagine fotografata in primo piano sembra mostrare un gigante, se raffrontata ad un’altra in cui l’immagine venga inquadrata da lontano.
La mia interpretazione, dunque, era che si dovessero usare entrambe le norme provvidenzialmente disponibili, perché ciò sarebbe stato funzionale ad una corretta ed equa ripartizione dei seggi nella graduatoria regionale. Cosa diversa è quella poi richiamata dalla citata decisione del Consiglio di Stato; ma non contraddittoria con quanto sto sostenendo. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ribadito che nel calcolo per l’attribuzione dei seggi residui in sede di CUR, occorre tener conto solo delle liste ammesse. Ed ha ragione: primo perché, a quel punto del procedimento, l’ufficio centrale regionale è in condizione di appurare con certezza, sulla base di tutti i verbali provenienti dagli uffici elettorali circoscrizionali, quali liste abbiano raggiunto la soglia del 3 per cento. E, qualora, sulla base dei calcoli effettuati provvisoriamente nelle circoscrizioni, fosse risultato assegnato un seggio provinciale ad una lista sotto soglia regionale, il rimedio sarebbe stato semplicissimo: non potendosi effettivamente attribuire un seggio ad una lista non avente diritto, questo sarebbe stato tolto e aggiunto ai seggi da ripartire in sede di CUR. Calcolare il quoziente del CUR limitatamente ai voti residui delle liste ammesse è, poi, solo in apparente discordanza con la procedura utilizzata per il calcolo dei quozienti circoscrizionali, riferiti invece alla totalità dei voti validamente espressi: il quoziente del CUR, infatti, è unico; mentre, i quozienti circoscrizionali devono servire da base per una comparazione di rendimenti elettorali.
L’interpretazione suggerita, appariva, oltre che corretta sul piano dell’equità elettorale tra le diverse liste provinciali, anche funzionale e conforme alle disposizioni da un punto di vista procedurale: consentiva, infatti, agli uffici circoscrizionali di operare indipendentemente, come previsto dalle norme, senza un previo controllo sui risultati generali effettuato, ai fini della dichiarazione di ammissione, dall’ufficio centrale regionale. Per quanto mi risulti, le varie sentenze amministrative hanno recepito e confermato questa logica.
L’argomento è complesso: mi sono sforzato di renderlo semplice, ma probabilmente non ci sono riuscito. Se vi sono dubbi su questi aspetti ponetemeli anche subito.
Arriviamo al tema finale: come interpretare la legge con cui abbiamo eletto il Senato (qui ci sono molte domande). Innanzitutto, quale significato attribuire ai verbali predisposti dagli uffici ministeriali? Semplicemente, quello di fornire un supporto pratico, un modello per procedere più speditamente. Naturalmente, gli uffici elettorali propriamente detti (di sezione, di circoscrizione, centrali) non sono obbligati ad attenervisi. Nel nostro ordinamento elettorale non esiste alcun organo sovraordinato ad altri. Lo stesso ufficio elettorale nazionale, che ha sede presso la Cassazione - che per alcune operazioni costituisce il punto d’arrivo del procedimento elettorale - non è l’organo di vertice; svolge, nelle sole elezioni della Camera, funzioni specifiche, che hanno applicazione con riferimento al piano nazionale: fino al 1992 aveva il compito principale dell’assegnazione dei seggi residui nel cosiddetto CUN (collegio unico nazionale); attualmente svolge l’operazione fondamentale, da cui discendono tutte le altre, e cioè la constatazione dei risultati complessivi del voto, per le coalizioni e per le liste, attribuendo in particolare la quota di maggioranza alla coalizione vincitrice. Gli uffici elettorali sono chiamati, ciascuno, a funzioni diverse: è la ragione per cui l’ufficio centrale nazionale, non può variare i verbali degli uffici circoscrizionali; e l’ufficio circoscrizionale, tranne che in merito ai voti contestati rinviatigli per una decisione definitiva, non può variare i verbali sezionali. Solo alla fine, è previsto un organismo di convalida: nel nostro ordinamento è lo stesso Parlamento, attraverso commissioni istruttorie che voi conoscete benissimo perché ne fate parte, le Giunte delle elezioni; in altri ordinamenti è la Corte costituzionale, ovvero Tribunali elettorali speciali. Sono essi ad avere l’ultima parola nei casi di contestazione, e sono quelli che possono procedere alla verifica dei voti e delle schede.
Nel procedimento elettorale in senso stretto, il Ministero dell’interno, in quanto organo dipendente dal Governo, non svolge alcuna funzione, se non quella di coordinatore dell’attività di supporto organizzativo (dal deposito dei contrassegni finalizzato alla stampa delle schede, al controllo sui comuni nell’allestimento delle sezioni elettorali, alla fornitura di materiale tecnico e di stampati). Non ha minimamente, né ha mai avuto, una funzione di indirizzo interpretativo; ma, in conseguenza di scelte operate dalla fine degli anni Quaranta, che hanno consentito di sviluppare presso l’amministrazione ministeriale centrale una struttura permanente e specializzata, il Viminale ha assunto, di fatto, la funzione di alta consulenza e di riferimento per tutti gli operatori del settore, comprese le amministrazioni temporanee costituite presso sedi giurisdizionali per sovrintendere alla regolarità e alla certificazione del procedimento elettorale. In ogni caso, la predisposizione di modelli per la stesura dei verbali delle operazioni elettorali è preventivamente, anche se informalmente, sottoposta alla valutazione degli stessi magistrati, componenti in particolare l’ufficio centrale nazionale.
Passiamo alla questione principale: come vanno interpretate le leggi elettorali, e come va risolta la controversia insorta in relazione alle norme per l’attribuzione dei seggi tra le liste al Senato? È inutile ripetere puntualmente ciò che conoscete e che assai meglio è stato esposto da altri. Certamente, come prescrive l’articolo 12 delle disposizioni generali anteposte al Codice civile, le leggi vanno interpretate nel significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e secondo l’intenzione del legislatore. Quindi, è chiaro che noi dobbiamo interpretare, innanzitutto, la legge nel suo testo; ma, attenzione: il testo va letto non identificando singole espressioni ma, riportandole, appunto, nel loro contesto, cum textum: è lì che il significato può apparire palesemente. Il singolo tratto acquista significato concettuale solo all’interno del disegno, cioè del contesto per cui un certo segno, una certa parola assume un valore specifico. Dunque, bisogna rifarsi ad un’interpretazione logica: ma, logos è discorso; e il discorso si fa in una sequenza. E’ necessario ricostruire la sequenza con cui le norme sono state esposte, per interpretare correttamente il testo.
Ha ragione il ministro Amato quando dice che non bisogna allontanarsi dal testo. Non lo si può interpretare facendo riferimento ad altri testi normativi, tranne quando, appunto, vi siano lacune che obblighino a ricostruzioni analogiche. Ma, nel caso concreto al nostro esame, l’interpretazione sistemica e logica ritengo che possa essere desunta direttamente dal testo. Che il testo, in alcuni punti, non risulti immediatamente chiaro e inequivoco, credo sia agevole constatarlo: non avreste dedicato così tanto tempo alla questione, altrimenti. Ma, appunto per ciò, bisogna ricorrere al criterio logico, ad ulteriore conferma del senso parziale apparente, per cogliere, anche con l’ausilio del criterio storico-ricostruttivo, quale sia la ratio, la ragione del disegno complessivo. Chi propone di fermarsi necessariamente alla prima immediata impressione, non fa un buon servizio alla verità, perché se la verità è tale come appare, lo resta anche con indagini più approfondite, da cui dovremmo trovare conferme e non contraddizioni.
Che cosa si ricava dalla lettura della legge? Innanzitutto, che la legge dedica al procedimento per l’attribuzione dei seggi due articoli (che hanno assunto i numeri 16 e 17 nella nuova stesura del Testo unico per l’elezione del Senato). Le operazioni descritte all’articolo 16 costituiscono la logica premessa delle attuazioni previste dall’articolo 17. Nel primo dei due articoli, la legge opera una delimitazione di campo, affidando all’ufficio elettorale regionale il compito di verificare i voti complessivamente ottenuti da ciascuna delle liste partecipanti, e, quando queste ultime sono tra loro collegate, calcolando una “cifra elettorale di coalizione”, che corrisponde alla somma delle cifre elettorali di tutte le liste che la compongono. Sulla base del totale generale dei voti validi espressi nella Regione, l’ufficio individua quindi le coalizioni o le liste isolate che hanno diritto a partecipare alla ripartizione iniziale dei seggi: quelle, cioè, che superano lo standard di rappresentatività richiesto (un quinto dei voti regionali per le coalizioni, l’8 per cento per le liste isolate o singolarmente “recuperate”). L’articolo 17, poi, regola l’effettiva assegnazione dei seggi senatoriali della Regione, che si svolge in due fasi successive: nella prima, l’attribuzione dei seggi avviene tra le coalizioni ammesse, complessivamente considerate (nell’espressione “coalizione” faccio rientrare ovviamente, per comodità espositiva, anche liste isolate o “recuperate”). Nella seconda fase, si procede alla ripartizione interna dei seggi conquistati da ciascuna coalizione, tra le liste componenti.
Quando la legge delimita il campo dei partecipanti alla assegnazione iniziale dei seggi, ammette le coalizioni di liste - cito testualmente - “che abbiamo conseguito almeno il 20 per cento dei voti validi espressi e che contengano almeno una lista collegata che abbia conseguito sul piano regionale almeno il 3 per cento”. Perché questa doppia condizione? Perché il legislatore non ritiene sufficiente, per l’ammissione di una coalizione al riparto dei seggi, solo il conseguimento del 20 per cento dei voti regionali? La ragione è che i seggi ottenuti dalla coalizione potrebbero, al limite, essere assegnati ad una soltanto delle liste che la compongono; ma, in tal caso, si richiede uno standard minimo di consenso, pari al 3 per cento. Questa motivazione si ricollega, a mio avviso, anche alle più favorevoli condizioni di ammissione all’attribuzione dei seggi senatoriali per una lista componente di coalizione rispetto ad una lista isolata, per la quale, apparentemente, viene richiesta una percentuale più elevata: in realtà, la lista inserita in una coalizione è rappresentativa, indirettamente, anche di un più complessivo indirizzo programmatico, sostenuto da almeno un quinto del voto regionale. E, pertanto, ripeto, una sola lista potrebbe aver diritto a rappresentare, al limite, l’intera quota di seggi spettante alla coalizione. Ciò perché il sistema elettorale regola una competizione di governo; anche al Senato, infatti, seppure in maniera un po’ contraddittoria - dati i diversi premi regionali di maggioranza che possono vicendevolmente compensarsi, annullandosi - si tratta pur sempre di una competizione per il governo, obbligatoriamente omogenea a quella della Camera, che si svolge tra indirizzi politici che si richiamano a programmi alternativi e a capi delle coalizioni differenti.
La competizione tra le coalizioni ammesse al riparto iniziale dei seggi può concludersi con il conseguimento naturale della quota maggioritaria del 55 per cento dei seggi (e, addirittura, con il suo superamento) o con l’assegnazione garantita del numero di seggi necessario per raggiungere d’ufficio tale quota, in favore della coalizione più votata. Il comma 2 dell’articolo 17 fa riferimento alla prima ipotesi; il comma 4, alla seconda.
Per i seggi assegnati complessivamente a ciascuna coalizione si deve procedere, lo dicevamo, alla successiva ripartizione interna, tra le liste componenti: è quanto regolato, rispettivamente, al comma 3 e al comma 6 dello stesso articolo 17. La diversa formulazione letterale dei due commi ha indotto alcuni interpreti a ipotizzare che il legislatore abbia voluto dar luogo a fattispecie che seguono logiche distinte; ma, a mio avviso, non è così. Nel primo caso, quello in cui è stata naturalmente raggiunta la quota di maggioranza prevista, la legge descrive molto puntualmente il procedimento per la suddivisione interna dei seggi, introducendo per la prima volta il concetto di “liste ammesse”, riferito, coerentemente con la condizione precedentemente prevista per l’ammissione delle coalizioni, alle “liste che abbiano conseguito sul piano circoscrizionale – cioè, dell’intera Regione – almeno il 3 per cento dei voti validi espressi”. Nel secondo caso, il riferimento esplicito al “3 per cento” non compare, ma si prescrive che, per il calcolo del quoziente necessario alla ripartizione dei seggi, si divida il totale delle cifre elettorali delle “liste ammesse” per il numero dei seggi assegnati alla coalizione.
Attenzione anche a questi aspetti lessicali. Le leggi elettorali, le leggi in genere, tendono ad usare in maniera univoca termini ed espressioni verbali. La legge 270 usa il sintagma “liste collegate” quando vuole riferirsi a tutte le liste che fanno parte della coalizione (chiarisce, ad esempio, che tutti i voti delle liste collegate sono utilizzati per calcolare la cifra elettorale di coalizione, quella valida per la competizione principale). Ma poi, nella fase successiva del riparto interno dei seggi collettivamente ottenuti dalle coalizioni, utilizza un’altra espressione: non liste collegate, ma “liste ammesse”; e quando questo termine viene preliminarmente definito è con riferimento al raggiungimento della soglia del 3 per cento. Peraltro, “liste ammesse” è uno di quei casi semantici che richiamano un contrario: a liste ammesse corrispondono liste escluse, all’interno, appunto, di una medesima coalizione.
La presenza di almeno una lista con il 3 per cento è richiesta - lo abbiamo già ricordato - anche dall’articolo 16, quando fissa le condizioni preliminari di ammissione delle coalizioni. La norma ha un senso proprio perché si collega alle disposizioni successive dell’articolo 17 per le ripartizioni interne dei seggi. Non avrebbe senso, infatti, ammettere alla ripartizione preventiva dei seggi una coalizione che non disponesse, poi, di alcuna lista in grado di averne attribuiti, proprio perché, secondo il legislatore del 2005, la condizione minima di rappresentatività si realizza con il raggiungimento del 3 per cento dei voti. Altrimenti, il requisito aggiuntivo richiesto ad una coalizione che già raccoglie una quota ragguardevole del voto regionale (avere al proprio interno anche una lista con il 3 per cento) potrebbe sembrare una norma bizzarra, o inspiegabilmente vessatoria; ma, nelle leggi, soprattutto in un ordinamento democratico, non si possono giustificare disposizioni fini a se stesse, “disposizioni dispotiche”.
Mi permetto di aggiungere ancora qualche considerazione. Se seguissimo un’interpretazione puramente letterale, anche altri punti di questa normativa non sarebbero immediatamente comprensibili. Ad esempio, il comma 5 dell’articolo 17. Nel comma 4, lo ricordo, erano stati assegnati “d’ufficio” alla coalizione vincente i seggi necessari per conseguire la quota maggioritaria del 55 per cento; pertanto, una volta attribuito il premio, diventa necessario individuare chi ne debba pagare, specularmente, i costi, e in quale rispettiva misura, nel caso le coalizioni perdenti siano più di una (è il problema che affronta il comma 5). Nell’interpretazione logica, i commi 4 e 5 rappresentano un “aggiustamento” dei risultati della ripartizione provvisoria dei seggi, svolta secondo il procedimento previsto nel comma 1, limitatamente, dunque, alle sole coalizioni ammesse: lo confermerebbe l’espressione “numero di seggi ulteriore”, utilizzata per definire l’entità del premio necessario. (Partendo dai risultati della ripartizione provvisoria, si aggiunge, cioè, la parte mancante per il conseguimento della quota maggioritaria garantita; e, contestualmente, la si sottrae dal risultato dell’altra o delle altre coalizioni). Ma, se pretendiamo di attenerci ad una lettura solo formale, constatiamo che il comma 5 dell’articolo 17 recita che i restanti seggi - corrispondenti complessivamente, cioè, al 45 per cento – “sono ripartiti tra le altre coalizioni di liste o liste singole”; e, prosegue: “a tal fine, l’ufficio elettorale regionale divide il totale delle cifre elettorali di tali coalizioni di liste o liste singole per il numero dei seggi restanti”. Come si può notare, non vi è alcuna esplicita limitazione alle coalizioni (o liste singole) “ammesse”. Cosa vuol dire? Forse, che, per la ripartizione della quota minoritaria non valgano più le condizioni di ammissione precedentemente fissate dall’articolo 16? E che, dunque, siano riammesse anche le coalizioni o le singole liste prima escluse? Ritengo, ovviamente, di no, proprio in forza della sequenza logico-espositiva delle norme.
Comunque, i punti di difficoltosa lettura sono tanti, in questa legge; ma, proprio per ciò, le norme vanno comprese nel loro significato, nella loro logica e nella loro storia; non si possono sovvertire con il ricorso ad impuntature formalistiche, o con interpretazioni a posteriori. Questa, peraltro, non è una legge che ci viene rivelata, non siamo in presenza delle “tavole della legge”, di cui non siamo autori e che possiamo solo tentare di interpretare profeticamente. Si tratta di una legge che ha scritto il Parlamento, con un dibattito palese, che si è svolto anche nelle sedi politiche di formazione dell’opinione pubblica.
Occorre chiedersi, peraltro, se possa essere giustificabile che il legislatore abbia voluto creare due fattispecie diverse di ripartizioni dei seggi nelle coalizioni: far valere lo sbarramento interno alle coalizioni quando si verifica una vittoria maggioritaria “naturale”, e non farlo valere quando invece si assegna il premio. Il mio amico professor Patrono ritiene di rinvenire una logica in questa presunta difformità. La tesi è suggestiva, anche se personalmente non la trovo convincente. Afferma il professor Patrono, nella memoria integrativa all’esposto presentato dalla “Rosa nel pugno”, che una lista inferiore al 3 per cento può essere, diciamo così, “punita” perché il suo apporto non sarebbe decisivo per l’affermazione della coalizione quando questa raggiungesse “naturalmente” il 55 per cento; mentre, invece, sarebbe determinante, e dunque andrebbe salvaguardata e “premiata”, nel caso di una vittoria ottenuta con un livello minore di consensi. In realtà, in una competizione tra coalizioni, che può essere decisa anche per un solo voto di differenza, tutti gli apporti possono risultare determinanti. Se proprio si fosse ritenuto di dover differenziare i due casi, mi chiedo: perché mettere lo sbarramento quando si realizza un esito maggioritario naturale, ed eliminarlo nel caso opposto? Sarebbe stato più congruente, semmai, il contrario, fissando un limite alla sovrarappresentazione in seggi – che si realizzerebbe in conseguenza del premio - per formazioni partitiche con modesti livelli di consenso elettorale. Considerate, peraltro, che, in caso di una larga vittoria “naturale”, è anche probabile che le liste maggiori abbiano riportato un elevato numero di voti; tenete presente, poi, che nelle Regioni, anche nelle più grandi, si distribuisce normalmente un numero di seggi comunque limitato: dunque, in queste condizioni, difficilmente liste piccole avranno probabilità di attribuzione di seggi, perché incapperanno in una selezione, appunto, “naturale”. A cosa serve, lì, una clausola di sbarramento legale? A nulla; e, oltre tutto, sarebbe anche ingiusta nei confronti di formazioni minori che comunque avrebbero contribuito, seppur modestamente, a una vittoria così rilevante. Quale strategia di campagna elettorale dovrebbe perseguire razionalmente, in questa prospettiva, un partito piccolo? Chiedere voti, per se stesso e comunque per la coalizione, per raggiungere la vittoria; ma, attenzione, non troppi: anzi, oltre un certo limite sarebbe opportuno invitare a votare per gli avversari, perché se vinciamo eccessivamente, se abbiamo troppo successo, il mio partito ci rimette… Capite che è contrario alla logica di qualsiasi competizione elettorale ... (Voci di sottofondo. Brusìo).
Le norme sui sistemi elettorali, peraltro, traducono in procedura giuridica un procedimento logico-matematico. Posso anche prescrivere con una elegante disposizione normativa che tre più tre produce sette: il significato letterale è chiarissimo, ma c’è qualcosa che contrasta con la logica e non posso pretendere di dire c’è scritto, ipse dixit, lex dixit. E’ come la storia dei bei vestiti del re: dire che il re non ha bei vestiti è un’operazione di verità; si potrebbe scrivere tutto nelle norme, ma le norme devono avere un senso.
La tesi interpretativa della doppia fattispecie, oltre a contrastare con la logica, non trova assolutamente supporto negli atti parlamentari; mentre il suo contrario (cioè l’esigenza di uniforme disciplina degli sbarramenti infracoalizionali) ritorna frequentemente, in interventi sia dell’opposizione che delle relazioni di maggioranza. Mi ricollego, però, all’ultima domanda posta dal Presidente: “ma, non sarebbe stato meglio fare un ordine del giorno, per maggiore chiarezza interpretativa?”. Per quello che io so, peccato che in questo momento si sia assentato il presidente Pastore, era stato pure proposto, su suggerimento, credo, degli uffici del Ministero dell’interno. Ma, come si evince dall’intervento del presidente Pastore nella seduta di Commissione del 9 novembre 2005, si ritenne che l’interpretazione logico-sistematica fosse già sufficiente.
Prima di concludere, vorrei aggiungere una notazione su una questione apparentemente marginale, che traggo dalla relazione del Presidente del nostro Comitato - senatore Manzione, relatore per il Piemonte. Si tratta del riferimento ad un problema di corretta compilazione del verbale circoscrizionale, relativo al paragrafo 13, riportato a pagina 19, laddove si richiede di indicare le cifre elettorali delle coalizioni che fossero rimaste a dividersi la quota di minoranza. Dalla relazione del senatore Manzione risulterebbe che nel verbale di una Regione, mi pare di ricordare quello della Regione Piemonte, non c’era alcuna indicazione: questo paragrafo veniva saltato.

