4º Resoconto stenografico
SEDUTA DI GIOVEDÌ 2 agosto 2001
Presidenza del presidente CARUSO
INDICE
* BOBBIO Luigi (AN) 3, 7, 16 e passim
* CALVI (DS-U) 7, 13, 14 e passim
CASTELLI, ministro della giustizia 14
DALLA CHIESA (Mar-DL-U) 9
CONSOLO (AN) 14
I lavori hanno inizio alle ore 14,35.
PROCEDURE INFORMATIVE Seguito delle comunicazioni del Ministro della giustizia sulle linee programmatiche del suo Dicastero
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito delle comunicazioni del Ministro della giustizia sulle linee programmatiche del suo Dicastero.
Ricordo che, ai sensi dell’articolo 33, comma 4, del Regolamento, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo, e informo che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso. Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori. Ricordo inoltre che anche per questa seduta è attivo un servizio di stenografia sostanzialmente in tempo reale dei lavori della Commissione. Di conseguenza, il resoconto sommario apparirà in forma sintetica; tale servizio ha altresì carattere sperimentale e quindi questa comunicazione è valida solo per questa seduta. Riprendiamo pertanto la discussione sospesa nella seduta del 31 luglio. I senatori che desiderano porre domande al Ministro della giustizia hanno facoltà di parlare.
BOBBIO Luigi (AN). Signor Presidente, signor Ministro, oltre ad averne seguito l’illustrazione nelle precedenti sedute, ho letto con grande attenzione le sue note in tema di amministrazione della giustizia in generale. È inutile dire che, proveniendo da un’esperienza di quindici anni presso la magistratura inquirente di Napoli, ho un particolare interesse, se non addirittura una passione, per la materia. Sono stato quindi realmente contento di cogliere in molti passaggi della sua relazione una reale attenzione per alcuni aspetti che io stesso reputo veramente fondamentali per il riavvio, perché credo di questo si possa e si debba parlare, della macchina giudiziaria e quindi del potere giurisdizionale nel nostro Paese.
Vorrei solamente fare alcuni brevi cenni, per tentare di fornire un contributo utile a disegnare e precisare questo schema generale, che però mi sembra nelle sue linee portanti abbia compreso e inquadrato gran parte dei problemi che affliggono la giustizia. Sono stato particolarmente contento, pur essendomi occupato di magistratura inquirente per quindici anni, di verificare che il primo punto di attenzione nella relazione è stato destinato alla giustizia civile. Non c’è dubbio che essa, con la sua profonda crisi, che ormai dura da troppo tempo, rappresenta un problema generale per la sicurezza degli affari e per il mondo del commercio; il nostro Paese purtroppo è divenuto ormai una sorta di «Paradiso degli insolventi» a causa della crisi della giustizia civile. In Italia da parecchio tempo, a causa della lentezza della macchina giudiziaria civile, la certezza per il creditore di vedere soddisfatte le sue pretese e aspirazioni in relazione ad un debitore insolvente è ormai cosa dimenticata. È pertanto indispensabile porre mano alla riforma della giustizia civile anche per un’altra ragione, che reputo assolutamente non secondaria e che si lega poi al problema della criminalità nel Mezzogiorno d’Italia. Lei, signor Ministro, deve considerare – immagino che lo sappia già, ma lo voglio solo ribadire in questa sede – che la crisi profonda della giustizia civile in Campania, regione dalla quale provengo, e in generale nel Mezzogiorno, rappresenta un fortissimo terreno di fioritura del potere e della cultura criminale. Troppo spesso alcune fasce della popolazione, nella difficoltà estrema di giungere al soddisfacimento dei propri diritti e interessi in sede giudiziaria civile, a causa della lungaggine dei processi e di altre difficoltà, non hanno alcuna remora nel rivolgersi al capoclan, al capozona o all’«uomo di rispetto» del quartiere per ottenere il suo intervento e il pronto soddisfacimento delle loro aspettative nei confronti, ad esempio, del proprio debitore. Questa è una situazione che, inutile sottolinearlo, rappresenta un momento di inammissibile, inaccettabile e pericolosissima legittimazione del potere criminale, che in questi casi si pone come sussidiario di uno Stato che nel settore ha dimostrato fino ad oggi di non volere in nessuno modo assolvere realmente e concretamente ai propri compiti. Quindi, l’attacco alla crisi della giustizia civile rappresenta certamente un aspetto importantissimo nell’ambito del riassetto generale dello Stato e nella rinnovata «presa di possesso» da parte di quest’ultimo del controllo di certi meccanismi sociali in condizioni patologiche, che sicuramente, una volta rimossi questi ostacoli, potranno costituire degli strumenti importantissimi nell’attività di contrasto alla criminalità organizzata in generale. Infatti, attraverso fenomeni come quello descritto la criminalità organizzata acquisisce fasce di consenso; aspetto questo pericolosissimo, perché quando la criminalità passa dal livello della semplice violazione delle leggi al piano dell’acquisizione del consenso da parte dei cittadini, che in essa ripongono aspettative di soddisfacimento dei propri diritti ed interessi, allora si va verso una situazione altamente rischiosa e esplosiva dal punto di vista del rapporto corretto e reale tra Stato e cittadini. Prima di passare ad altri aspetti della relazione e del problema giustizia in generale – il cui esame, mi rendo conto, richiederebbe tempi lunghissimi, se si volesse effettuarlo in maniera analitica, anche se sempre per singoli punti – credo che dovremmo anche renderci conto in qualche maniera che dal punto di vista lessicale espressioni come «servizio giustizia», che appartenevano ad un certo associazionismo magistratuale della fine degli anni ’70, inizi anni ’80, finiscono con il raggiungere un risultato negativo. Credo che, quando parliamo dei problemi legati alla giustizia, dovremmo più correttamente parlare di «potere giudiziario», posto che l’espressione «servizio giustizia» finisce con l’istillare nelle coscienza una sensazione di riduttività del potere giudiziario, che invece, proprio per essere uno dei tre poteri dello Stato, va inquadrato agli occhi dei cittadini anche dal punto di vista della sua rilevanza formale. Il recupero di efficienza del potere giudiziario non è certo disgiunto dalla sua natura; tale potere costituisce una delle articolazioni principali, se non la principale, dello Stato di diritto ed ha sicuramente un dovere di efficienza. Il potere giudiziario, come tutti gli altri poteri, ha la necessità imprescindibile, per continuare a legittimare se stesso agli occhi dei cittadini, di perseguire il più alto grado possibile di efficienza. Quindi anche in questo modo, cioè mutando questo genere di espressioni, si rende un buon servizio alla risoluzione di determinati aspetti di crisi. Peraltro, relativamente a quelle che saranno poi le singole attività di ripristino dell’efficienza del potere giudiziario vorrei sottolineare che sarebbe opportuno che sia la magistratura, che l’Avvocatura, come da diverso