AFFARI COSTITUZIONALI (1ª)

GIOVEDÌ 18 NOVEMBRE 2004
451ª Seduta

Presidenza del Presidente
PASTORE
Intervengono il ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione Calderoli e il sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri Brancher.
Intervengono, ai sensi dell'articolo 48 del Regolamento, il professore Leopoldo Elia e il professore Giovanni Pitruzzella.


La seduta inizia alle ore 15,35.

SULLA PUBBLICITA' DEI LAVORI

Il presidente PASTORE rammenta il regime di pubblicità dei lavori - mediante trasmissione audiovisiva a circuito interno - già adottato nelle precedenti audizioni, e propone di estenderlo a quella che sta per iniziare, avendo acquisito in proposito il consenso preventivo del Presidente del Senato.

La Commissione concorda.


PROCEDURE INFORMATIVE

Seguito dell’indagine conoscitiva sui provvedimenti in itinere di attuazione e di revisione della Parte II della Costituzione: audizione dei professori Leopoldo Elia e Giovanni Pitruzzella

Prosegue l'indagine conoscitiva, sospesa nella seduta del 16 novembre.

Il presidente PASTORE introduce il tema dell'audizione, con particolare riferimento al disegno di legge costituzionale n. 2544-B (Modifiche alla Parte II della Costituzione), all'esame della Commissione in sede referente.

Ha quindi la parola il professore Giovanni Pitruzzella.

Segue un intervento del senatore VILLONE (DS-U).

Interviene, quindi, il professore Leopoldo Elia.

Seguono gli interventi del senatore FERRARA (FI) e, quindi, del senatore D'ONOFRIO (UDC), relatore alla Commissione sul citato disegno di legge costituzionale.

I professori Elia e Pitruzzella replicano ai senatori intervenuti.

Il presidente PASTORE, infine, li ringrazia e li congeda, dichiarando conclusa l'audizione.

Il seguito dell'indagine conoscitiva è rinviato.

La seduta termina alle ore 17,35.

INDAGINE CONOSCITIVA SUI PROVVEDIMENTI IN ITINERE DI ATTUAZIONE E DI REVISIONE DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE

21º Resoconto stenografico

SEDUTA DI GIOVEDÌ 18 novembre 2004

Presidenza del presidente PASTORE

INDICE

Audizione del professor Leopoldo Elia e del professore Giovanni Pitruzzella

PRESIDENTE

Pag. 3, 8, 10 e passim

* D’ONOFRIO (UDC)

21

FERRARA (FI)

19, 26

VILLONE (DS-U)

8

* ELIA

Pag. 11, 23, 26

PITRUZZELLA

3, 25, 26 e passim


N.B.: Gli interventi contrassegnati con l’asterisco sono stati rivisti dall’oratore.

Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN; Democratici di Sinistra-l’Ulivo: DS-U; Forza Italia: FI; Lega Padana: LP; Margherita-DL-l’Ulivo: Mar-DL-U; Per le Autonomie: Aut; Unione Democristiana e di Centro: UDC; Verdi-l’Ulivo: Verdi-U; Misto: Misto; Misto-Comunisti Italiani: Misto-Com; Misto-Lega per l’Autonomia lombarda: Misto-LAL; Misto-Libertà e giustizia per l’Ulivo: Misto-LGU; Misto-MSI-Fiamma Tricolore: Misto-MSI-Fiamma; Misto-Nuovo PSI: Misto-NPSI; Misto-Partito Repubblicano Italiano: Misto-PRI; Misto-Rifondazione Comunista: Misto-RC; Misto-Socialisti democratici Italiani-SDI: Misto-SDI; Misto Popolari-Udeur: Misto-Pop-Udeur.

Intervengono il professore Leopoldo Elia e il professore Giovanni Pitruzzella.

I lavori hanno inizio alle ore 15,35.

PROCEDURE INFORMATIVE

Audizione del professore Leopoldo Elia e del professore Giovanni Pitruzzella

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito dell’indagine conoscitiva sui provvedimenti in itinere di attuazione e di revisione della Parte II della Costituzione, sospesa nella seduta del 16 novembre scorso.

È in programma oggi l’audizione del professore Leopoldo Elia e del professore Giovanni Pitruzzella, che ringrazio per aver risposto prontamente al nostro invito.

Comunico che, ai sensi dell’articolo 33, comma 4, del Regolamento, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo e che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso. Se non si fanno osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori.