PRESIDENTE. È parzialmente compilato, e visto che usavano il sistema telematico, la parziale compilazione si confonde con i caratteri propri del documento, ma questo sarà oggetto della prossima nostra audizione.

AGOSTA. Posso dirvi, però, che, se eventualmente fosse stato lasciato in bianco, ciò, nel caso concreto, non sarebbe stato di alcun ostacolo al procedimento: per la semplice ragione che in quel paragrafo ci si riferisce alla suddivisione della quota di minoranza: ovviamente - interpretando come io stesso presuppongo sia corretto fare - tra le coalizioni ammesse. Ma, poiché vi era una sola coalizione perdente, non c’era da fare alcuna suddivisione: automaticamente tutti i seggi sottratti erano addebitati alla coalizione restante, l’unica restante. Ecco perché, quella parte può essere stata eventualmente omessa, perché assolutamente inutile non dovendo procedere a ulteriori suddivisioni tra coalizioni: quindi non mi pare un problema.
Concludo ricordandovi che mi ero lamentato all’inizio di essere stato inserito nel coro dei “tre più tre”, come quelli di Nora Orlandi dei tempi che furono, cioè di essere stato considerato preventivamente fra i tre a favore di una tesi. Come avete constatato, alla fine sono giunto a convenire con una delle due posizioni; forse errando, ma in assoluta buona fede, come ritengo abbiano fatto tutti i colleghi: non avendo interessi di parte da dover difendere né, nel mio caso particolare, posizioni palesemente assunte da voler suffragare.

PRESIDENTE. Grazie, professor Agosta, io mi rivolgo ai colleghi per vedere se ci sono richieste di chiarimenti. Non ci sono richieste.
Si chiude qui questa audizione, dando atto che ricevo la preannunciata documentazione aggiuntiva dal nostro ospite. Mi permetto di ricordare ai colleghi che domani termineranno le audizioni dei docenti: avremo il professor Patrono. Grazie.