tempo e da più parti si viene dicendo, facessero entrambe un passo indietro rispetto agli atteggiamenti degli ultimi anni. Non c’è dubbio che la magistratura deve assolutamente fare un passo indietro rispetto all’atteggiamento esorbitante che ha mostrato negli ultimi anni, di sovente caratterizzato da vere e proprie interferenze, non ho difficoltà ad ammetterlo come magistrato, nell’attività del potere legislativo. Non c’è dubbio che vi sono stati casi di specifici comportamenti, specialmente in taluni settori della magistratura associata, che, un po’ perché chiamati in causa, un po’ perché espostisi direttamente, hanno prodotto vere e proprie forme di interferenza, o fornendo giudizi anticipati su questa o quella legge in gestazione o in itinere o ponendo veti. Credo che tutto ciò non sia ammissibile e non rientri nella normale dialettica fra i poteri dello Stato. Bisognerebbe in qualche maniera far comprendere, specialmente a certa magistratura associata, che il compito primario, esclusivo, del potere giudiziario è quello di procedere all’applicazione delle leggi che lo Stato nelle sue articolazioni legislative pone, innanzi tutto, al servizio dei cittadini. Questo ritengo sia un passaggio importante. Peraltro ritengo sia un passaggio altrettanto importante anche quello di una sorta di passo indietro dell’Avvocatura. Non c’è dubbio che l’Avvocatura, specialmente negli ultimi anni e in questo introducendo un elemento non del tutto in sintonia, anzi direi distonico con il sistema così come è disegnato nelle sue linee generali, ha voluto farsi in qualche maniera soggetto esponenziale di interessi collettivi, di interessi generalizzati. Non credo che sia un atteggiamento produttivo ai fini di una corretta dialettica interna e esterna dello Stato con gli altri soggetti, perché volersi fare, da parte di soggetti che sono per elezione e per definizione portatori ed esponenti di interessi singoli – ed é giusto e doveroso che sia così proprio a garanzia dei cittadini – - improvvisamente portatori di interessi generali, sottraendo questo spazio e compito di fatto ad altri soggetti – questi sì istituzionali e realmente esponenziali di questi interessi – significa in qualche maniera «drogare» la dialettica corretta tra i poteri istituzionali. Un passo indietro da parte di entrambe queste categorie credo che sia il prius imprescindibile di un riavvio corretto della discussione generale sulle attività giudiziarie. Ancora, ritengo sia importante che lo Stato, e quindi il Governo e il Parlamento, nell’accingersi ad affrontare dall’origine i grandi problemi della amministrazione giudiziaria, dovrebbe in primo luogo assumere una precisa posizione e riprendere una sorta di consapevolezza, vale a dire che lo Stato, nelle sue varie articolazioni a ciò istituzionalmente preposte, è il luogo ove sostanzialmente si compongono degli interessi. Vi sono gli interessi della collettività e quelli dei singoli cittadini. Tra gli interessi di questi ultimi vi é certamente quello del reo, dell’imputato o della persona che comunque si trovi ad essere inserita in un meccanismo giudiziario. Ebbene, ritengo che in questo momento una delle gravi fonti di crisi del sistema giudiziario, sia quello civile che quello penale, ma in questo caso parliamo soprattutto di quello penale, sia uno squilibrio che si é maturato e consolidato negli anni passati. Ciò perché, a fronte di un’esigenza di contemperamento di questi interessi si è creato un grosso squilibrio a favore della tutela dell’interesse del reo e dell’imputato in generale – e alcune norme più o meno recenti ne sono una dimostrazione –, al punto che si è arrivati ad una sorta di dimenticanza totale dell’interesse generale della collettività, con ciò facendo venir meno una delle funzioni più importanti dell’amministrazione giudiziaria, che noi tecnici chiamiamo general-preventiva, o la stessa funzione repressiva; basta pensare ai problemi legati alla certezza della pena e della sua esecuzione. É importante procedere ad una nuova ricognizione degli interessi in gioco e ad un riequilibrio della situazione normativa in termini di cura e tutela degli interessi, che devono trovare il loro giusto campo di tutela e di espansione. Vorrei ricordare che il nostro è un paese molto particolare se confrontato con lo scenario di gran parte del mondo occidentale, un paese che vive una realtà criminale molto particolare e che, soprattutto nelle regioni meridionali, vive fenomeni consolidati, ormai difficili da attaccare, di criminalità organizzata. Ebbene, ritengo che un aspetto ormai non più differibile da affrontare seriamente sia, ad esempio, quello dell’ipotesi di un doppio binario nella giurisdizione penale. Non è più dubitabile che la delinquenza di fatto ormai si divida sostanzialmente in due categorie. Da un lato, vi sono coloro che una volta nella vita incappano nelle maglie della giustizia penale e commettono singoli episodi o fatti delittuosi, o comunque si rendono responsabili di singoli fatti delittuosi o di fatti delittuosi non inquadrabili nella scelta di vita della delinquenza organizzata. Per questi soggetti il sistema processuale attualmente vigente rappresenta – ne sono convinto – una forma di civiltà, una conquista di civiltà, in qualche maniera un approccio giusto a situazioni che richiedono una forma di garanzia – e non vorrei essere frainteso in quello che dico – molto avanzata. Ciò non può farci dimenticare però che esistono forme di criminalità organizzata molto forti e molto radicate, specialmente nel meridione d’Italia, che irridono di fatto la giustizia penale e le sue norme, specialmente quelle processuali, infilandosi quotidianamente, e parlo per un’esperienza pluriennale e specifica sul campo, tra le maglie di quello che viene comunemente definito, con un brutto termine che tra l’altro non corrisponde alla realtà ma che viene comunemente usato, il garantismo del processo penale. Vi sono delle situazioni di delinquenza organizzata che necessitano di una presa d’atto, e non sono il solo a dirlo. Alcuni aggiustamenti significativi al sistema processuale penale, in relazione a determinate tipologie di reato di criminalità organizzata, vanno sicuramente fatti. Vanno fatti non per rendere squilibrato il sistema, ma, al contrario, per riequilibrarlo in relazione a forme di criminalità che possiamo definire, con una terminologia costituzionale, diseguali rispetto ad altre forme delinquenziali. Ritengo che vi sia un dovere di ripristino della giustizia anche sotto questo aspetto. Inoltre, non è da dimenticarsi un altro atto aspetto importante nel problema generale della giustizia penale: quello della depenalizzazione, al quale faccio pertanto riferimento nell’ambito di queste mie considerazioni. La depenalizzazione è un aspetto importantissimo che non può essere affrontato come nelle scorse legislature. E non mi si venga a dire che si è fatta una depenalizzazione seria abolendo il duello; credo che tutti sono d’accordo con me nel dire che in Italia indagini o processi relativi a duelli dal dopoguerra ad oggi non ce ne sono stati.