Do immediatamente la parola al professore Pitruzzella.

PITRUZZELLA. Signor Presidente, sono io a ringraziare il Presidente e gli autorevoli componenti della Commissione per l’invito che mi è stato rivolto a partecipare all’audizione odierna. Sarò particolarmente breve anche perché credo che sarà assai più interessante ascoltare le parole che vorrà pronunciare il professor Elia, maestro del diritto costituzionale.

Personalmente, mi sembra importante cominciare subito da una premessa di ordine metodologico. Non riterrei utile, naturalmente, fare riferimento alla migliore delle riforme costituzionali possibili. Ogni riforma costituzionale nasce nell’ambito di un sistema politico, con dei vincoli che sono posti nei rapporti dagli equilibri, dalla storia delle istituzioni: tutto ciò determina un percorso in qualche misura costretto ed obbligato. È dunque con riferimento al disegno di legge costituzionale n. 2544-B che svolgerò le mie osservazioni.

La prima osservazione – anche se nel dare alcune indicazioni di massima sono ovviamente costretto a procedere con l’accetta in luogo del bisturi che avrei utilizzato in altra sede – è che sono ingenerose quelle critiche che trovano nel testo l’affermazione, tanto per usare un termine caro al professor Elia, del premierato assoluto. Personalmente non credo che la riforma del sistema di Governo dia luogo ad una concentrazione di poteri decisionali nelle mani del Primo Ministro così forte da mettere in pericolo il carattere democratico e liberale del sistema. Passo a spiegarne le ragioni, due di carattere generale, altre prettamente connesse al testo al nostro esame. Quelle di carattere più generale sono legate al fatto che la riforma in questione non tocca soltanto la forma di Governo, concentrando maggiori poteri nelle mani del Primo Ministro, ma si inserisce in un sistema multilivello in cui il potere politico viene ripartito tra più soggetti. Non si deve pensare soltanto ad una grande attrazione di potere politico verso l’Unione Europea, ma anche a tutti gli spostamenti intervenuti nell’ambito della riforma del Titolo V della Parte II approvata nella precedente legislatura, a partire da quello del potere decisionale verso il basso. Si è voluto in pratica realizzare quella separazione dei poteri sul piano verticale, al quale fa riferimento il costituzionalismo americano.

In questo contesto, i rischi connessi ad una concentrazione di potere politico nelle mani del Primo Ministro sono già attenuati per ragioni estrinseche ed esterne al disegno sulla forma di Governo.

Un altro aspetto di carattere generale che mi preme sottolineare è il seguente. Già Maurice Duverger, quando scriveva le sue tesi sulla «monarchia repubblicana», osservava che uno dei problemi delle moderne società era dato dalla concentrazione di poteri decisionali nelle mani di tecnostrutture e di soggetti comunque privi di legittimazione democratica. Ravvisava nella crescita del potere del Capo del Governo eletto – in un sistema presidenziale del Primo Ministro – un elemento per controbilanciare la crescita di potere delle tecnostrutture. Probabilmente, quelle osservazioni sono attuali anche oggi, considerato che si parla di postdemocrazia anche per evidenziare il trasferimento di quote sostanziali di potere decisionale in sedi diverse da quelle legate ai circuiti istituzionali o alla politica tradizionale. Mi riferisco all’accresciuta importanza del ruolo delle autorità amministrative indipendenti, delle imprese multinazionali, del sistema creditizio, delle banche centrali e così via. Per bilanciare questi fenomeni, si rende dunque necessario rafforzare il ruolo del potere politico.