La seduta termina alle ore 15,25.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MERCOLEDÌ 29 NOVEMBRE 2006
6ª Seduta


Presidenza del Relatore
MANZIONE
Interviene il professor Mario Patrono.
La seduta inizia alle ore 14,15.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Colleghi buon pomeriggio. Il ciclo di audizione del Comitato inquirente prosegue con l'autorevole figura di Mario Patrono, professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università di Roma «La Sapienza» dove insegna anche diritto delle Comunità e dell'Unione Europea. È anche docente dell'Istituto per la documentazione e gli studi legislativi. Ha in precedenza insegnato nelle Università di Catania e di Padova, alla LUISS (Libera università di scienze sociali, in Roma) ed alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
Componente dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, socio onorario di molti istituti di cultura sia italiani che stranieri, ha preso parte a numerose Commissioni di esperti (Paladin nel 1988 sul comando delle Forze armate, Ancora nel 1989 sui problemi relativi alla delegificazione) ed è stato componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura nel quadriennio 1990-1994.
Dirige la Collana ricerche di diritto pubblico comparato; è membro della Commissione di studi istituita nel novembre del 2006 dal Ministro per i rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali con il compito di approfondire ed elaborare proposte concernenti la revisione ed il miglioramento della vigente legislazione elettorale.
Colleghi vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell'11 ottobre scorso con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto in ragione di una esigenza di un approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell'onorevole Intini.
Tale esigenza potrà essere ulteriormente soddisfatta con lo svolgimento che si è consumato in tutto questo mese di novembre delle audizioni che stiamo per completare.
L'attività istruttoria è condotta da un organo previsto dall'articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri, cioè il Comitato inquirente si tratta di un istituto che riceve per la prima volta applicazione per una questione di diritto, per cui il suo operato sarà volto a consentire a tutti i componenti della Giunta di farsi un'opinione sulla vicenda.
Operativamente rivolgerò al Professore, preventivamente informato del contenuto anche delle altre audizioni, una prima serie di tre domande introduttive offrendogli l'opportunità di rispondere immediatamente, indi saranno possibili ulteriori domande da parte di tutti coloro che tra i presenti sentiranno l'esigenza di chiarimenti. Darò, quindi, lettura dei due quesiti pervenuti da parte del ricorrente onorevole Intini. Infine, il professore potrà replicare rispondendo alle domande rivoltegli e vi sarà la chiusura dei lavori.
Avverto, infine, che come deliberato dalla Giunta i lavori saranno oggetti di resocontazione integrale e che di tali atti sarà data contezza alle parti e a tutti i componenti della Giunta. Si tratta di atti redatti con il metodo della sbobinatura della registrazione che a partire da ora sarà attivata.
Prego, pertanto, tutti gli oratori di sincerarsi che il microfono sia acceso prima di chiedere e prendere la parola.
Professore Patrono, la prima domanda è sulla possibilità di ricostruire la ratio legis con riferimento ad un atto legislativo che non fornisce elementi di interpretazione autentica di sé stesso. Il quesito si fa particolarmente urgente quando la legge enuncia due situazioni: quella di una coalizione di liste che abbia conseguito ex se la soglia del 55 per cento dei voti validamente espressi e quella di una coalizione vincente la quale non avendo conseguito tale soglia debba beneficiare del premio di maggioranza. Si tratta di situazioni che sono da ritenersi tra loro assimilabili da un punto di vista normativo oppure non lo sono? In caso di risposta negativa, dove possono risiedere le ragioni della loro differenza?
La seconda domanda parte dalla tesi - che pure è stata sostenuta dinanzi al Comitato - secondo cui la locuzione liste ammesse, prevista al comma 3 per l'ipotesi di Regione in cui è stato raggiunto il 55 per cento, è la medesima locuzione contenuta al comma 6 dell'articolo 17. Sarebbe solo frutto di cattiva redazione legislativa il fatto che nell'un caso si sceglie di prevedere direttamente la clausola di sbarramento al 3 per cento, mentre nell'altro, per ottenere lo stesso risultato, si rinvierebbe all'articolo 16. Secondo lei, professore Patrono, nell'ambito dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993 così come novellato dalla legge n. 270 del 2005, qual è il significato da dare al sintagma “liste ammesse” di cui al comma 6?
La terza domanda è se sia sufficientemente chiara la norma dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993 sul calcolo del quoziente che si ottiene dividendo il totale delle cifre elettorali di coalizioni di liste o singole liste per il numero dei seggi restanti. In particolare va ricordato che il paragrafo 13, pagine 27 del modello 65 Elezioni politiche, apprestato dal Ministero dell'Interno per la relazione dei verbali elettorali regionali, è dedicato al riparto dei restanti seggi tra le altre coalizioni di liste e liste singole ammesso al riparto ed al numero 2 prevede che sia effettuata tale operazione: “divide il totale delle cifre elettorali circoscrizionali della coalizione di lista e singole liste come determinato al punto 1 per il numero dei seggi restanti pari a ..., ottenendo un quoziente pari a .... Nell'effettuare tale divisione trascura l'eventuale parte frazionaria del quoziente”. Chiaramente il modello ha riprodotto la parte della legge che abbiamo indicato senza menzionare alcuna clausola di sbarramento.
Professore queste sono le domande che le vengono sottoposte; come ho detto anche agli altri professori che hanno partecipato alle audizioni, lei ha la possibilità comunque, a prescindere dalle domande, di tener conto pure delle altre audizioni e di chiarire quelle circostanze che le possono sembrare utili ai fini del problema che è stato affidato, e della soluzione che è stata affidata alla Giunta. Prego Professore.

PATRONO. Ringrazio il Presidente per l'invito che mi è stato fatto, per le parole, per le cortesi parole, con le quali ha voluto presentarmi. Ringrazio il Presidente per le cortesi parole con le quali mi ha voluto presentare ai membri della Giunta qui presenti; ringrazio anche i presenti e gli assenti della Giunta per l'invito che mi è stato fatto e invito che mi onora profondamente; sì, costituisce per me un grande onore.
Mi sono rivolte una serie di domande che vedo in realtà imporsi in connessione logica l'una con l'altra; allora non ho difficoltà ad affrontare il primo quesito che pone un problema, diciamo, di merito importante, direi pregiudiziale.
L'articolo 17 al comma 3 e al comma 6 prevede due situazioni diverse e dètta - per queste due situazioni diverse - due diverse regolazioni. Leggendo alcune memorie che sono state depositate, che sono negli atti della Commissione, e leggendo il Resoconto stenografico di alcune delle audizioni che sono state tenute davanti a questa Giunta, devo dire che il ragionamento che è stato fatto a questo proposito è più o meno il seguente: si tratta di due situazioni – la situazione prevista dal comma 3 e la situazione prevista dal comma 6 – di cui una relativa alla coalizione vincente che raggiunge e supera il 55 per cento dei voti validamente espressi, ed un’altra al comma 6 che è relativa alla coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei seggi. Il ragionamento che si è fatto è che si tratta di due situazioni assimilabili: l'una, quella relativa alla coalizione vincente che raggiunge il 55 per cento, compiutamente regolata dal legislatore al comma 3, in quanto è una coalizione che ottiene dall'elettorato un premio di maggioranza, direttamente dall'elettorato e per il quale poi è prevista una soglia di sbarramento infracoalizione del 3 per cento; mentre per quanto riguarda il comma 6, che regola il caso della coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei voti, allora ecco che lì è previsto un premio di maggioranza attribuito dal legislatore, ma non è prevista, almeno non a livello testuale, una soglia di sbarramento analoga quella prevista invece nell'altro caso dal comma 3 dell'articolo 17.
Allora il ragionamento che si fa è il seguente: si tratta di due situazioni assimilabili, cioè due specie di uno stesso genere, l'una quella prevista dal comma 3 dell'articolo 17 che il legislatore ha compiutamente e congruamente disciplinato, l'altra quella prevista dal comma 6 che il legislatore non ha compiutamente e perciò non ha congruamente disciplinato: il legislatore non avrebbe previsto la soglia di sbarramento del 3 per cento - al riparto dei seggi all'interno della coalizione - per un errore, una svista, una dimenticanza o per la fretta.
Dunque è un ragionamento che viene a fare una serie di assunzioni: l'errore, la dimenticanza, la svista, la fretta del legislatore; il fatto che le due situazioni sono assimilabili, sono simili; il fatto che la regolazione prevista per una delle situazioni dal comma 3 è compiuta, è congrua, mentre si avrebbe una regolazione incompleta nell'altra situazione simile. Allora, fatte queste prime, diciamo, asserzioni si dice che l'interprete degno di tal nome - una interpretazione resa a regola d'arte - deve semplicemente attraverso l'uso di un procedimento analogico (oppure di una interpretazione estensiva) leggere il comma 6 dell'articolo 17 come se prevedesse lo sbarramento anch'esso del 3 per cento.
Ora io credo che tutta questa serie di asserzioni - l'errore del legislatore, il fatto che le due situazioni sono simili, il fatto che una situazione è compiutamente regolata e l'altra situazione è incompiutamente regolata, la possibilità dell'interpretazione estensiva o analogica di una regolamentazione rispetto all'altra situazione - tutta questa serie di asserzioni è una serie di asserzioni non esatte; soprattutto non è esatta, secondo me, l'asserzione di fondo, la premessa, il nucleo e cioè il fatto che si tratta di situazioni assimilabili, di due specie che appartengono ad uno stesso genere: una specie regolata compiutamente dal legislatore, una seconda specie regolata incompiutamente dal legislatore per un errore, per una fretta, eccetera; quindi contesto la presunzione di una somiglianza delle due situazioni.
Secondo me, le due situazioni (cioè la coalizione vincente che raggiunge e supera il 55 per cento - regolata in un certo modo dal terzo comma dell'articolo 17 - e la situazione prevista dal comma 6 dell'articolo 17, cioè la coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei voti) sono due situazioni diverse, non assimilabili: è il legislatore che ha dettato due regolazioni diverse, e se ha voluto dettare due discipline diverse è perché si tratta di due situazioni diverse!
Lo spiego: nel caso della coalizione che raggiunge e supera il 55 per cento dei seggi si ha una coalizione che ha un bagaglio di consenso di voti, una percentuale di per sé notevole: non ha bisogno del premio di maggioranza, quindi è in grado di sostenere lo sbarramento interno al 3 per cento. Faccio un'ipotesi, diciamo, realistica: una coalizione in una Regione raggiunge il 56 per cento dei voti; all'interno di questa coalizione ci sono 3 liste che non raggiungono il 3 per cento dei voti quindi non superano lo sbarramento. Una lista ha il 2,6 per cento, una lista il 2,4 per cento e insieme fanno il 5 per cento, una lista ha l'1 per cento, totale 6 per cento; 56 per cento ha raggiunto la coalizione, meno il 6 per cento che non si deve calcolare, rimane il fatto che il 50 per cento dell'elettorato è rappresentato e ha una rappresentanza in seggi del 55 per cento. Quindi, il 50 per cento dei voti che si calcolano ha in seggi il 55 per cento.

PRESIDENTE. Professore mi scusi, devo solo pregare il collega Izzo che visto che c'è la sbobinatura può tranquillamente interloquire, come sta cercando di fare: però accendendo il microfono perché sennò non viene registrato; solo questo.