CALVI (DS-U). Non è stata l’unica norma depenalizzata su cui abbiamo lavorato in questa Commissione. BOBBIO Luigi (AN). Di questo le do atto, però certamente abbiamo notato che la depenalizzazione ha riguardato un delitto che doveva invece essere mantenuto nel Mezzogiorno per una questione di controllo sociale, vale a dire l’oltraggio a pubblico ufficiale; con la sua depenalizzazione è venuto meno il controllo sociale di certe forme di devianza, e quindi delle sue manifestazioni più spicciole ma molto frequenti, ad esempio, nella città di Napoli o comunque nel Mezzogiorno. Adesso, violando una serie di meccanismi di lavoro, di attività, di cultura, di mentalità, si pretenderebbe di arrivare alla persecuzione dell’oltraggio con la querela del pubblico ufficiale. Questo non accadrà mai o almeno accadrà di rado e ciò serve anzi ad innescare dei meccanismi di conflittualità stradale tra pubblici ufficiali e una certa categoria di cittadini, che non fanno altro che elevare il livello di tensione. Anzi, in alcuni casi ciò non potrebbe far altro che portare il pubblico ufficiale a comportamenti non del tutto deontologici unendo alla denuncia, alla segnalazione per oltraggio, quella per lesioni, che finirebbe per rendere procedibile d’ufficio il fatto incriminato.
Dobbiamo quindi renderci conto che una vera depenalizzazione deve essere fatta perché nel nostro sistema il diritto penale è eccessivo, ma deve essere fatta non solo tenendo conto dei reati che realmente appesantiscono il sistema; occorre infatti considerare che l’eccessiva penalizzazione del nostro sistema sotto il profilo dell’introduzione di sempre nuove figure di reato non ha fatto altro che ridursi ad un tentativo non dignitoso, per uno Stato che si ritenga compiutamente tale, di porre rimedio ad una generalizzata inefficienza dei controlli amministrativi. Quasi sempre, soprattutto negli ultimi anni, l’introduzione di nuove fattispecie di reato ha poi generato effetti perversi e ha portato anche all’espansione eccessiva ed incontrollabile del potere di controllo dell’autorità giudiziaria su meccanismi sociali che invece non richiederebbero affatto queste forme di controllo per porre rimedio all’inefficienza della macchina dei controlli amministrativi. Bisognerebbe depenalizzare una serie di materie che sono inutilmente sottoposte alla tagliola del diritto penale, con la conseguenza di appesantire senza speranza la macchina della giustizia penale, non assicurando neppure efficaci forme di controllo e incrementando in misura eccessiva il numero dei procedimenti, che poi finiscono con il cadere in prescrizione, senza arrivare ad una soluzione e lasciando scoperti determinati comportamenti sia dalla sanzione penale che da quella amministrativa. Non c’è dubbio, in altre parole, che l’aspetto importantissimo della depenalizzazione non possa e non debba essere disgiunto da una pesante rivisitazione e ristrutturazione della macchina dei controlli amministrativi. Non dimentichiamo che in moltissime materie, come ad esempio la materia ambientalistica, quella del lavoro ed altre, è arrivato, a mio avviso, il momento di arretrare la soglia del controllo massimo (quella cioè del diritto penale) e di portare alla massima espansione ed efficienza possibile la macchina della tutela amministrativa e delle sanzioni amministrative applicate ed applicabili in concreto. Ecco che allora il sistema acquisterebbe, dal punto di vista della giustizia penale, una sua reale e maggiore efficienza e, dal punto di vista dei controlli amministrativi, un suo concreto significato. Credo che, in generale, la macchina dello Stato sia in questo momento molto squilibrata, molto «fuori giri» e «fuori regime»; una serie di compartimenti che si sono confusi l’uno con l’altro e che ora è arrivato il momento di riportare ognuno nel suo alveo, restituendo efficienza massima ad ognuno di essi. Depenalizzazione, quindi, ma con reale attenzione all’introduzione di meccanismi di controllo amministrativi; quindi sanzioni amministrative da applicarsi e da rendersi effettive, considerando che molto spesso la sanzione amministrativa anche pecuniaria, anzi specialmente quella pecuniaria, finisce per essere e per rappresentare un fattore di controllo sociale molto più efficace che non una sanzione penale vaga, incerta, aleatoria e, molto spesso, per non dire sempre, ineseguibile non solo a causa dei tempi della giustizia, ma anche a causa dei vari meccanismi «perdonistici», pensiamo alla sospensione condizionale della pena, all’oblazione, alle prescrizioni, alle amnistie, agli indulti, ai condoni e quant’altro; questo è sicuramente un aspetto centrale. Purtroppo ci sono moltissime altre cose di cui vorrei parlare ma il tempo stringe. Vorrei solo spendere un’ultima battuta sulla cosiddetta separazione delle funzioni o delle carriere (su questo c’è da intendersi) e per farlo prendo spunto da quelle che, ritengo, siano esigenze primarie. Noi italiani abbiamo il malvezzo di ritenerci sempre un po’ più furbi, un po’ più bravi e un po’ più esperti degli altri. Non ho mai condiviso culturalmente questo processo, lo ritengo inadeguato al nostro paese e alla nostra civiltà. Da non poco tempo, dal 1989, abbiamo introdotto un sistema processuale penale di tipo accusatorio, privilegiandone però un modello misto, spurio, non puro quindi; sarebbe opportuno, visto che si è compiuta una scelta, portarla alle sue naturali e normali conseguenze. Mi rendo conto che si tratta di scelte anzitutto filosofiche, posto che la filosofia anglosassone in termini di diritto e di filosofia in generale è certamente diversa dalla nostra; una volta scelto il sistema non possiamo, però, permetterci un sistema giudiziario e processuale «inquinato» (lo dico in senso buono) come quello attuale. Una delle scelte che va assolutamente compiuta è quella della netta distinzione tra l’attività inquirente e giudicante; è una distinzione che può essere giocata sul piano delle funzioni e non delle carriere ma va fatta e affrontata. In tal senso condivido anche pienamente la scelta di attuare in maniera forte una reale parametrazione della composizione del Consiglio superiore della magistratura alle componenti della magistratura stessa. Vista la forte caratterizzazione come parte pubblica non è più sostenibile che presso l’ufficio del pubblico ministero il CSM continui ad applicare e ad imporre criteri di lavoro ordinamentali e strutturali che sono certamente propri, e devono essere propri, del giudicante ma non possono più essere propri della magistratura inquirente. Ritengo, quindi, necessario introdurre, in vista poi della separazione delle funzioni e quindi – credo – di una opportuna separazione fra magistrati inquirenti e giudicanti, il correttivo di una reale rappresentatività degli uffici del pubblico ministero nel Consiglio superiore della magistratura.