Questi due dati di carattere strutturale mi inducono a ritenere che un rafforzamento della posizione del Primo Ministro già di per sé non conduca a quei pericoli di dittatura personale paventati da altri. Anzi, a mio parere, un limite del testo è da ricercare proprio nella timidezza con cui è stata affrontata – mi rendo conto che è stata dovuta a ragioni, giuste e necessarie, di compromesso politico – la questione dei poteri del Primo Ministro. Poiché non sono solo io a dirlo, mi sembra importante citare anche l’autorevole posizione di Augusto Barbera che, in una serie di interventi, da ultimo quello pubblicato nel forum di «Quaderni Costituzionali», nell’individuare la riforma, sostiene proprio che uno dei rischi è che si vengano a creare un Primo Ministro ed un Governo troppo deboli. È noto che una delle prospettazioni da molti condivise, che stavano alla base della riforma intervenuta prima dell’attuale legislatura – da sempre osteggiata dal professor Elia, il quale ha mantenuto una coerenza intellettuale particolarmente significativa – era in merito alla necessità di attribuire per intero al Primo Ministro il potere di scioglimento. Ricordo tra le tante, nella legislatura precedente, la posizione espressa dal professor Cheli nella Commissione Bicamerale, davanti al Comitato Forma di Governo. Egli affermava con chiarezza che il potere di scioglimento doveva essere attribuito al Primo Ministro, sull’esempio svedese, anche in presenza di una sfiducia costruttiva. In pratica, nell’eventualità in cui intervenisse la sfiducia costruttiva, essa deve essere temperata e bilanciata dal fatto che alla fine il Primo Ministro può chiedere lo scioglimento, persino contro la volontà della maggioranza, contro parti riottose della maggioranza.

Nel testo, il potere di scioglimento, anche venendo incontro ad alcune proposte che mi pare erano state avanzate nel testo «Bassanini – Amato», viene ammorbidito dalla norma sulla sfiducia costruttiva di maggioranza. In questo modo, qualcuno ha osservato che il potere di scioglimento alla fine viene detenuto sempre dai partiti e non direttamente dal premier. Inoltre, tale potere viene ulteriormente temperato da una norma, che personalmente non condivido, secondo cui, nel caso in cui i deputati dell’opposizione – che non fanno dunque parte della maggioranza emersa dalle elezioni – siano stati determinanti per la reiezione della mozione di sfiducia, il Primo Ministro deve dimettersi.

È una norma che non condivido (il perché sarà più ampiamente spiegato nel documento scritto che consegnerò successivamente alla Commissione) perché con essa si consente, anche ad un drappello di deputati della maggioranza che creino un accordo anche con poche unità di deputati non appartenenti alla maggioranza politica uscita dalle elezioni, di determinare la crisi di Governo e le dimissioni del Primo Ministro.

Il quarto comma dell’articolo 94, così come modificato, contiene una previsione che, pur sembrando censurabile, s’inserisce comunque in quel contesto di previsioni che non danno luogo alla dittatura del Primo Ministro, semmai ad una limitazione significativa dei suoi poteri, in primo luogo di quel potere di scioglimento che caratterizza la posizione dello stesso in tante democrazie parlamentari.

D’altra parte, osservo che il Governo incontrerà anche dei limiti nel funzionamento del sistema bicamerale quale emerge dalla riforma costituzionale in fieri.

Condivisibile ed opportuna è stata – a mio parere – la scelta operata dalla Camera dei deputati di correggere alcune delle soluzioni precedentemente adottate in materia di bicameralismo per rendere più veloce e funzionale l’iter decisionale.

Resta la possibilità (dovuta, capisco bene, al compromesso politico e alla necessità di arrivare comunque ad una riforma) di trovare, all’interno del Senato, proprio perché eletto in momenti diversi da quelli in cui viene eletta la Camera dei deputati e perché potrebbe essere eletto con un sistema elettorale diverso (quello proporzionale), maggioranze diversificate che potrebbero dar luogo a difficoltà nell’attuazione dell’indirizzo politico del Governo.

Approvo la soluzione introdotta alla Camera dei deputati che consente al Governo di dichiarare che una determinata proposta, approvata dal Senato, nelle leggi a competenza esclusiva dello stesso, sia non riconducibile al suo indirizzo politico e di riconoscere allo stesso la possibilità di dare l’ultima parola alla Camera.

Non mi pare, invece, conducente la previsione secondo cui la decisione del Governo di dare l’ultima parola, anche per le leggi di competenza esclusiva del Senato, alla Camera debba essere subordinata ad un intervento del Presidente della Repubblica; ciò, mi pare, «risucchi», per così dire, il Presidente della Repubblica in una posizione ed in un ruolo di carattere politico lontani da quella posizione di garante, di garanzia costituzionale che, al contrario, i riformatori vorrebbero attribuire alla sua figura. Resta, tuttavia, un meccanismo la cui correzione è condivisibile. Certamente, però, il Governo non possiede una fluidità di circuiti decisionali, quindi incontra un contrappeso significativo in quel Senato.