PATRONO. Quindi in termini di rapporti tra voti ottenuti e calcolati e seggi il legislatore ritiene che questa sia una situazione sostenibile in termini di rappresentatività.
Facciamo l'altra ipotesi: una coalizione vincente che raggiunge il 45 per cento dei voti. Il 45 per cento dei voti vuol dire che poi ha il premio di maggioranza, il 45 per cento dei voti avrà in seggi un numeri di seggi equivalente a 55 per cento. Il 45 per cento dei voti, il 55 per cento dei seggi. Facciamo la stessa ipotesi che abbiamo fatto nell'altro caso: tre liste al suo interno, una del 2,6, una del 2,4 e una dell'1; 6 per cento che non si calcola. Quindi dal 45 per cento andiamo al 39 per cento. Il 39 per cento dei voti ha un ammontare di seggi come se avesse ottenuto il 55 per cento dei voti.
Questo - in termini di rappresentatività, di rapporto tra voti e seggi - il legislatore lo ha ritenuto insostenibile e - attenzione, attenzione! - si può fare anche un'altra ipotesi, che quando fu scritta la legge era allo stesso modo realistico ipotizzare: ricordo leggendo gli atti parlamentari che il senatore Passigli aveva addirittura ipotizzato che in qualche Regione nessuna coalizione potesse raggiungere il 20 per cento previsto di voti.
Allora io faccio un'altra ipotesi. Ci sono in lizza tre coalizioni: una raggiunge il 34 per cento e due il 33 per cento. La coalizione che raggiunge il 34 per cento dei voti ha seggi pari al 55 per cento dei voti, dopo di ché dal 34 per cento dei voti che ha ottenuto gli togliamo il solito 6 per cento, rimaniamo con le stesse cifre, dal 34 si va al 28, dunque il 28 per cento dei voti ottenuti da una coalizione controlla un numero dei seggi pari al 55 per cento.
Questo è stato ritenuto, ripeto, dal legislatore insostenibile: attenzione, non è che questa è una cosa, diciamo, che sto dicendo io; ho letto con grande attenzione gli atti parlamentari. Nella discussione finale, prima del voto in Senato, in Assemblea, il senatore Mancino previde il caso di una coalizione che potesse arrivare al 40 per cento dei voti o anche più e disse in questo caso - proprio perché c'è un problema di rappresentatività - sarebbe bene dire che, se una coalizione raggiunge appena (o non raggiunge nemmeno) il 40 per cento dei voti, non deve avere il premio di maggioranza, perché altrimenti questo premio di maggioranza crea problemi tra voti e seggi: un divario che, in termini di rappresentatività, è un costo che noi non ci possiamo permettere.
Ecco perché il 3 per cento è stato inteso come soglia di sbarramento per il riparto interno alle coalizioni per la coalizione che raggiunge e supera il 55 per cento, e non è stato previsto per la coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei voti: si è voluto prevedere in ogni caso per la coalizione vincente un premio di maggioranza, ma si è voluto quantomeno togliere il peso ulteriore della previsione di una soglia di sbarramento all'interno della coalizione del 3 per cento. Questa è, diciamo, la ragione per la quale io vedo che non c'è nessuna ragione di ipotizzare situazioni simili o regolazioni sbagliate, né interventi dell'interprete con cui far finta di non leggere quello che c'è scritto nella legge e di leggervi cose che nella legge non ci sono scritte. Il legislatore, semplicemente, ha voluto regolare due situazioni diverse in due modi diversi. Non so se rendo l'idea.
Seconda domanda. La seconda domanda riguarda la locuzione “liste ammesse”. Ho letto anche qui alcune memorie; ho letto anche le audizioni che così cortesemente mi sono state trasmesse e in effetti in tutte - ma in alcune, soprattutto nella audizione del professor Stefano Ceccanti, con estremo rilievo - il problema delle liste ammesse, cioè la formula e la interpretazione della formula “liste ammesse” all'interno del comma 6 dell'articolo 17 assume una grande importanza: il professor Ceccanti, e del resto anche il professor Luciani, attribuiscono a questa formula “liste ammesse” il valore di un argomento forte, consistente, solido, difficilmente superabile.
Qual è la sostanza di questo argomento? Si dice che, se in apertura del sesto comma dell'articolo 17 si parla di liste ammesse, quali sono le liste non ammesse? Le liste non ammesse saranno quelle che non raggiungono la soglia di sbarramento del 3 per cento; altrimenti come si può, quali sono le liste non ammesse - se noi leggiamo letteralmente la formula - liste non ammesse ai sensi dell'articolo 16? Evidentemente il legislatore, per un errore di drafting, ha sbagliato formulazione, si ritiene, ma in realtà si voleva riferire allo sbarramento infracoalizionale del 3 per cento; altrimenti quali sarebbero le liste non ammesse?
Ora, io vorrei fare due obiezioni che, secondo me, sono importanti a questo argomento che è stato presentato, ripeto, come un argomento molto consistente.
La prima obiezione è che questa formula “liste ammesse” si presenta all'interno di un articolato complesso, come sono spesso complessi gli articolati di questa legge, dove sono previste anche le coalizioni perdenti: questo articolato non parla soltanto della coalizione vincente che non raggiunge però il 55 per cento dei voti; parla della coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei voti, ma dètta una stessa regolamentazione anche per quanto riguarda le coalizioni perdenti.
Allora se questo argomento, se questa formula fosse così solida, così consistente, così fondata allora se ne dovrebbe dedurre una cosa: che la stessa formula nello stesso articolo non può essere applicata e interpretata, intesa in modi diversi a seconda che si tratta della coalizione vincente o della coalizione perdente. Ciò perché a me risulta - forse mi sbaglio, se mi sbaglio chiedo scusa ma è un elemento di fatto - che la clausola di sbarramento del 3 per cento non è stata fatta valere per le coalizioni perdenti, che io sappia...


IZZO. No, io credo che no, credo che no, professore. Fu applicata dalle 26 Corte di appello per tutte le coalizioni, sia quelle vincenti, sia quelle perdenti.

PATRONO. Allora, se questo è il dato di fatto ...

IZZO. La realtà è assolutamente quella che le ho detto, mi creda.

PRESIDENTE. Professore, confermo quello che diceva il collega Izzo; in effetti l'interpretazione - ad opera di tutti gli Uffici regionali presso le Corti di appello che hanno proclamato i senatori, nelle regioni in cui è scattato il premio di maggioranza (Campania, Liguria, Lazio, Marche, Puglia e, naturalmente, Piemonte) - è stata unanime e conforme, sia per la coalizione vincente che per quella perdente, come risulta dagli atti che abbiamo ...

PATRONO. Mi aveva molto sorpreso questo dato di fatto che mi era stato dato e che sarebbe stato inspiegabile sulla base di una stessa formula.

PRESIDENTE. Ci fa piacere che ci sia questo recupero di conoscenza. Ma lei era partito da questa premessa per andare avanti...?

PATRONO. No, no, no. Cade questo argomento di fatto, però rimane il fatto che noi abbiamo un calcolo provvisorio del quoziente, diciamo, circoscrizionale e un calcolo provvisorio dei seggi spettanti a ciascuna coalizione che ha superato il 20 per cento dei voti validamente espressi più anche le liste che hanno superato... Il calcolo è di questo tipo: la somma globale in ogni Regione dei voti presi dalle coalizioni che hanno superato la soglia per conquistare seggi globali, si divide per il numero dei seggi spettanti a ciascuna Regione e ne viene il quoziente circoscrizionale; poi si prende per ciascuna coalizione che ha superato il 20 per cento il totale dei voti delle liste interne a questa coalizione, si divide per il quoziente circoscrizionale e si ottiene provvisoriamente il numero dei seggi di ciascuna coalizione che ha conquistato seggi.
A questo punto devo dire che è diverso il calcolo che viene fatto - il modo di calcolare le modalità di calcolo - per quanto riguarda il coefficiente di coalizione nel comma 3 dell'articolo 17 e nel comma 6 dell'articolo 17, cioè relativamente alle due ipotesi che io ho detto diverse. Per quanto riguarda il calcolo del coefficiente di coalizione del comma 3, bisogna dire che questo calcolo per il quoziente di coalizione si differenzia - ha una modalità di calcolo completamente diversa - dalla modalità di calcolo seguita per calcolare il coefficiente circoscrizionale: ciò nel senso che si devono scorporare i voti per ciascuna coalizione che non raggiungono il 3 per cento e allora per ciascuna coalizione si prende la somma dei voti meno il 3 per cento, si divide per il numero dei seggi provvisoriamente attribuiti a quella coalizione e si ha il calcolo del quoziente di coalizione, dopodiché si calcolano i voti delle sole liste ammesse, perché hanno superato lo sbarramento del 3 per cento, si divide per il quoziente di coalizione e quindi si ottiene per ogni lista il numero dei seggi.
Quindi, altro è il calcolo per il quoziente circoscrizionale – che calcola tutti i voti ottenuti da ciascuna coalizione e calcola tutti i voti perché si determini il numero dei seggi progressivamente attribuiti alle coalizioni ammesse e tutti i voti della coalizione – ed altro è, nel comma 3 dell'articolo 17, il calcolo: qui le modalità di calcolo sono completamente diverse.
Viceversa nel comma 6 che riguarda la coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei seggi, il calcolo - le modalità per calcolare il quoziente di coalizione - è esattamente lo stesso della totalità dei seggi. Noi qui vediamo che, per esempio, al comma 6 divide poi la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista: non parla come all'articolo 3, divide poi la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista ammessa al riparto; parla di ciascuna lista, attenzione!, per ogni coalizione ciascuna lista.
Questo ragionamento può essere, diciamo, revocato in dubbio solo ad un patto, cioè al patto di considerare che nel comma 6 – le parole “a tal fine per ciascuna coalizione di liste” e qui poi “liste ammesse al riparto ai sensi, ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettera b)” – lo si legga alternativamente in una delle letture che sono state proposte.
O, come dice il professor Luciani, il riferimento all'articolo 16 c’è perché nell'articolo 16 è prevista la soglia di sbarramento del 3 per cento: lui dice così, c'è questa indicazione del 3 per cento, questo riferimento all'articolo 16 si riferisce allo sbarramento del 3 per cento. Che io sappia il contenuto di una norma che rinvia ad un'altra norma assume il contenuto della norma a cui si rinvia. L'articolo 16, comma 1, lettera b), numero 1 indica, se lo leggiamo tutto, le coalizioni che andranno ad acquistare seggi e quindi le “liste ammesse” non sono altro che le liste ammesse in quanto fanno parte di una coalizione che acquista seggi.
Oppure si può dire, come dice Ceccanti: per me interprete questa formula – che si riferisce alle liste ammesse ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettera b), numero 1 – si legge come se il riferimento all'articolo 16 comma 1, lettera b), numero 1 non ci fosse, ma come se ci fosse invece riferimento allo sbarramento infracoalizionale al 3 per cento. Oppure anche si dice questo riferimento è incongruo: bisognerebbe leggerlo come se ci fosse un rinvio al comma 3 dell'articolo 17. O addirittura, in pratica – che è poi ciò che tutte queste letture vogliono dire – noi leggiamo il comma 6 dell'articolo 17 come se non ci fosse per tutta una sua parte: del resto negli atti parlamentari, il senatore Passigli, insieme al senatore Manzella, mi pare anche il senatore Villone, ed altri, fecero un emendamento, prima in prima Commissione, che non fu discusso e poi lo reiterarono in Assemblea, in cui chiedevano semplicemente l'abrogazione del comma 6.
Ora tutto questo sforzo di non leggere la disposizione per come è stata scritta dal legislatore (e per leggervi, invece, cose che il legislatore non vi ha scritto) la si può spiegare soltanto a una condizione: a patto di ritenere che le due situazioni a cui si riferiscono i due commi di cui stiamo parlando siano situazioni simili, di cui una è perfettamente regolata, mentre l'altra per un errore non è stata compiutamente regolata; perciò l'interprete deve sforzarsi fino all'inverosimile per porre riparo ad un errore, alla fretta, alla dimenticanza, alla svista del legislatore. Ma, come ho cercato di dimostrare, rispondendo alla prima domanda, non si è trattato di una svista, di una dimenticanza, di una fretta: si è trattato del fatto che il legislatore ha voluto regolare due situazioni diverse in due modi diversi.
Vedete, gli atti parlamentari in una legge di questo tipo, contrariamente a quello che si ritiene da parte di alcuni, hanno secondo me una grande importanza perché si tratta di una legge, la legge elettorale, poco suscettibile di interpretazione evolutiva. Quindi gli atti parlamentari sono molto importanti. Si è detto anche da molti che gli atti parlamentari - rispetto alla 270 del 2005 - sono atti, diciamo, confusi di cui non è facile la lettura; effettivamente la legge è stata approvata ed è stata discussa nell'ultimo periodo della legislatura; il dibattito è stato, diciamo, abbreviato e così via. Secondo me, per quanto riguarda la parte degli atti parlamentari che si riferiscono all'articolo 17 di cui stiamo parlando, essi sono invece molto chiari.
E la chiarezza dipende da questo: ci sono stati - a partire dal senatore Turroni dei Verdi - una serie di Senatori (e molto autorevolmente il presidente Pastore), i quali hanno manifestato l'opinione che le due differenti regolazioni che erano dettate - al comma 3 e al comma 6 - recavano differenze che andavano eliminate. Per essi, il comma 6 andava regolato come il comma 3, per eguagliare la ratio delle due situazioni ritenute da questi illustri Senatori come situazioni simili.
Quindi questo tentativo c'è stato: è stato detto ed è stato ripetuto sia in prima Commissione che in Assemblea. Sono stati presentati sia in prima Commissione, sia in Assemblea tutta una serie di emendamenti; in prima Commissione ricordo l'emendamento Mancino e altri, se non erro, l'emendamento anche Passigli-Manzella eccetera che nascevano tutti da questa cosa: anche se tra di loro erano diversi, perché l'emendamento Mancino prevedeva appunto di cambiare la formula, di togliere in riferimento all'articolo 16 ...
Quindi ci sono stati tutta una serie di Senatori che hanno evidenziato il fatto che c'erano due regolazioni diverse per due situazioni che si ritenevano simili. Hanno anche proposto degli emendamenti; questi emendamenti sono stati votati; non in prima Commissione, perché non ci fu tempo. In prima Commissione, credo che furono votati 48 emendamenti su ....