DALLA CHIESA (Mar-DL-U). Signor Presidente, innanzi tutto mi scuso per non essere stato presente nel momento delle comunicazioni del Ministro ma ero, come i colleghi Zancan e Calvi, impegnato in una missione tenutasi a Genova con i senatori dell’Ulivo.
Ci sono alcune ragioni di dissenso e alcune di consenso rispetto alla relazione che lei ha presentato. Cercherò di illustrare sinteticamente le une e le altre sottolineando, anzi, che se ci sono forti ragioni di perplessità e forti ragioni di critica su alcuni punti; ci sono però anche forti inviti ad andare avanti nella direzione che lei ha tracciato circa altri aspetti che mi sembrano rilevanti nel suo programma. Partiamo innanzi tutto dal quadro generale in cui viene inserito il programma: quello del conflitto fra politica e magistratura e quello del mancato funzionamento del principio della separazione dei poteri di Montesquieu. È un quadro che torna tra le righe della sua esposizione e credo dovremmo ragionare bene sulle radici di questa confusione sulla quale, credo, sia impossibile non consentire. Il momento cioè in cui il magistrato assume un ruolo di supplenza nei confronti del politico, è il momento in cui, ad esempio, un mugnaio si chiede se esiste un giudice a Berlino come ultima salvezza, quando l’autorità politica non funziona. Se nella storia sociale italiana questa azione di supplenza della magistratura è stata svolta e in un primo tempo accettata da una larga parte dell’opinione pubblica e poi è diventata pesante anche per quella parte di opinione pubblica, è proprio perché l’autorità politica ha abdicato alle sue funzioni. Di questo sarebbe stato utile trovare forse qualche traccia perché in una riflessione generale ci sta bene anche una periodizzazione, una precisazione delle responsabilità dei soggetti che concorrono a determinare il corretto funzionamento di uno Stato. Visto anche che da parte sua c’è un riferimento continuo al senso delle istituzioni democratiche, cercherò di seguire la sua traccia. Concordo anch’io sulla necessità di accordare una priorità inedita alla giustizia civile. La giustizia civile viene sempre ricordata nei convegni sulla giustizia, ma, nel corso degli stessi, dopo aver affermato che essa è in Italia molto lontana dagli standard europei, ci si indirizza sui temi urgenti della giustizia penale, tradizionalmente oggetto di scontro all’interno del ceto politico. Considero poi corretto il rapporto sottolineato dal senatore Bobbio tra il funzionamento della giustizia civile, il grado e le forme dello sviluppo economico e gli spazi che possono ritagliarsi dentro il sistema economico gli interessi illegali. Ho poi delle perplessità (parlo però di perplessità non di critiche forti), nel senso che vorrei un ulteriore chiarimento sulle intenzioni con le quali ci si muoverà o si progetta di muoversi per giungere ad un razionalizzazione del processo; ho delle perplessità sulla ricetta della privatizzazione della parte istruttoria del procedimento civile, perché credo che, come è stato anche detto da altri colleghi, questo provocherebbe uno squilibrio, una diseguaglianza tra le parti in gioco, che non rimarrebbe senza effetti sulla capacità del sistema di fornire una giustizia giusta ed efficiente. Mi piacerebbe capire se ci sono allo studio delle modalità che consentano alle parti di avere non una piena, ma almeno una accettabile parità nella possibilità di raggiungere la giustizia. Mi trovano ovviamente in pieno accordo i suoi riferimenti alle forme nuove che possono intervenire nel corso del procedimento o nella risoluzione del procedimento, dall’arbitrato alla conciliazione, alla figura del notaio; cioè, l’effetto deflattivo che lei persegue con chiarezza sia nella giustizia civile sia, come vedremo dopo, nella giustizia penale. Per quanto riguarda invece la giustizia penale, lei parte dalle tre certezze: del reato, del processo e della pena. Su questo mi vengono alla mente le critiche più convinte. In sé il riferimento al reato come fatto realmente avvertito e offensivo per i cittadini è indiscutibile, ma lo è fino ad un certo livello. Infatti – e la prego di tenerne conto anche nella formulazione di indirizzi generali – ci sono dei reati che in un certo momento storico possono essere considerati, per molte ragioni – anche per un dato ideologico o per il fatto che arrivano in un certo momento – reati poco importanti che poi invece si rivelano reati molto importanti, perché nella quiescenza o nel sonno degli spiriti quei comportamenti si rivelano particolarmente nocivi alla società, non sentiti, ma nocivi. Credo che la nostra storia ne sia piena. Noi non abbiamo avvertito in certi momenti come pericolosi – e mi riferisco agli anni ’70 – alcuni comportamenti violenti, che poi si sono manifestati come nocivi, anche se larga parte dell’opinione pubblica li sottovalutava. Abbiamo sottovalutato dei reati legati alla corruzione che poi hanno fatto collassare il sistema politico. Quindi, bisogna stare attenti su cosa si pensa che sia realmente avvertito come offensivo dai cittadini e su quali sono le responsabilità che ha un sistema politico nel definire un reato come reato sul quale è giusto dal punto di vista istituzionale, ed anche dal punto di vista etico, mantenere