Per questi motivi, vedo con preoccupazione l’idea, che pure è riemersa dopo il passaggio del disegno di legge costituzionale alla Camera, di riportare alla competenza bicamerale le leggi che riguardano i diritti fondamentali previsti dalla Parte I della Costituzione. Si tratterebbe, infatti, di un’enorme quantità di leggi che possono essere strettamente collegate alla realizzazione dell’indirizzo politico di Governo. Credo che il principio di garanzia non si realizzi attraverso la seconda Camera, ma attraverso istituti diversi quali la Corte Costituzionale, il Capo dello Stato, nonchè attraverso forme di bilanciamento del potere del Primo Ministro e del Governo che si possono trovare nel federalismo o nella presenza di una divisione verticale del potere.

Per restare sempre nell’ambito di una esposizione che vuole essere il più sintetica possibile, osservo con disfavore il venire meno della figura del capo dell’opposizione che, se prevista costituzionalmente, avrebbe potuto consolidare l’emersione di una funzione di opposizione, un rafforzamento del nostro bipolarismo. Vedo, invece, con favore la norma che attribuisce la Presidenza delle Commissioni d’inchiesta ad un soggetto esterno alla maggioranza.

Infine, vorrei osservare che esiste una notevole ambiguità nel testo, che riguarda la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni. L’esperienza pregressa del nostro sistema era quella per cui i raccordi fra Stato e Regioni venivano affidati al Governo con tutto il sistema delle Conferenze. Ciò portava ed ha portato ad uno svuotamento di ruolo del Parlamento, che si è trovato di fronte ad accordi, a compromessi, a contratti politici predefiniti, indipendentemente dalla forma giuridica che assumevano, che vincolavano l’azione del legislatore. Una delle esigenze della riforma è stata quella di riportare in seno al Parlamento il momento del collegamento e del raccordo tra Regioni e Autonomie territoriali. Da qui, la previsione del Senato federale.

Nel momento in cui la Conferenza Stato-Regioni viene nuovamente ripresa e, addirittura, dotata di una copertura costituzionale, vi è il rischio di un doppio circuito che vedrebbe svuotati di contenuto gli interventi del Senato, qualora fossero preceduti da accordi tra il Governo ed i Presidenti delle Giunte regionali dotati di quel plusvalore politico che deriva dall’investitura popolare diretta. Se dobbiamo mantenere una copertura costituzionale alla Conferenza, dovrebbe essere chiarito, a mio sommesso parere, che essa interviene per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni amministrative e delle attività riconducibili al Governo e non già per quanto riguarda il complesso delle attività, anche quelle che poi sfociano in iniziative legislative da sottoporre al Senato federale. Credo che questo, per il ruolo del Senato federale, rappresenti il maggior rischio.

Con riferimento al Senato federale pochissime battute. Dico, senza mezzi termini, che in generale, in termini teorici e astratti, avrei preferito una soluzione di tipo tedesco, sul modello del Bundesrat, dove il Senato diventa l’elemento in cui Regioni e Stato definiscono dei contratti politici con cui si fissano i loro confini. Non credo che i confini possano essere definiti con esattezza attraverso l’elencazione delle materie stabilite in Costituzione. Mi rendo ben conto però che la soluzione da me proposta è alquanto astratta; considerando la storia del nostro Paese, che ha visto un ruolo importante del Senato e una parte della sua classe politica che sedeva nei seggi di questo ramo del Parlamento, capisco quali enormi difficoltà vi sarebbero state nel raggiungere quella posizione. Forse, però, visto che la riforma entrerà in vigore fra molto tempo, si poteva prevedere un modello simile al Bundesrat da attuare, come d’altronde avverrà, fra un paio di legislature.

Ad ogni modo, non volendo seguire questa ipotesi, forse poco spendibile politicamente, osservo che, per evitare di vanificare il ruolo del Senato, sarebbe preferibile eliminare quel ruolo della Conferenza Stato-Regioni, riportando, eventualmente, i Presidenti delle Regioni in seno al Senato; è preferibile averli insieme ai senatori, anche privandoli del diritto di voto, piuttosto che avere Presidenti delle Regioni che contrattano direttamente con il Governo, predefinendo i contenuti delle iniziative legislative da sottoporre al Senato.

Per quanto riguarda la parte relativa al problema del riparto di competenze fra Stato e Regioni, credo che la soluzione emersa attraverso la riscrittura dell’articolo 117 sia nell’insieme condivisibile.