PRESIDENTE. .... non si conclusero i lavori, tanto è vero che in Aula il provvedimento era senza relatore.

PATRONO. Esatto. Si andò perciò in Aula e il presidente della Commissione, senatore Pastore, tenne un intervento che egli stesso definì una «relazione ombra» in cui tra l'altro reiterò questa sua opinione. Gli altri che avevano questa posizione - cioè ci sono due regolazioni, queste due regolazioni però riguardano situazioni simili allora queste due regolazioni vanno equiparate, la seconda alla prima - proponevano degli emendamenti; invece il senatore Pastore disse: per me basta un interprete, un buon interprete il quale provvederà semplicemente a questa incongruenza.
Allora si può dire che quando la maggioranza bocciò quegli emendamenti che volevano cambiare la formulazione di questi articoli: in realtà li bocciò perché seguiva l'opinione molto autorevole del senatore Pastore di Forza Italia, che allora era della maggioranza; la maggioranza abbia bocciato questi emendamenti perché riteneva che in effetti sulla base di una interpretazione si potesse arrivare ad una applicazione. Ma non è così, perché ricordo che in Assemblea - e non alla fine, ma durante la discussione - sugli emendamenti fu fatto osservare dal senatore Petrini al senatore Pastore che nella questione che ci interessa in via interpretativa se c'era un'incongruenza in via interpretativa, questa incongruenza non si poteva sanare: questo il senatore Petrini ed altri lo ripresero più volte, perché così risulta negli atti parlamentari.
Quindi la maggioranza, quando andò a bocciare quegli emendamenti, sapeva che c'erano due regolazioni diverse: alcuni ritenevano che queste due regolazioni diverse dovessero essere eguagliate. L’Assemblea votò e bocciò gli emendamenti sapendo anche che non si poteva provvedere in via interpretativa, ma perché bocciò gli emendamenti e confermò le due regolazioni?
Perché - ripeto! - il legislatore riteneva che le due situazioni non fossero due situazioni assimilabili, ma che fossero due situazioni diverse che proponevano problemi di rappresentatività di tipo diverso: la soglia infracoalizionale del 3 per cento poteva essere sostenuta, infatti fu ammessa, per una coalizione vincente che raggiungesse o superasse il 55 per cento, ma si ritenne che non potesse ammessa per una coalizione vincente che non raggiungesse il 55 per cento dei seggi e che poteva avere una percentuale di voti molto inferiore al 55 per cento. Altrimenti essa avrebbe dovuto, sul piano della rappresentatività, subire due pesi: un premio di maggioranza notevole rispetto ai voti che potevano essere pochi, e in più la decurtazione delle liste che all'interno non avessero raggiunto il 3 per cento.
Questa è stata la scelta fatta dal legislatore in modo chiaro, non so se rendo l'idea. Ora io voglio dire una cosa e qui mi rimetto alla prima parte della prima domanda: la ratio. Leggendo alcune memorie che sono agli atti della Giunta - e leggendo anche il testo di alcune audizioni - ho l'impressione che mentre, di regola, alla ratio l'interprete arriva dopo una interpretazione compiuta e minuziosa dell'atto legislativo - quindi dopo l'interpretazione letterale, dopo la lettura attenta degli atti parlamentari, c’è l'interpretazione logica, cioè l'interpretazione intesa a mettere le disposizioni dall'atto legislativo in un rapporto di coerenza reciproca (e alla fine, specialmente se queste interpretazioni coincidono, collimano l'interprete è in grado di individuare lo scopo della legge) - invece, secondo me, dal punto di vista logico, si è fatta un'operazione esattamente inversa: si è partiti dalla ratio legis assunta dall'interprete in modo aprioristico, sommario e cioè si è detto qual è la ratio legis di questa legge (il fatto che si vuole assicurare la governabilità, contrastare la frammentazione dei partiti, questo è previsto per la Camera nell'ipotesi di una coalizione vincente che raggiunge i 340 seggi, nel caso di una coalizione vincente che però non raggiunge i 340 seggi, nel caso al Senato in cui una coalizione raggiunge o superi il 55 per cento dei seggi, non è allo stesso modo prevista però per un errore del legislatore) e allora ecco che questa ratio legis dalla quale siamo partiti si impone all'interprete. La ratio lo costringerebbe a fare tutta una serie di operazioni: si arriva a ritenere assimilabili le due situazioni che non sono assimilabili; si arriva a ritenere che vi sia una situazione non è regolata in modo compiuto dal legislatore; si arriva a ritenere che si possa applicare estensivamente – se mai fosse possibile una interpretazione estensiva o analogica in materia di restrizione al diritto fondamentale di elettorato passivo e attivo, in questo caso è passivo – una situazione diversa; si va a vedere negli atti parlamentari. le cui risultanze però vengono lette alla rovescia, come se negli atti parlamentari ci fosse scritto che ci fu una dimenticanza.
Non è vero, non c'è scritta una dimenticanza, non c'è scritto da nessuna parte. Alcuni Senatori hanno ritenuto le due situazioni che dovessero considerarsi assimilabili; la maggioranza ha invece ritenuto di dover confermare una regolamentazione diversa per situazioni diverse e sono le diverse per le ragioni che vi ho detto.
Si è costretti, andando all'interpretazione, a leggere una formula che non è scritta! Il legislatore ne ha scritta un'altra: eppure non vogliamo leggere l'interpretazione scritta dal legislatore, ma vogliamo leggere una cosa che non c'è scritta! Tutto perché la ratio della governabilità, della non frammentazione - che poi sono due lati di una stessa medaglia - dovrebbe imporre anche nel caso che a noi preme una certa lettura; essa obbliga, obbligherebbe il legislatore. Ma non è vero!
Queste esigenze di governabilità, di non frammentazione, eccetera sono graduate; il contrasto alla frammentazione dei partiti politici non è così evidente. Esso c'è ma è graduato in un certo modo; altrimenti non si capirebbe perché alla Camera è stato approvato il cosiddetto emendamento alla soglia De Michelis, per cui alla Camera viene salvata anche la vista che ha è inferiore al 2 per cento, ma che più si avvicina al 2 per cento. Se si fosse voluto fare fino in fondo un'azione di contrasto contro la frammentazione del sistema politico, allora nel calcolo già del quoziente circoscrizionale si dovevano eliminare i partiti che fossero andati al di sotto della soglia del 2 per cento alla Camera - o del 3 per cento al Senato - e invece non si è potuto fare. Tutte queste, voglio cioè dire, sono gradazioni: ecco allora che si è voluto - anche nel caso della coalizione vincente al Senato che non raggiunge il 55 per cento dei seggi - dire va bene, diamo il premio di maggioranza che quindi crea dei problemi tra voti ottenuti e seggi ottenuti, non però anche la soglia di sbarramento al 3 per cento per quanto riguarda il riparto interno dei seggi all'interno delle coalizioni.
Solo così ritorna tutto: l'interpretazione letterale, per cui il testo delle disposizioni si possono leggere così come sono scritte; i lavori preparatori, che dicono chiaramente una cosa coerente a quello che ho detto; l'interpretazione logica delle disposizioni per cui le situazioni sono diverse, e quindi hanno giustamente una regolamentazione diversa, non so se rendo l'idea. Se noi invece ci vogliamo far prendere da una ratio legis aprioristica - e obbligare l'interprete ad una interpretazione conforme fino all'inverosimile del testo legislativo rispetto ad una ratio presa aprioristicamente - allora bisogna rovesciare tutto, come in effetti è stato rovesciato tutto, secondo me.
Io credo che della terza domanda più o meno abbiamo parlato molto, trattando delle liste ammesse al riparto; quindi tutto quello che dovevamo dire lo abbiamo detto.

PRESIDENTE. Va bene, professore. La ringrazio.
Ricordo ai colleghi che adesso è possibile porre domande al professore Patrono. Ricordo che ai senso dell'articolo 13 del nostro Regolamento di verifica dei poteri il ricorrente Intini ha fatto avere delle domande, che ha diritto siano lette per ultime. Cedo prima la parola ai colleghi per vedere se ci sono delle loro osservazioni che si traducono in domande.

Il collega Zuccherini chiede la parola; prego.

ZUCCHERINI. Una sola domanda: non so se al professore è chiaro che non possono essere assimilati il modello elettorale della Camera a quello del Senato, almeno per quello che ho inteso della sua spiegazione, per quanto fluente. È chiaro che lo sbarramento alla Camera è uno sbarramento nazionale e l'altro è uno sbarramento regionale? Quindi è evidente che, diciamo, le percentuali, sono, appunto, quantità di voto numericamente differenti: essendo stati assimilati all'audizione mi pareva che non fosse chiaro.

PATRONO. Io non ho assimilato...

IZZO. Il professore può anche rispondere subito, per cercare di parare il dubbio che pone il collega Zuccherini, e poi dopo facciamo altre domande.

PATRONO. Grazie. Non mi pare nella mia esposizione di avere fatto alcun paragone tra Camera e Senato, se non riferendo il paragone semmai che è stato fatto da altri; soprattutto non è stato fatto nessun confronto tra il 2 per cento e il 3 per cento.
Per la verità, negli atti parlamentari, ho letto che qualcuno, un Senatore o una Senatrice non ricordo bene, ha fatto un paragone tra il 2 per cento e il 3 per cento, che forse sarebbe stato comodo anche a me; ha detto - questo Senatore o questa Senatrice, mi scuso del fatto di non ricordare esattamente di chi si trattasse - che essendo al Senato i seggi da attribuire la metà che alla Camera, il 2 per cento dello sbarramento alla Camera dovesse essere più o meno al Senato del 6 per cento; cioè, scusate, che lo sbarramentodel 3 per cento al Senato dovesse corrispondere ad uno sbarramento del 6 per cento alla Camera.
Questo paragone mi avrebbe giovato, perché mi avrebbe consentito di dire che al Senato - e su base regionale - il 6 per cento è molto alto: prevedere per una coalizione vincente che non raggiunge il 55 per cento dei seggi – e che può avere magari anche il 40 per cento (se non meno) dei voti validamente espressi, che poi, però, con il premio di maggioranza, sarebbero arrivati ai seggi corrispondenti al 55 per cento dei voti – la possibilità di togliere dal 40 per cento le liste, i voti ottenuti dalle liste che non raggiungono il 3 per cento, è un peso in più che il legislatore non ha voluto Ma non ho voluto fare quel paragone, perché mi è chiarissimo che la situazione della Camera è diversa: agire su base nazionale o su base regionale è cosa diversa; i votanti sono diversi, voglio dire che la quantità di elettori, il numero di elettori per la Camera dei Deputati e il numero di elettori del Senato sono diversi.
Per una serie di ragioni è difficile fare questi paragoni; a meno che uno statistico-matematico mi dica altrimenti, aveva ragione il presidente Pastore quando - in risposta a questa osservazione che io vi riferivo - disse: mah, è difficile fare questi calcoli Quindi io, pur conoscendo questa osservazione, non vi ho voluto, diciamo, accedere.