alta l’attenzione. D’altra parte, noto una contraddizione tra un sentimento, attualmente molto avvertito dai cittadini, quale la tutela dell’ambiente, che sta balzando ai primi posti tra i beni pubblici che il cittadino ritiene non debbano essere offesi, e le prime misure che il Governo ha assunto, che tendono a considerare i reati commessi contro l’ambiente come reati minori, che possono essere amnistiati in modo massiccio. C’è una contraddizione che va colta. Mi permetto di vedere come consequenziale al suo ragionamento, il rapporto tra il reato avvertito come offensivo dai cittadini e il contenuto di questo suo primo punto. In effetti, signor Ministro, in questo suo primo punto, anche leggendolo con attenzione, non si trova una dottrina sulla certezza del reato, magari espressa in pillole, ma un riferimento al reato che, come sappiamo e come so io per aver fatto parte nella scorsa legislatura della Giunta per le autorizzazioni a procedere, sta più a cuore al suo partito. Sono i cosiddetti reati di opinione, che non sempre sono tali e che molte volte – come è stato ricordato dal senatore Bobbio – si estrinsecano in un oltraggio, e l’oltraggio non è un reato di opinione. Non so come sia stato possibile individuare in questo senso venti articoli del codice penale da abrogare o riformulare. Come sanno anche i suoi colleghi di partito, sono contrario ai reati di opinione, sono per la loro abolizione, ma il contesto nel quale tale progetto viene proposto, anche con riferimento all’associazionismo e alla libera manifestazione del pensiero, non mi convince. Non vorrei, infatti, che nell’associazionismo rientrassero anche le associazioni paramilitari, notoriamente bandite dalla Costituzione. Se potessi esprimere un disagio, con tutta la correttezza formale possibile, direi che di fronte a questa impostazione del suo programma sulla certezza del reato, tema generalissimo, soffro il disagio di riconoscervi una sorta di conflitto di interessi tra i procedimenti in corso a carico di esponenti di spicco del suo partito e l’interesse primario, che anche successivamente lei dimostra per questo tema, affermando che nei primi cento giorni il Governo affronterà tale questione come anche quella della riforma del diritto societario, cioè del falso in bilancio. Il secondo punto del suo programma riguarda la certezza del processo. I punti di riferimento che lei fissa mi trovano d’accordo. Le devo confessare però che quando leggo che «occorre ridefinire i rapporti tra polizia giudiziaria e pubblico ministero» penso a qualcosa su cui mi ritrovavo d’accordo fino a 15 giorni fa. Dopo quello che è successo a Genova ho forti perplessità a sostenere questa separazione, vedendo quanto ancora sia precario il quadro delle garanzie in Italia. Sono d’accordo sul fatto che il problema esista, signor Ministro, sono d’accordo sul fatto che ci sia il problema di come rendere le indagini più efficaci, ma qui si sta cercando davvero di «sposare gli opposti». A volte si può teorizzare che ci si riesca e che anzi i matrimoni migliori siano quelli che si realizzano tra gli opposti, ma francamente, in un quadro di garanzie come quello che abbiamo davanti, se si vogliono salvaguardare rigorosamente le garanzie, operare in questa direzione crea una contraddizione che difficilmente può dare esito positivo nel funzionamento generale del sistema della giustizia. Sono anche d’accordo sui limiti che lei pone: tassatività dei motivi di appello, allargamento delle procedure in camera di consiglio a tutto ciò che può consentire una durata ragionevole del processo. Su tale questione sono intervenuto recentemente a proposito delle rogatorie, osservando come alcuni emendamenti nuocessero o potessero nuocere ad una ragionevole durata del processo. Mi trovo dunque d’accordo con l’impostazione relativa alla certezza del processo, perché troppo spesso, più che difendere gli imputati, si è teso a difendere gli stessi dalla celebrazione del processo. Anche sulla certezza della pena non ho critiche da rivolgere al modo in cui è stata presentata la sua idea e il suo programma di lavoro. La giustizia deve prima di tutto proteggere le vittime, difendere gli innocenti. Bisognerà poi che questa rimanga la stella polare. Spesso, infatti, si parte così e poi nella gestione generale della giustizia Abele scompare e diventano nettamente superiori i diritti di Caino, che ci sono e vanno riconosciuti. Troppe volte, però, negli ultimi tempi abbiamo visto i diritti di Caino superare quelli di Abele. Se questa rimane la stella polare del suo lavoro e della sua opera a me va benissimo. Credo poi importante sottolineare la sua attenzione per la questione penitenziaria. Lei si pone il problema dei molti extracomunitari che stanno in carcere per lievi reati e propone anche delle ricette aventi come riferimento il proverbio, dotato di un certo afflato, «memento audere semper». Le chiedo quanto questo sia in linea con la parola d’ordine della tolleranza zero. Sfollare le carceri consentendo agli extracomunitari che hanno commesso lievi reati di tornare in patria a patto di rinunciare all’ingresso clandestino – se l’avessimo scritto noi su una legge ci avreste giustamente indirizzato qualche motteggio – credo sia piuttosto difficile. Come fa colui che ha commesso un reato ed è in carcere a dare garanzie di rinuncia all’ingresso clandestino in Italia? È una formulazione un po’ vaga, ma «audiamo» pure, cioè osiamo e vediamo se è possibile decongestionare le nostre carceri rimandando a casa una parte di questi detenuti. Sono molto convinto, invece, della proposta che lei fa di introdurre il lavoro, e in particolare il lavoro socialmente utile, soprattutto nelle carceri: su questo sono disposto a battermi con lei. Sono d’accordo, e l’invito ad andare avanti su questa strada, soprattutto con riferimento ai minori. Condivido – e l’ho anche scritto, sono anche intervenuto sugli argomenti che lei solleva – l’opinione secondo cui c’è un’eccessiva indulgenza nei confronti dei minori che commettono reati gravi. Mi riferisco