Probabilmente, i neocostituenti che misero mano alla revisione del Titolo V della Costituzione hanno ecceduto nel trasferimento di alcune competenze alle Regioni e, pur nella prospettiva di indicare uno Stato con forti autonomie regionali, lo hanno fatto soprattutto con riferimento a competenze che richiedono un esercizio unitario. Non a caso, la Corte costituzionale ha introdotto alcuni correttivi e le soluzioni attualmente adottate non mi pare possano far gridare alla possibilità di una rottura dell’unità nazionale, anche perché il trasferimento di alcune competenze è controbilanciato dall’avocazione al centro di altre importanti funzioni. Mi pare quindi che, sotto questo profilo, si tratti di una soluzione equilibrata.

Desidero, infine, svolgere una considerazione. Personalmente, sono tra quelli che preferiscono stare in guardia dalla cosiddetta ingegneria costituzionale, dall’idea che le riforme costituzionali possano coprire e disciplinare ogni aspetto della vita politica. Come insegna il professor Elia, esiste un grande spazio per le convenzioni, per le regole non scritte, per comportamenti definiti dalla cultura politica e, pertanto, nessun sistema costituzionale può essere contenuto interamente in un disegno ingegneristico. Al contrario, occorre sottrarsi alla tentazione di prevedere tutto, lasciando all’evoluzione della dinamica politica la disciplina di alcuni aspetti. Sotto questo profilo, ricordo il meccanismo della norma antiribaltone, estremamente rigida nella sua attuale formulazione, quando invece la vita politica può portare anche a condizioni in cui una parte di maggioranza debba essere cambiata o a situazioni particolarmente gravi, in cui sia necessario un Governo di solidarietà nazionale. Non vedo, quindi, perché si debba stabilire una norma antiribaltone come quella prevista dal disegno di legge.

Con queste ultime osservazioni, concludo il mio intervento che integrerò con un testo scritto, che farò pervenire alla Commissione.

PRESIDENTE. Ringrazio il professore Pitruzzella per la chiarezza e l’essenzialità del suo intervento. Prima di dare la parola al professore Elia, la cui audizione avverrà contestualmente alla prima, anche per rendere più vivace il dibattito sotto il profilo dialettico, interverrà il senatore Villone, che ha chiesto di poter porre subito le sue domande, visto che deve recarsi in Aula dove è in corso lo svolgimento di interrogazioni da lui stesso presentate.

VILLONE (DS-U). Mi scuso con il professore Elia e con la Presidenza ma poiché il Ministro dell’interno interverrà tra poco in Aula per rispondere a interrogazioni da me presentate sulla situazione di Napoli, ritengo di non poter mancare. Non appena terminerò il mio intervento, sarà mia premura tornare in questa sede, se i lavori saranno ancora in corso di svolgimento.

Vorrei approfittare della presenza dei professori Pitruzzella ed Elia per lasciare a verbale alcune considerazioni, nel caso non riuscissi a tornare in Commissione prima della conclusione dei lavori.

Conosco bene la posizione del professor Pitruzzella e so anche che complessivamente rispetto a questa vicenda egli è «volto al male». Non mi aspettavo, tuttavia, una linea quale quella esposta oggi, perché ormai il mondo accademico si è ampiamente dichiarato sulla vicenda in discussione; non tutti, non per il meglio e non con chiarezza, ma complessivamente sì, e il professore Pitruzzella è tra questi.

Vorrei segnalare alcuni punti di consenso e altri di dissenso rispetto a quanto egli è venuto ad esporci. Vi sono senz’altro alcune affermazioni che trovano il mio consenso. Condivido, ad esempio, la sua posizione sulla costituzionalizzazione della Conferenza. Anch’io ho sempre nutrito dei dubbi che quella fosse una strada utile. In realtà, come forse il professore non si è sentito di dire, penso che la partita della Conferenza e del Senato non si è giocata in funzione di un’astratta definizione di equilibrio di sistema o non soltanto in questi termini, ma anche, a mio parere prevalentemente, sotto la spinta di un segmento importante del nostro sistema politico, vale a dire il ceto politico regionale. Solo così si spiegano le tante evidenti incongruenze di una ricostruzione sotto il profilo puramente tecnico; cosa, peraltro, perfettamente legittima. Nel nostro Paese abbiamo una lobby dei Presidenti delle Regioni molto potente, anche fin troppo, di cui dobbiamo tener conto. È così che si arriva a soluzioni palesemente al di là di quello che sarebbe ragionevole fare. Si tratta, naturalmente, di mie considerazioni e immagino che non tutti siano disposti a seguirmi su questa strada.