PRESIDENTE. Grazie professore. Collega Izzo, prego.

IZZO. Premetto che mi sono riservato soltanto di partecipare all'ultima audizione e che per scelta io non ho partecipato, o meglio, non ho auscultato le altre audizioni (Il professor Patrono si porta la mano all’orecchio). Credo che vada pure bene questo, ma se lei preferisce altro termine se lo scelga ...

PATRONO. Scherzavo.

IZZO. No, per carità, ci mancherebbe. Scelga lei il termine che meglio fa capire quello che io volevo dire, visto che nella sua lezione ha parlato di interpretazione e da un’ora sta cercando di interpretare tutta quella che era la volontà del legislatore in riferimento a quello che il problema che ci affligge; un problema per il quale stiamo cercando di addottrinarci, per avere una capacità di intervento in maniera serena e determinata, ma assolutamente in rispetto a quella che era la volontà del legislatore.
Io credo che nel suo ragionamento, professore, lei si sia lasciato condizionare - mi consenta anche questo intervento di tipo interpretativo da parte mia, ma ho visto che l'ha fatto anche lei per quanto riguardava la legge – da un assunto: tutto il suo ragionamento è stato imperniato sulla coalizione vincente. Tant'è che lei un attimo prima diceva: per la coalizione perdente hanno fatto un altro ragionamento.
Quindi si è lasciato condizionare dalla coalizione vincente e non ha cercato di approfondire invece quello che era lo spirito; qui ecco la mia domanda: su quella che è una applicazione della norma, non c'è riferimento alla coalizione vincente, ma il riferimento a quella che è la distribuzione dei seggi.
Credo che da quella osservazione probabilmente - se io non fossi intervenuto per chiarirle che le 26 Corti di appello si sono regolate sia per la coalizione vincente che quella perdente - probabilmente sarebbe venuto fuori un ragionamento che avrebbe condizionato il suo intervento. Essendo intervenuto - e avendola corretta - non abbiamo avuto la esposizione reale di quello che lei si era posto nella mente di esplicitare, perché chiaramente è arrivato ad altre conclusioni. Arrivo alla mia domanda e chiudo, professore, perché sennò questo diventa un intervento polemico e assolutamente non è la mia intenzione; io cerco di apprendere da quello che è la sua scienza e conoscenza del problema.
Sulle liste ammesse, mi pare, di non aver appreso alcunché del suo ragionamento; cioè quando il comma 6 parla delle liste ammesse, lei si è avviato, però mi pare, che non ci abbia chiarito questo aspetto. Le sarei grato se cortesemente, sia pure in maniera molto sintetica, potesse spiegarci questo. Se poi può ricordare, nella sua esposizione (e ho chiuso con queste due domande) che vi è agli atti una relazione; lei invece ha ricordato un po' tutti gli interventi - di Passigli, Mancino, i vari emendamenti in Aula - credo anche gli emendamenti che non furono nemmeno illustrati (non si votò nemmeno con dichiarazioni di voto; furono emendamenti votati tutti quanti in prosieguo, furono votati tutti in prosieguo, professore! Questo è un altro aspetto che mi ha lasciato un attimo perplesso). Ma della volontà del Parlamento – perché, quando è votato, è volontà del Parlamento, non di una maggioranza – che mi dice, professore?

PATRONO. La ringrazio delle domande.

PRESIDENTE. Professore, mi scusi un attimo. Quando lei si è posto, in sede di argomentazione iniziale, la domanda se lo stesso tipo di atteggiamento ci fosse stato nei confronti delle coalizioni vincenti e delle coalizioni perdenti in ogni ufficio elettorale regionale, io non l’ho interrotta per offrire la precisazione che invece ha dato il senatore Izzo con la sua interruzione. Non l’ho fatto solo perché l’ordine della discussione – di cui porto la responsabilità – include la sua aderenza all’ordine del giorno: è evidente che essendo il relatore della regione Piemonte – ed essendo sul Piemonte incentrato il lavoro di questo Comitato inquirente – io non posso che conoscere il dato della regione Piemonte; del resto, anche come componenti della Giunta abbiamo conosciuto e deliberato solo su due Regioni: Piemonte e Valle d'Aosta.
Approfitto per completare il lavoro con le due domande che propone il ricorrente, in modo che lei dia una risposta poi esaustiva su tutto. Le domande che ci ha fatto pervenire nei termini il ricorrente, e che non facendosi osservazioni do per ammesse, sono queste.
Prima: esiste un orientamento della Corte costituzionale sfavorevole all'interpretazione analogica o estensiva in materia di diritti costituzionali ed in particolare di elettorato passivo?
Seconda: è possibile desumere dai lavori preparatori della legge n. 270 del 2005 argomenti contrari al tenore letterale della disposizione dell'articolo 17 comma 3 e seguenti della legge in questione?
Vorrei che lei rispondesse alle domande che ha formulato il collega Izzo e alle domande che provengono invece dal ricorrente. Grazie.

PATRONO. Ringrazio il senatore Izzo perché mi consente di completare il mio ragionamento.
Comincio dalla relazione del presidente Pastore. Che io sappia il presidente Pastore non ha compiuto una relazione vera e propria, ma come lui stesso ha detto, ha compiuto una «relazione ombra» ...

PRESIDENTE. Professore mi scusi in modo che poi gli interpreti che verranno potranno avere materiale preciso e non ulteriormente interpretabile.
Chiariamolo perché resti agli atti. I lavori della Commissione non vengono completati; il Regolamento del Senato prevede che in questo caso il provvedimento richiamato dalla calendarizzazione in Conferenza dei capigruppo viene comunque in Aula: Vi arriva senza il relatore; è evidente che un minimo di funzioni vengono assicurate e svolte dal Presidente della Commissione, essenzialmente per dar conto degli sviluppi procedurali che hanno ostato al completamento dei lavori in referente. In quel caso il collega Andrea Pastore non parlava da relatore, ma svolgeva una funzione che comunque diversa da quella del relatore, in quanto Presidente della Ia Commissione. Prego.

PATRONO. Il presidente Pastore, proprio per le ragioni che ha riferito il presidente Manzione, non ha fatto una vera e propria relazione perché non la poteva fare, ma ha fatto una «relazione ombra» (peraltro completata dal fatto che agli atti parlamentari il presidente Pastore ha fatto poi allegare una sua relazione più ampia in cui ha dato conto di molte cose). Io lo stimo moltissimo perché so l'impegno che il presidente Pastore ha messo nel dirigere la Ia Commissione, anche in Assemblea, e per la sua autorevolezza; lo stimo anche per il fatto, me lo consenta, che il presidente Pastore ad un certo punto dei suoi interventi - non ricordo se in 1a Commissione o in Assemblea - di non essere un professore di università, di non essere cattedratico, ma di essere un allievo, disse, del grande Vezio Crisafulli. E Vezio Crisafulli era un grandissimo professore di diritto costituzionale del quale anch'io, immodestamente, sono stato allievo; se non ho imparato a sufficienza da lui la colpa è solo mia. E quindi questo, oltre che fatto apprezzare, mi ha reso Pastore immediatamente anche simpatico.
Però il presidente Pastore non parlava a nome del Parlamento. Il presidente Pastore parlava come autorevole Presidente della 1a Commissione; a proposito, peraltro, noi stiamo parlando qui dell'articolo 4 della futura legge n. 270 (che contiene poi l'articolo 17 tutto questo del quale noi stiamo parlando), che in 1a Commissione non si arrivò a discutere e a votare, neppure in riferimento ai vari suoi emendamenti, perché ci si fermò molto prima. Quindi egli non poteva parlare a nome del Parlamento; egli esprimeva la sua autorevolissima, ma personale opinione. Non se se rendo l'idea.
Ho detto di alcuni autorevoli Senatori i quali hanno sostenuto la loro personale posizione, secondo cui c'erano due situazioni assimilabili trattate in modo diseguale: essi ritenevano invece che il trattamento di queste due situazioni dovesse essere uguale, cioè dovesse essere anche per le coalizioni che non raggiungessero il 55 per cento dei seggi la stessa.
Per quanto riguarda il fatto delle liste delle coalizioni vincenti che non raggiungono il 55 per cento dei seggi e delle coalizioni perdenti, ritengo che i miei argomenti siano validi sia per l'una che per l'altra, molto semplicemente: il mio ragionamento è valido nel senso che - se l'articolo dice ciò che dice - lo dice sia per le coalizioni vincenti, che non raggiungono il 55 per cento dei voti, sia per le coalizioni perdenti.
Per quanto riguarda l'ultimo problema che lei, senatore Izzo, poneva - e cioè per quanto riguarda la formula liste ammesse - io vedo che qui nel comma 6 la formula liste ammesse è citato solo una volta ed è citato in riferimento alla o alle coalizioni di liste che partecipano e conquistano seggi: c'è un riferimento esplicito “ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettera b), n. 1” che c'è scritto, il legislatore l'ha scritto e secondo me lo ha voluto scrivere e tenere fermo, bocciando gli emendamenti specificamente rivolti ad eliminare queste parole.
“Liste ammesse” sono le liste comprese nelle coalizioni che conquistano voti ai sensi dell'articolo citato: se il legislatore ha voluto tenere fermo a questa regolamentazione perché, come ripeto, in questo caso, ci sarebbero stati problemi di rappresentatività per le coalizioni vincenti, perché è lì che vale in modo particolare il problema della rappresentatività. È il problema del rapporto tra voti ottenuti e seggi ottenuti perché è lì che scatta il premio di maggioranza che sposta: se al premio di maggioranza ci andiamo anche ad aggiungere il 3 per cento la rappresentatività che fine fa?
Quando una coalizione vincente – come già Mancino si era da politico espertissimo ed intelligentissimo, mi consenta di dirlo, si era rappresentato – non raggiunge o raggiunge appena il 40 per cento, c’è stato chi aveva dubbi sul darle il premio di maggioranza: per costoro sarebbe stato bene prevedere una soglia per il premio di maggioranza perché altrimenti che cosa facciamo? Quaranta per cento di voti, 55 per cento di seggi? È una cosa pesante e in più ci mettiamo anche il fatto che tra i voti ci togliamo i voti ottenuti dalle liste che non raggiungono il 3 per cento: diventava una cosa che può essere in termini di rapporto voti-seggi (quindi in relazione al problema della rappresentatività) una cosa molto pesante. Ecco perché il legislatore – che ha voluto regolare in questo modo la questione del premio – non si è sentito invece di regolare l’altra, diversa questione della soglia nella maniera in cui alcuni illustri ed autorevoli Senatori consigliavano.
Mi pare che dei lavori preparatori più o meno ne abbiamo parlato. Resta il quesito della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di elettorato passivo.
Esiste un costantissimo - tranne una piccola riserva che ora vi farò, per completezza - un costantissimo orientamento della Corte costituzionale il quale orientamento va da una prima sentenza importante che, se non ricordo male è del 1972, la n. 166 del '72, e arriva fino al 2006: costantissima tra il 1972 e il 2006 (tranne una sola sentenza completamente isolata nel corso della giurisprudenza, tanto che è stata studiata per la sua anomalia: mi pare sia del '96, mi pare che fosse relatore il professor Onida). Snodandosi all'interno di una serie di sentenze nutritissime, la giurisprudenza costantissima della Corte ha detto che il diritto di elettorato passivo è un diritto fondamentale, è uno dei diritti fondamentali ai sensi dell'articolo 2 della Costituzione, i quali non sopportano altre restrizioni se non tassative, necessarie, proporzionate. Le norme che prevedono queste restrizioni ad un diritto fondamentale - come sarebbe questa, di applicare la soglia del 3 per cento dove non c'è scritto - sono norme soggette a interpretazione restrittiva: la Corte costituzionale ha ripetuto sempre che in materia di norme che pongono restrizioni all'elettorato passivo, l'interpretazione estensiva (ed il ricorso all'analogia, ammesso che tra le due figure vi sia una qualche differenza, cosa che non è ben chiara) non è consentita. È una giurisprudenza talmente costante, che è stata ripetuta (non solo nella soluzione di tutti i casi numerosissimi relativi alla ineleggibilità, incompatibilità ai vari casi, alle varie cause, alle varie rimozioni di cause di illegittimità, ma anche) come princìpio più generale in materia di norme che pongono restrizioni all'elettorato passivo.