all’omicidio: non credo che il nostro sistema possa continuare ad avvalersi di perizie psichiatriche per consentire a chi uccide a 17 anni e mezzo una persona di ottenere tre anni di lavoro socialmente utile, che poi significa fare il bibliotecario da qualche parte. Credo che il sistema debba svolgere un’azione educativa anche nei confronti dei minori, affinché possano cogliere il senso che può avere l’omicidio di una persona e il valore di una vita. Dunque, il lavoro socialmente utile, soprattutto quello che punta a risarcire e quindi a sostenere i più deboli, a restituire, ad esempio, ai portatori di handicap qualcosa che la società toglie loro, attraverso chi si è macchiato di certi delitti, rappresenta una linea molto più educativa di quella che viene scelta attualmente. Su questo la sosterrò perché mi sembra che possa essere una delle innovazioni più meritorie tra quelle che vengono prefigurate. Mi accingo a terminare il mio intervento. Per quel che riguarda l’ordinamento giudiziario non ravviso alcuno scandalo per la sessione speciale sui temi della sicurezza e della giustizia, se è questo di cui vogliamo parlare. Ben venga se non sarà il Parlamento a dire ai magistrati ogni anno che cosa devono fare, ma invece sarà prevista una riflessione che poi potrà produrre anche dei risultati in termini di scelte della magistratura: una riflessione libera sullo stato della sicurezza e della giustizia. Penso che ciò possa fare solo bene al Paese e dare una maggiore consapevolezza dei problemi esistenti. Sono altrettanto d’accordo, e anche su questo la sosterrò, ad introdurre dei parametri di valutazione sull’attività del magistrato. Anche questo è molto difficile, come le avranno detto e come è già stato osservato. Dal 1988 sono contrario alla sacralità del principio di anzianità; ne ho fatto una questione non solo personale, allorché, per mere ragioni di anzianità, venne preferito Antonino Meli a Giovanni Falcone alla guida dell’Ufficio istruzione di Palermo. È importante introdurre parametri professionali di capacità di lavoro e di valutazione del servizio reso al Paese: è difficile, però credo sia un orizzonte da fissare in sostituzione dell’altro. Sono d’accordo anche con la figura degli ausiliari dei giudici. Se posso dirlo, ma non perché in cauda venenum, il fatto che nei cento giorni le prime cose da fare siano la riforma del diritto societario, l’abolizione dei reati di opinione e poi la riforma del sistema elettorale del CSM – su cui però lei non si è espresso e quindi sui miei appunti ho posto un punto interrogativo: le chiedo poi di spiegarci se ha già in mente quale debba essere questo nuovo sistema elettorale più coerente con il bisogno di valorizzare tutte le culture interne alla magistratura – mi rende un po’ critico; pensavo che fossero altre le priorità del nostro sistema giustizia in riferimento ai primi cento giorni.
CALVI. (DS-U). Signor Ministro, innanzi tutto voglio ringraziarla per la disponibilità che ha mostrato nel partecipare alle nostre discussioni e nell’ascoltarci. Mi auguro che questo sia utile a tutti noi, nel senso che questa Commissione, nella scorsa legislatura, è stata abituata a discutere molto, con franchezza e serenità, e a produrre anche molto, credo in termini positivi. Mi auguro che anche questa volta, con lei Ministro, si possa continuare ad adottare questa linea nei rapporti tra Parlamento e Governo. Il fatto che lei, per così dire, sia stato così disponibile, e così a lungo, ad ascoltare le nostre parole è un segno positivo, che apprezzo.
Sarò molto conciso e spero che apprezzerà questa concisione, anche perché la parte propositiva per ciò che ci riguarda è stata illustrata a lungo, con grande competenza e rigore professionale, prima dal senatore Fassone e poc’anzi anche dal senatore Dalla Chiesa e non voglio ripetere ciò che è stato detto. Francamente debbo far notare, però, che noi – come lei ha visto – oltreché fornirle il contributo necessario affinché l’opera sui temi della giustizia del Parlamento e del Governo possa andare verso le rispettive ottiche – anche in un rapporto dialettico utile per il paese – abbiamo trovato sorprendente che le critiche, le censure forse più severe sono venute dalla sua parte politica. Il tema della separazione delle carriere o dell’oltraggio comportano in qualche modo una sorta di rovesciamento delle posizioni, nel senso che noi siamo attenti e spesse volte concordi con la sua impostazione, mentre alcuni della sua parte politica non lo sono altrettanto. Dico questo in termini positivi, nel senso che mi sembra che ancora una volta questa Commissione manifesti una grande libertà di confronto ed allora sia utile anche a lei verificare la fondatezza di talune prospettive.
CONSOLO. (AN) La giustizia non ha colore, senatore Calvi. CALVI (DS-U). Purtroppo le ultime parole di Dalla Chiesa mi fanno pensare il contrario, ma spero che non sia così.
Mi rendo conto che non è semplice, in breve tempo, prendere atto della complessità dei problemi che riguardano la giustizia e che attengono al governo della politica del diritto. Ho letto con attenzione l’informativa che ci ha lasciato per iscritto e le debbo dire con grande franchezza che l’analisi svolta mi è apparsa talvolta insufficiente. Le proposte che lei avanza non sempre sono condivisibili e, quand’anche talvolta in teoria lo fossero, mi sono sembrate assai generiche e non così precise da consentire un giudizio politico certo. Probabilmente in una indicazione programmatica assai generica così deve essere, ma non mi sento, da una parte, di dover fare il severo censore, né dall’altra di voler aderire con forza alla sua analisi e alle sue prospettazioni e proposte, proprio perché mi sembra che siamo ancora in un fase di analisi assolutamente insufficiente. Lei parte addirittura da un sondaggio per affermare che gli italiani sono insoddisfatti per come funziona la giustizia. Certo, è così. Credo che se il sondaggio fosse fatto sul piano fiscale, non il 73, ma il 100 per cento degli italiani risulterebbero comunque insoddisfatti.