Non sono invece d’accordo sulla sua affermazione che il Bundesrat rappresenti la soluzione migliore e ciò nemmeno in linea di principio o in astratto. Si tratta di una vecchia posizione del nostro pensiero accademico, una posizione tradizionale che insisto a definire vecchia, in quanto deriva dal fatto che gli studiosi si sono innamorati del sistema tedesco. Una parte importante del mondo accademico ritiene di vedere in quel modello una risposta efficace. Spesso mi trovo a fare la battuta che se avessimo avuto più borse di studio negli Stati Uniti, probabilmente in Italia il modello Bundesrat non avrebbe prevalso. Quest’ultimo, del resto, non è un granché, trattandosi di un meccanismo barocco, complicato e nemmeno più adatto a quel Paese perché, come sicuramente sa il professore Pitruzzella, anche lì se ne discute e non per astratti motivi ma per una questione di fondo. Infatti, in un Paese strutturalmente diviso come è oggi la Germania – cosa che prima non era, mentre noi lo siamo sempre stati e continuiamo ad esserlo – il modello di concertazione orizzontale collegato al Bundesrat non può funzionare. Non si tratta infatti di un modello che garantisce tutti allo stesso modo. È questo il motivo per cui il Bundesrat è attualmente in discussione in quel Paese. La filosofia che regge quella soluzione, in questo momento e in quel particolare contesto, è storicamente impropria e inadatta, perché non sta dando più le risposte giuste e non le darebbe nemmeno da noi che abbiamo, ed avremo, lo stesso problema di separatezza e di squilibrio strutturale che ha attualmente la Repubblica federale tedesca tra l’Est e l’Ovest.

La domanda che pongo al professore Pitruzzella è finalizzata a capire se siamo d’accordo o meno nel sostenere che, nonostante tutto il bene di cui si dice dell’elezione diretta, quest’ultima stia introducendo elementi di disgregazione del nostro sistema. Mi chiedo se non sia evidente, per esempio, la spinta che si sta determinando nel nostro sistema verso la creazione di partiti personali a livello regionale e subregionale, esattamente in coincidenza dell’introduzione del modello dell’elezione diretta. Se questo è – ed è indubbio, perché accade dalla Lombardia alla Puglia, passando per altre Regioni che non nomino perché tutti le conosciamo, e senza considerare poi le città grandi, medie e piccole –, non appare forse opportuno costruire un modello che in qualche modo temperi queste spinte assai potenti, che stanno disgregando il nostro sistema nazionale dei partiti politici e delle forze politiche organizzate? E se è così, il modello Bundesrat o anche il modello della contestualità, che è stato introdotto e che viene mantenuto, non rappresenta un modo di aprire il Senato, come una prateria sconfinata, alle scorrerie dei partiti personali dei Presidenti delle Regioni? Vogliamo porci questa problematica o fare finta che non esista? Quando Formigoni o chi per lui avrà creato il suo partito personale, sarà indifferente il modello di Senato? E quale sarà il rapporto di quella realtà territoriale con il Senato? Sarà molto importante? Per questo, a mio avviso, quando l’accademia parla di Bundesrat fa semplicemente riferimento ad una tematica sulla quale non c’è una riflessione aggiornata: gli accademici hanno tante belle caratteristiche, ma la propensione a cambiare idea non è sicuramente tra queste; lo dico, tra l’altro, pur facendo parte della corporazione. Quindi, paradossalmente, finisco con l’essere d’accordo con la sua conclusione. Non a caso, e dando per scontate le considerazioni che adesso ho messo a verbale, avevamo parlato di composizione mista, che è la stessa conclusione alla quale lei arriva, da altro punto di vista, ma alla quale si arriva anche da parte mia, per una serie di considerazioni che il professore Pitruzzella dovrebbe prendere in esame in quanto conducono a sostenere e rafforzare la sua stessa conclusione.