PRESIDENTE. Grazie professore. Ringrazio lei per l'audizione, ringrazio moltissimo i colleghi perché questa è stata un'audizione nella quale c'è stata la possibilità di affrontare una vasta serie di argomenti; in qualche modo tutto il bagaglio di audizioni precedenti è servito per poter approfondire degli aspetti.
Ricordo ai colleghi che sulla base della votazione consumata dalla Giunta l’11 ottobre scorso resta al Comitato inquirente un ultimo adempimento: quello di convocare in audizione il Presidente dell'Ufficio elettorale regionale del Piemonte ed il Segretario responsabile della stesura del modello 65 elezioni politiche. Non facendosi osservazioni, tale adempimento che verrà consumato mercoledì 13 dicembre alle ore 14, dopodiché il Comitato inquirente avrà ultimato i compiti che la Giunta gli ha affidato.

La seduta termina alle ore 15,30.


GIUNTA DELLE ELEZIONI E DELLE IMMUNITÀ PARLAMENTARI
Comitato inquirente per il Piemonte

MERCOLEDÌ 13 DICEMBRE 2006
7ª Seduta


Presidenza del Relatore
MANZIONE

Intervengono il dottor Mario Quaini, presidente dell'Ufficio elettorale della regione Piemonte, e la dottoressa Maria Stefania Ruscazio, segretario responsabile della stesura del MOD. 65 (E.P.).

La seduta inizia alle ore 14,10.

Audizioni in ordine all’interpretazione dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 533 del 1993

PRESIDENTE. Se siamo pronti cominciamo con il Comitato inquirente della Regione Piemonte; colleghi, vi ricordo che le audizioni sono state programmate ai sensi della deliberazione della Giunta dell’11 ottobre scorso con cui si è accolta la proposta del relatore di non procedere né alla contestazione né alla convalida del seggio del senatore Turigliatto in ragione di un’esigenza di approfondimento delle tematiche esposte nel ricorso dell’onorevole Intini.
Tale esigenza è stata ritengo fin qui soddisfatta con lo svolgimento che si è consumato nel mese di novembre e di dicembre nelle audizioni dei sei docenti universitari che erano stati scelti per cercare di offrire una risposta alla interpretazione della legge, perché sappiamo che l’attività istruttoria che viene condotta da un organismo specifico - il comitato inquirente è previsto dall’articolo 13 del Regolamento di verifica dei poteri - si è soffermata proprio sui dubbi che sono sorti circa l’interpretazione della legge elettorale dopo la modifica che è stata varata nella scorsa legislatura.
La Giunta ha autorizzato il Comitato inquirente a svolgere le sei audizioni dei sei docenti universitari, che abbiamo svolto, e a completare i suoi lavori con l’audizione del Presidente e del segretario dell’ufficio elettorale del Piemonte relativamente ad alcune questioni contenute nel verbale della Regione Piemonte.
Quindi ci apprestiamo a completare le nostre audizioni sentendo prima il dottor Marco Quaini, già Presidente della IV sezione penale del Tribunale di Torino ed attualmente magistrato di Corte d’appello, che è stato per l’appunto Presidente dell’ufficio elettorale regionale per il Piemonte; ascolteremo poi il segretario dell’ufficio elettorale regionale per il Piemonte in quell’occasione, che è la signora Ruscazio.
Ricordo ai colleghi presenti che si procede alla registrazione delle audizioni e quindi l’unica cortesia che chiedo è che, quando i colleghi volessero intervenire, dovranno sincerarsi che il microfono è acceso; altrimenti poi la trascrizione della registrazione non potrà essere fatta.
Presidente Quaini, le rivolgo tre domande così come abbiamo fatto fin qui con tutti gli auditi; lei però comprenderà che la sua posizione è sostanzialmente diversa. Con i sei docenti universitari noi volevamo comprendere quali erano complessivamente le interpretazioni possibili rispetto alla norma che avevamo al nostro esame: in questa prospettiva abbiamo audito i professori Vassalli, Lanchester, Patrono, Luciani, Agosta e Ceccanti. Con lei invece vorremmo affrontare qualcuno dei problemi che sono nati dopo aver visionato il verbale che è stato redatto per la Regione Piemonte: di tale verbale ho qui a mie mani l’originale, ed una sua copia le sarà consegnata per seguire meglio il mio dire.
La prima domanda è questa: nel dire che l’ “Ufficio, presa visione della memoria presentata nell’interesse della Rosa nel Pugno, delibera di proseguire nelle operazioni attenendosi alle indicazioni contenute nel modello 65 elezioni politiche ritenendone fondato il presupposto” (e cioè che la legge preveda l’ammissione al riparto dei seggi delle sole liste che hanno ottenuto almeno il 3 per cento dei voti validi espressi sul piano regionale), fu compiuta una scelta: quella cioè di ritenere fondato il presupposto del modello.
Effettivamente il ministro dell’interno Amato ha confermato che il modulo predisposto dal Ministero dell’interno - per l’appunto il modello 65 E.P. (elezioni politiche) - era costruito in modo da presupporre una particolare interpretazione della legge elettorale, quella secondo cui la legge prevedeva l’ammissione a riparto dei seggi delle sole liste che avevano ottenuto almeno il 3 per cento dei voti validi espressi su piano regionale. L’Ufficio si sentì orientato dalla tecnica redazionale del modello, oppure procedette autonomamente ad un’analisi interpretativa dell’articolo 17 della legge elettorale per il Senato prima di respingere l’esposto?
Prego, Presidente: questa è la prima domanda.

QUAINI. Per rispondere alla prima domanda che mi ha fatto – se l’Ufficio elettorale si sentì vincolato, diciamo, a seguire l’indirizzo che offriva il modello 65 oppure no – mi sento di rispondere nel senso negativo, nel senso cioè che l’Ufficio elettorale, proprio a seguito della memoria presentata dalla lista Rosa nel Pugno, si riunì e esaminando questa memoria valutò proprio tutta la normativa dell’articolo 17. Ricordo anche - perché ho fatto in questi giorni uno sforzo di memoria e mi sono fatto anche aiutare dai miei colleghi che facevano parte dell’Ufficio elettorale regionale - che noi ci siamo sentiti anche con gli uffici elettorali di Roma e di Milano, se non sbaglio, e abbiamo poi insieme verificato e insieme abbiamo detto che secondo noi l’interpretazione era quella di richiedere per tutti la soglia del 3 per cento.
So che c’è stato nell’ambito del nostro Ufficio elettorale una discussione, che è durata abbastanza; ci sono state inizialmente anche delle perplessità perché, appunto, come si sa adesso (non dico niente di nuovo), il testo normativo dà adito a delle perplessità interpretative…
Questo è per quanto riguarda la prima domanda che lei ha fatto; escludo quindi che sia seguito questo orientamento, questa interpretazione, solo perché il modello era predisposto in quel modo. Noi eravamo già pronti a modificarlo e adattarlo a diversa interpretazione che sarebbe stata data.

PRESIDENTE. Grazie Presidente. Certo, mentre comprendo che possa essere compatibile una consultazione della regione Lazio - che si trovava nelle stesse condizioni - già per la Regione Lombardia (che era sopra soglia) diventa per noi un poco più complesso immeginare la ragione: sappiamo che la fattispecie che ha determinato il dubbio interpretativo si coglie laddove abbiamo una coalizione che ha il diritto al premio di maggioranza perché non ha raggiunto il 55 per cento. Mentre nel Lazio questa situazione (così come in Piemonte) si è verificata, in Lombardia non si è verificata.
Salutiamo il senatore Augello, nuovo componente della Giunta, che ci ha raggiunto.
La seconda domanda che le faccio è questa, Presidente: se l’operazione interpretativa fu approvata avendo a mente la legge, concorsero in essa anche elementi ad essa estrinseci, ma preparatori, come gli atti parlamentari? Preciso in proposito che per atti parlamentari vanno intesi solo quelli inerenti alle discussioni in cui fu poi approvata la legge, e non atti di provenienza delle due Camere. Potrebbe, quest’ultima, apparire una precisazione inutile, se non fosse che l’Ufficio elettorale regionale per il Lazio (che lei ha citato prima) citò a sostegno di una analoga reiezione da un lato la pagina 35 del Manuale elettorale diffuso dalla Camera dei Deputati (Servizio studi, datato 1° marzo 2006), e dall’altro lato una nota sui sistemi elettorali diffusa dal sito telematico del Senato della Repubblica. Prego.

QUAINI. Cioè lei mi ha chiesto se il.......

PRESIDENTE. In quel momento l’Ufficio elettorale ha compiuto l’interpretazione dell’articolo 17 basandosi soltanto sulla norma e sugli atti preparatori o, come è successo nella Regione Lazio, si è basato anche su elementi che non costituiscono atti da considerare (perché i vari atti che gli uffici della Camera e del Senato possono predisporre, per illustrare una legge già approvata, sicuramente non sono atti preparatori - così come vengono intesi dalla dottrina - per aiutarci ad interpretare la legge).

QUAINI. Le dirò che l’Ufficio si è limitato solo all’interpretazione della norma; non abbiamo avuto né la possibilità di consultare gli atti preparatori o comunque atti propedeutici alla preparazione della legge. Ciò anche perché c’erano dei tempi molto stretti; si richiedeva la comunicazione del risultato finale in termini molto...

PRESIDENTE. Può anche dire – se vuole – che la legge era fatta male; saremmo tutti d’accordo con lei.

QUAINI. No, mi limito a ricordare che c’era nel decreto di scioglimento la previsione che le Camere si riunivano in una data molto prossima; adesso non ricordo più le date, ma era una data molto prossima rispetto al termine dello scrutinio, per cui non c’era molto tempo.

PRESIDENTE. Ultima domanda, Presidente. In un’interrogazione parlamentare riferita alla modalità di stesura dei verbali delle ultime elezioni per il Senato, si sostenne che il rango e la dignità valutativa di appartenenti all’ordine giudiziario avrebbe suggerito, agli Uffici elettorali regionali, che si barrassero le parti del modello 65 inconferenti con una corretta applicazione della legge, invece di trincerarsi a volte dietro di esse per emettere provvedimenti di rigetto.
Ma effettivamente, anche grazie alla modalità prescelta di ristesura informatica del modello, vi furono delle parti in cui l’Ufficio da lei presieduto si distanziò dal modello. L’Ufficio elettorale regionale procedette a compilare il paragrafo 13 del verbale, a pagina 27, limitatamente all’attribuzione di seggi nove alla coalizione facente capo a Romano Prodi; lasciò invece totalmente in bianco la parte del paragrafo che l’avrebbe indotto ad effettuare un calcolo, in cui modello gli imponeva di porre come numeratore della frazione il totale delle cifre elettorali circoscrizionali di tutte le liste facenti capo alla coalizione. Di talché l’unica frazione operata è stata quella del prospetto allegato al verbale, che al numeratore poneva soltanto il totale delle cifre elettorali circoscrizionali delle liste che nella coalizione avevano conseguito più del 3 per cento. Se si riteneva fondato il presupposto del modello ministeriale, come mai si lasciò solo parzialmente compilato il paragrafo 13 del modulo? L’Ufficio avvertiva la contraddizione tra il percorso procedimentale individuato dal verbale al paragrafo 13 e quello da loro seguito nel prospetto? Perché fu scelto l’uno anziché l’altro?