CASTELLI, ministro della giustizia. Tranne Visco. CALVI. (DS-U) Siamo all’opposizione, adesso.
Ma non credo sia necessario: ad abundantiam, è stato fatto questo sondaggio. Siamo tutti certi che vi è una larga insoddisfazione su come oggi funziona la giustizia: i problemi nascono nel momento in cui ci si propone come o dove intervenire. Ciò che mi ha colpito, ed in senso non positivo, è proprio l’inizio della sua prospettazione. Forse perché provengo da studi di filosofia del diritto, mi ha lasciato molto perplesso il fatto che nella sua analisi lei prenda le mosse dall’idea che tutto sommato nel nostro Paese il principio della separazione, che lei chiama di Montesquieu, spesso non ha funzionato. Non ha mai funzionato ed in alcun Paese, per il semplice fatto che siamo di fronte ad un modello astratto; non ha mai funzionato in alcun Paese proprio perché i poteri spesso si sono intrecciati: basti pensare alla attività di decretazione del Governo, che in anni passati era la fonte legislativa prioritaria, o al potere di interpretazione della magistratura, che spesso ha supplito. Come ricordava il collega Dalla Chiesa, vi è stata un’attività di supplenza della magistratura di fronte all’inerzia del Parlamento e quindi spesso l’interpretazione dei giudici è andata al di là dei limiti del potere giudiziario. Mi ha colpito il fatto che lei mette sullo stesso piano e confronta due poteri assolutamente eterogenei. Come si fa a dire che vi è stato un conflitto tra politica e magistratura? Credo siano soggetti assolutamente eterogenei. Vi è stato un conflitto tra magistratura e alcuni uomini politici inquisiti, ma è stato un conflitto istituzionale dal quale noi del Parlamento possiamo trarre naturalmente momenti di riflessione critica sul funzionamento della giustizia. Non mi sento però di mettere sullo stesso piano politici corrotti o inquisiti e una magistratura che li ha perseguiti. Naturalmente sui criteri, sui modi e sull’uso di taluni istituti processuali potremo discutere, però certamente trovo inaccettabile che si possa affermare che agli occhi del Paese la politica e la magistratura hanno perduto credibilità. Ha perduto credibilità la politica nella misura in cui si è fatta carico di avere nel suo seno, senza porre filtri, fasce di soggetti che sono stati poi oggetto di indagine e di condanne per reati di corruzione. Certo che dovremo reintervenire su tutto questo terreno e naturalmente iniziare a rileggere i reati di corruzione e concussione. C’è un nostro disegno di legge che ne prevede un’unificazione per rendere «più facile» l’individuazione di chi delinque e meno suscettibile di interpretazioni, spesso non opportune, l’un reato e l’altro, i quali reati comportano non soltanto pene particolarmente diverse ma anche strumentazioni processuali diverse; basti pensare alla corruzione, dove i due soggetti sono ugualmente imputati, e alla concussione, in cui uno dei soggetti diventa addirittura parte offesa: è una distinzione così sottile che spesso ritengo sia stato possibile intravedere anche strategie processuali nella scelta fra i due reati. Per cui reputiamo che va rivisto l’ambito di questo settore. Ma ciò appartiene alla politica, a noi, al Parlamento, e non confligge con gli interessi della magistratura. Anzi, queste indicazioni sono venute proprio dalla magistratura. Quindi, quello che voglio dirle è che non è il principio di Montesquieu a non aver funzionato, tantomeno la prevaricazione di una parte sull’altra. Abbiamo vissuto una stagione molto dura, nella quale, lei ne converrà, signor Ministro, un ceto politico ha mostrato di essere assolutamente inadeguato alle funzioni alle quali era stato chiamato e un ordine giudiziario ha esercitato con rigore e competenza, che taluni considerano eccessivi, i suoi compiti. Ora occorre che la politica nel senso alto del termine, cioè il Parlamento, torni a essere il vero momento di governo del sistema giudiziario. Noi nella scorsa legislatura abbiamo provato a fare questo. Abbiamo messo in campo una serie di riforme molto ampie, molto importanti, e vorrei ce ne fosse dato atto, signor Ministro, dato che non tutti hanno colto l’importanza del lavoro che abbiamo svolto nella scorsa legislatura, che certamente potrà essere oggetto di critiche. Il giusto processo è stato un tema che certamente è stato oggetto dei giudizi più disparati, però, senatore Bobbio, francamente non condivido la rigidità della lettura che lei dà del sistema che abbiamo scelto attraverso l’articolo 111. Non credo che occorra prendere un sistema in astratto e riportarlo integralmente all’interno del nostro sistema ordinamentale. Il sistema accusatorio è una prospettazione di esigenze che nascono dal fatto che non vi sono più segreti, che la prova nasce nel contraddittorio, ma non necessariamente dobbiamo prendere il modello angloamericano e portarlo nella nostra cultura. Mi rifiuto nel modo più assoluto di pensare che esista la necessità di prendere un modello elaborato da altri, per altre culture e altri paesi, e riproporlo in modo pedissequo nel nostro Paese.
BOBBIO Luigi (AN). La pratica ci consiglia un sistema giudiziario ormai incapace di raggiungere un risultato perché i princìpi sono stati messi da parte. CALVI (DS-U). Ma questo è un altro problema che riguarda il nostro sistema, l’idea cioè di lavorare affinché il nostro modello sia sicuramente ispirato al sistema accusatorio, ma che allo stesso tempo tenga conto dei princìpi che sempre ci hanno guidato, come il nemo tenetur se detegere, principio che non esiste in altri sistemi. Ne possiamo discutere, ma certamente l’idea che il nostro sistema si debba in qualche modo appoggiare integralmente a quello elaborato per altri Paesi non la condivido: lavoriamo e cerchiamo soluzioni per rendere più efficiente il nostro sistema.
Così come non è vero, signor Ministro, che la Corte di Strasburgo abbia condannato sistematicamente e impietosamente il nostro Paese. La verità è più semplice. Nella scorsa legislatura abbiamo affrontato questo problema. La questione è che mancava una norma che esiste in altri Paesi, cioè una sanzione interna. Noi eravamo l’unico Paese a non avere la sanzione interna per la lunghezza dei processi, per cui spesso vi era la necessità di adire la Corte di Strasburgo, perché non esistevano momenti di riequilibrio interno. Non è che gli altri Paesi abbiano processi più garantiti e meno lunghi rispetto a noi – questo è un studio che dovrebbe essere effettuato – la verità è che si era costretti a ricorrere alla Corte di Strasburgo proprio perché il cittadino italiano non aveva una norma interna che sanzionasse la lunghezza eccessiva dei processi. Vorrei poi indicarle due temi, tra i molti, sui quali forse è bene che lei, insieme naturalmente al suo Ministero, impegni tutte le intelligenze possibili per trovare le soluzioni adeguate. Il primo riguarda la riforma delle circoscrizioni giudiziarie. Signor Ministro, lei che è così attento può certamente comprendere – del resto la sua preparazione tecnica e non giuridica le consente di cogliere questo aspetto ancor meglio di noi – che in Piemonte esistono diverse decine di tribunali perché essi sono un retaggio del regno savoiardo, mentre in Sicilia si registrano carenze di presidio e di presenze perché il numero dei magistrati è quello che è e non può essere ampliato a dismisura; ciò posto, e su questo convengo, l’unica via è la riforma delle circoscrizioni giudiziarie. Vi sono tribunali dove non esistono sperequazioni, altri dove si lavora molto, altri ancora dove si fa poco o nulla. La riforma delle circoscrizioni è la via maestra per ridistribuire sull’intero territorio tutte le energie. E debbo dire, signor Ministro, che questo è il compito principale. Come le ricordava giorni fa il senatore Fassone, questo è il compito che le spetta. La produzione legislativa è compito prioritario del Parlamento; a lei spetta dare una sistemazione organica all’ordinamento giudiziario e al funzionamento della giustizia. La riforma delle circoscrizioni è un grande tema; a mio parere sarebbe un atto meritorio ed epocale il riuscire ad affrontarlo. Il secondo argomento riguarda una questione che sono cinque anni che tento, in modo disperato, di porre all’ordine del giorno della nostra Commissione, e questa è un’indicazione anche per il nostro Presidente: mi riferisco al tema della scuola per la magistratura. È un tema fondamentale per noi perché riguarda un organismo di controllo e di formazione dei magistrati, che costituirebbe anche un momento di filtro nella progressione in carriera. Diciamo che non è più accettabile che i magistrati abbiano una carriera senza controlli e verifiche; siccome nel contempo siamo convinti che autonomia e indipendenza siano princìpi assolutamente intoccabili, ecco che a questo punto la scuola della magistratura è l’istituto attraverso cui potrebbe passare quel filtro, quel controllo che altrimenti non avremmo. Mi avvio velocemente alla conclusione consigliandole, signor Ministro, in tema penale di riprendere in mano quel lungo lavoro fatto dal suo Ministero, attraverso la «Commissione Grosso», per ciò che riguarda la riforma del codice penale. Queste sì che sono riforme radicali sulle quali potremo certamente discutere, ma non credo che ancora una volta dovremo intervenire in modo settoriale relativamente a reati societari e di opinione, per i quali condivido le perplessità, le preoccupazioni e anche le inquietudini alle quali faceva riferimento il senatore Dalla Chiesa. Con riferimento ai reati di opinione le faccio solo osservare, signor Ministro, che nella scorsa legislatura affrontammo i problemi relativi al reato di diffamazione e ad altri reati. Siamo di fronte a situazioni in cui la tutela costituzionale è duplice. Abbiamo il diritto all’informazione anche in capo all’opinione pubblica, il diritto alla diffusione di notizie decisive per la formazione delle proprie opinioni, ma abbiamo anche la tutela della dignità delle persone. Non credo che sia possibile risolvere l’uno comprimendo l’altra. Dobbiamo trovare soluzioni equilibrate e nella scorsa legislatura avevamo avviato un confronto su questo tema. D’altronde il senatore Bobbio ha posto il problema dei fatti di oltraggio, che sono stati depenalizzati e che sono ora perseguibili a querela di parte, ma mi rendo conto che si tratta di un’attenuazione. Il processo civile è un tema molto caro al Presidente, come lei sa, come del resto a tutti noi, perché per la prima volta – il Presidente ce lo ha ricordato al momento del suo insediamento – la legislatura deve avere questo segno. Condivido questa indicazione, anche se che ho qualche perplessità sulla privatizzazione della fase istruttoria. Credo che sia necessario riaffermare con forza l’unitarietà del processo come strumento di garanzia per le parti e soprattutto tentare di impedire che vi siano squilibri di garanzia rispetto alle parti. Mi rendo conto che nel momento della formazione della prova, senza un forte controllo giurisdizionale del giudice, si possono creare disparità di trattamento tra soggetti.
BOBBIO Luigi (AN). Di fatto siamo già a questo punto. CALVI (DS-U). Volevo indicare questo tema per uno spunto di riflessione. Volevo soltanto dire che una privatizzazione del processo in questa fase potrebbe creare problemi di squilibrio perché il diritto di uguaglianza nell’ambito della materia giurisdizionale non lo si può assolutamente dimenticare.
Signor Ministro, seguiremo con molta attenzione il suo lavoro, facendo come Parlamento il nostro dovere fino in fondo con rispetto, ma anche con quella severità critica, qualora fosse necessaria, che attueremo se in qualche modo sarà indispensabile correggere indicazioni che vengono dall’Esecutivo.
PRESIDENTE. In conclusione dei nostri lavori, volevo comunicare che la senatrice Magistrelli mi ha pregato di porgere al signor Ministro le sue scuse per non aver potuto essere presente ai nostri lavori.
Stante il concomitante inizio dei lavori dell’Aula, rinvio il seguito del dibattito sulle comunicazioni del Ministro ad altra seduta.
I lavori terminano alle ore 15,40.