QUAINI. Ricordo che il paragrafo 13 non venne compilato e completato, perché in Piemonte vi erano solo due liste, anzi, mi correggo, due coalizioni di liste: una volta assegnato il premio di maggioranza ad una lista, l’altra lista rimaneva coi seggi residui e quindi non c’era bisogno, a nostro parere d’ufficio, di completare le altre. Ciò perché il paragrafo 13 si riferisce al comma 5 dell’articolo 17, che prevede la suddivisione dei seggi tra le coalizioni di liste restanti dopo aver individuato la lista, diciamo vincente, cioè quella al quale è stato attribuito il premio di maggioranza. Non so se sono stato chiaro.

PRESIDENTE. È stato chiarissimo, se non fosse per il fatto che l’articolo 17 prevede anche la possibilità - dopo aver valutato se esistono più, chiamiamole così, coalizioni perdenti, fra le quali vanno suddivisi i seggi che restano una volta attribuito il premio di maggioranza - di stabilire qual è il coefficiente elettorale che serve poi all’interno della coalizione per attribuire i vari seggi; nel caso specifico nella Regione Piemonte c’erano soltanto due coalizioni, una vincente e l’altra perdente.
Non a caso, però, Presidente, il paragrafo 13 venne inizialmente - sempre elettronicamente - completato, aggiungendo chiaramente il numero di nove che era relativo alla Regione, mentre per il resto viene abbandonato, anche se - ribadisco -quella determinazione serviva a stabilire quale era il coefficiente elettorale che poi si usava come base di calcolo per l’attribuzione dei singoli seggi. Sul discorso infracoalizionale sono d’accordo con lei, perché il quel caso c’erano solo due coalizioni quindi non bisognava stabilire se ...

QUAINI. ... se ripartire i seggi.

PRESIDENTE. Sì, perché sennò accade che il coefficiente elettorale - che è un dato fondamentale nella stesura del verbale - non appare all’interno del verbale, così come è previsto con le modalità previste per il calcolo, mentre invece appare soltanto nel prospetto allegato, che è cosa molto diversa. Ciò proprio perché la funzione dell’articolo 17 è duplice: nell’un caso e nell’altro.

QUAINI. Sì, l’Ufficio ha fatto solamente sotto quel profilo, sotto il profilo di attribuire alla...

PRESIDENTE. Ma poi non cambiava niente, utilizzando qualunque tipo di coefficiente: nella Regione Piemonte non sarebbe cambiato niente, era solamente come fatto formale che la cosa è stata da noi rilevata. Visto che c’era una previsione espressa che nasceva dal verbale, ci siamo chiesti come mai prima si segue quella previsione e poi ci si arresta.

QUAINI. Scusi se la interrompo, qui l’abbiamo fatto per quella considerazione che ho detto prima: c’era una sola coalizione, oltre a quella vincente. Allora abbiamo lasciato scoperte le altre voci e poi ci siamo richiamati all’indicazione del prospetto, nell’indicazione del ....... difatti si dice....

PRESIDENTE. Presidente, io sono d’accordo con lei; il prospetto però di solito serve solo ad estrinsecare i calcoli che nascono dai dati che sono previsti nel verbale. Il verbale stabilisce il coefficiente, il verbale stabilisce il numero dei seggi; poi nel prospetto si provvede ad utilizzare il numeratore e denominatore per arrivare....

QUAINI. ...bisognava indicarlo anche il prospetto; qui c’è stata una omissione.

PRESIDENTE. Va bene. D’accordo. Se non ci sono domande da parte dei colleghi, io la ringrazio per la disponibilità e procediamo oltre, in una ulteriore audizione. Grazie Presidente.

(Il dottor Quaini abbandona l’aula; viene quindi introdotta la signora Ruscazio)

PRESIDENTE. Riprende l’audizione con la signora Ruscazio, che è stata segretaria dell’ufficio regionale per il Piemonte.
Anche per lei ci sono tre domande.
La prima: il Comitato è particolarmente interessato alla modalità prescelta di ristesura informatica del modello 68, che ci risulta inedita nel panorama italiano. Anzitutto può dirci se essa derivò da una scelta dell’Ufficio regionale o della sua segreteria; ci può dire poi se - assunta questa decisione - ci si attivò presso il Ministero dell’interno per ottenere la versione elettronica del modello cartaceo, per posta elettronica o per supporto magnetico, o se invece fu effettuata la scansione del cartaceo con i mezzi dell’Ufficio piemontese?

RUSCAZIO. La scelta è stata fatta dal nostro Ufficio per il fatto che ogni giorno arrivavano i fax in cui ci si raccomandava di far pervenire i risultati il più presto possibile. Allora, visto che è un lavoro di notevole difficoltà, abbiamo pensato, però con i nostri strumenti, di “scannerizzare” il modello cartaceo che c’era arrivato dal Ministero: siamo riusciti a farlo con i mezzi del nostro ufficio....

PRESIDENTE. I fax di sollecito ai quali faceva riferimento, venivano da dove?

RUSCAZIO. Venivano proprio dal Senato; ci sollecitavano, ci ricordavano che la data di inizio della Legislatura era fissata per il 28 aprile: loro quindi ci sollecitavano a far pervenire comunque i dati, mi sembra entro il 23 o il 24 di aprile. Tra l’altro poi la cosa cadeva anche in un periodo un po’ particolare, perché c’erano anche le vacanze di Pasqua; quindi parecchio personale era in ferie.
Allora noi, vista tutta questa cosa, visto anche che si chiedevano ben sei copie, a questo punto abbiamo deciso così, abbiamo fatto questa proposta: ci siamo messi lì e con i nostri mezzi abbiamo “scannerizzato” al computer il modello 65; abbiamo controllato che le pagine corrispondessero, insomma che fosse completo, dopodiché abbiamo operato su questo testo. È però stata una scelta dell’ufficio; non abbiamo chiesto alcuna autorizzazione.

PRESIDENTE. Se si decide di rendere lavorabile il modello mediante la sua trasposizione informatica, è evidentemente perché si ritiene che esso contenga delle cose superflue che invece di essere barrate, come avviene usualmente, possono essere addirittura omesse. Invece, ad una attenta riesamina del verbale approvato dall’ufficio regionale piemontese, non risultano differenze rispetto al modello di verbale neppure nelle parti non compilate che furono mantenute, sia pur lasciate in bianco senza alcuna barra che segnalasse la volontà di non utilizzarle.
Le risulta che, rispetto alla decisione iniziale di informatizzare il verbale, ve ne siano state poi altre, nel senso di non avvalersi di tutte le potenzialità che lo strumento informatico prescelto offriva? Se vi sono state, tali decisioni precedettero o sopravvennero alla stesura della pagina 19 del verbale, che è quella nella quale c’è la motivazione di rigetto dell’esposto che venne presentato all’epoca dal rappresentante della Rosa nel Pugno? Prego.

RUSCAZIO. Noi abbiamo operato su questo; il testo è stato inserito perché è stato proposto un ricorso - e allora se ne è dato atto sul verbale - ma sempre tenendo presente come modello il modello 65 del Ministero. Io altro non so, anche perché mi dettavano: quelli di noi che eravamo lì, diciamo, riportavamo sul computer quello che ci diceva la Commissione, quello che ci diceva il nostro Presidente.
Più che altro, è stata presa la decisione di “scannerizzare” proprio perché se ne chiedevano, mi sembra, ben sei copie se non mi sbaglio: ricopiarle tutte a mano sarebbe stato un lavoro veramente impegnativo e quindi abbiamo preferito questa strada.

PRESIDENTE. Benissimo. Ultima domanda: le consta che si sia posta la questione di mantenere in vita nel verbale la parte del paragrafo 13 - la prego di guardarlo - lasciata in bianco, o che si sia posta la questione quanto meno di barrarla? E le consta che nella stesura del verbale di uffici di segreteria dell’Ufficio regionale per il Piemonte siano stati attivati nella ricerca di precedenti parlamentari? Erano presenti nella sala di riunioni collegamenti informatici, telematici o telefonici con siti utili ad espletare ricerche normative o giurisprudenziali e, se sì, furono utilizzati?

RUSCAZIO. Guardi, che io sappia no, da quello che mi ricordo, il paragrafo 13 è rimasto in bianco perché in base....

PRESIDENTE. La invito a considerare che non è rimasto in bianco, perché ha la specificazione dei seggi.

RUSCAZIO. Non l’abbiamo compilato....

PRESIDENTE. Ma non l’avete neppure barrato, mentre ...

RUSCAZIO. Probabilmente è stato ritenuto superfluo barrarlo, perché - in base alla decisione che era stata presa - là si dava per scontato che non .... l’abbiamo, appunto, tutti sottolineato, però, in base ... (sfogliando l’originale del verbale sottopostole dal Presidente) se vede poi comunque qui alla fine viene barrato ...

PRESIDENTE. Sì, però mi scusi: se lei lo riguarda insieme a me, il paragrafo 13 serve - una volta stabiliti quali sono i seggi che vanno attribuiti alla coalizione perdente, dopo che alla coalizione vincente sono stati attribuiti i seggi, il cosiddetto premio di maggioranza, che consentono di arrivare per lo meno al 55 per cento - questo paragrafo serve non solo a sapere come vengono suddivisi (qualora ci fossero più coalizioni perdenti i seggi residui), ma serve anche a stabilire qual è il coefficiente elettorale che si deve poi utilizzare per attribuire i seggi alle singole liste.
La cosa anomala è che voi cominciate a compilarlo specificando nove e non continuate ad utilizzarlo, benché le abbia detto un attimo fa che il modello ministeriale era per voi la guida alla quale comunque avevate deciso di attenervi per arrivare ai calcoli. Nell’allegato invece, nel prospetto allegato che dovrebbe essere un prospetto utile soltanto per estrinsecare le modalità di calcolo, viene indicato un coefficiente elettorale che non coincide con la procedura prevista nel paragrafo 13: voi cioè iniziate ad utilizzare il paragrafo 13 specificando nove, dopodiché non dovreste utilizzarlo - e quindi dovreste barrarlo per quanto riguarda le altre coalizioni perché, in questo caso, la coalizione perdente è una soltanto - ma avreste dovuto utilizzarlo per stabilire qual era il coefficiente elettorale, perché lo prevede espressamente la modulistica.
Voi non solo non fate questo, come Ufficio elettorale regionale del Piemonte, ma utilizzate il prospetto allegato - che dovrebbe servire soltanto per specificare le modalità di calcolo, quindi per dare l’opportunità di verificare fisicamente come sono state eseguite le attribuzioni - per determinare un quoziente elettorale che è assolutamente diverso da quello che sarebbe risultato se aveste utilizzato quel paragrafo 13. Ecco perché c’è l’anomalia di un paragrafo che in parte viene utilizzato e in parte no: nella parte non utilizzata resta in vita, perché non viene barrato come dev’essere. Se lei su questo ha qualche ricordo, che ci consente di ricostruire la vicenda, oppure prendiamo atto ...

RUSCAZIO. No, assolutamente: noi, appunto, operavamo al computer sotto dettatura. A questo punto quindi ci fu chi mi disse: prenda questo, si fa questo, prenda quell’altro, ecc…. Noi eravamo dei semplici esecutori, diciamo così; ecco, non mi ricordo altro. Non mi ricordo proprio. Qui solo hanno sbarrato.

PRESIDENTE. Io chiedo ai colleghi se ci sono domande. Non vene sono.
Signora, la ringrazio per la disponibilità e dichiaro chiusa l’audizione del Comitato inquirente per la Regione Piemonte. Grazie. Avverto che il mandato conferito al Comitato dalla Giunta l'11 ottobre scorso si è esaurito e che riferirò in Giunta sulle sue risultanze, che sono tutte conferite nel fascicolo a disposizione delle parti, aperto per consentire loro di esercitare le facoltà loro conferite dal Regolamento di verifica dei poteri.

La seduta termina alle ore 14,50.