Non sono invece d’accordo quando egli afferma, sempre in ordine al Senato, l’esistenza di un pericolo, sottolineato anche da Augusto Barbera, che ce l’ha cucinato in tutte le salse e che sta cercando di convincerci di ciò di cui è impossibile convincersi: mi riferisco al timore delle maggioranze diversificate. Vorrei chiedere a questi colleghi, che tra l’altro sono tra i più accesi sotto il profilo dei sistemi federali: non è forse vero in tutti i sistemi federali che il Senato può avere un equilibrio politico diverso rispetto a quello di maggioranza? E qual è il Senato federale in cui invece si garantisce che vi sia l’omogeneità degli indirizzi politici? E non è vero che in questi sistemi, tra questi vari tipi di Senato, pur strutturalmente diversi, ve ne siano alcuni titolari di poteri molto vasti, praticamente pari a quelli delle Camere politiche? Ma, soprattutto, mi risponda su questo il professore Pitruzzella: io non conosco altri sistemi di spostamento di competenza tra assemblee legislative su scelta del Governo. Mi pare che ciò rappresenti davvero un unicum nel panorama di diritto comparato, per lo meno per come lo conosco io, per i Paesi che possiamo definire costituzionalmente significativi; poi, può esserci qualche piccolo Paese sperduto, anzi, se c’è, sarò lieto di aggiornarmi (anch’io soffro della malattia degli accademici, anch’io ho evidentemente qualche difficoltà a cambiare idea). Tuttavia, tra i Paesi che sono di solito presi in considerazione nel quadro di una comparazione tra sistemi complessivamente omogenei (che è l’unica comparazione che alla fine si può fare), non mi risulta che la scelta del Governo possa radicalmente spostare, come in questo caso, addirittura la competenza legislativa di una Camera.

Mi sembra quindi che di elementi di riflessione, questa volta in senso negativo, sulle considerazioni che faceva il collega Pitruzzella ve ne siano ed in misura consistente. In ogni caso, lo ringrazio vivamente per il contributo che ha voluto darci e mi scuso se devo allontanare per i lavori dell’Aula. Spero di poter tornare in tempo per le sue risposte.

PRESIDENTE. Do ora la parola al professore Elia, che ringrazio vivamente per la sua presenza.

ELIA. Ringrazio il Presidente e i componenti della Commissione per aver voluto sentire l’opinione sulla riforma di alcuni Presidenti emeriti della Corte costituzionale; solo in chiave scherzosa si può parlare di una ristretta «categoria», di cui potrei essere considerato il decano, essendo stato Presidente della Corte negli anni ormai lontani 1981-1985. Va da sé che parlo esprimendo opinioni del tutto personali, senza pretendere di rappresentare nessuno.

La prima domanda che mi pongo come costituzionalista è se la riforma ecceda i limiti del potere di revisione quale è configurato in riferimento ai princìpi supremi della Costituzione emergenti o dalla forma repubblicana di cui all’articolo 139 della Costituzione intesa in senso pregnante o, secondo altra ricostruzione, dal complesso normativo dell’intera Costituzione. Avverto peraltro che ove ravvisassi nella riforma o in talune sue parti una violazione dei princìpi supremi non invocherei la convocazione di un’Assemblea costituente, come altri hanno fatto, perché, anche ai fini della continuità dell’ordinamento, non rileva la sede in cui si consuma la violazione, realizzando l’ossimoro di Giovanni Sartori di una costituzione incostituzionale.

Inizio dalla forma di governo che rappresenta senza dubbio la novità più consistente della riforma presentata dal Governo, dopo la elaborazione avvenuta tra gli esperti dei partiti della maggioranza. Non mi stupisco per l’origine governativa della proposta anche perché ricordo che quella relativa alla revisione del Titolo V, sebbene di dimensione e significato inferiore all’attuale, fu presentata dal Governo D’Alema, su iniziativa dell’allora ministro per le riforme Giuliano Amato.

Su questo tema cruciale la soluzione passa sostanzialmente integra da Lorenzago al Consiglio dei ministri, dal Senato alla Camera, fino al testo ora sottoposto all’esame dei senatori nell’ambito della prima deliberazione prevista dall’articolo 138 della Costituzione; dico integra con riguardo alla norme antiribaltone, escluse quelle aggiunte dal Senato e dalla Camera sulla sfiducia costruttiva «interna» alla maggioranza.

Ho fatto parte della Bicamerale D’Alema, ma non condivido l’onesta autocritica dell’allora relatore senatore Salvi, perché il premierato forte da lui proposto, in tema di scioglimento della Camera da parte del premier, lasciava sempre aperta la possibilità di una mozione di sfiducia costruttiva «vera», che è poi quella prevista per prima dalla Legge Fondamentale tedesca (articoli 67 e 68) e che permette di sostituire il Cancelliere bloccando lo scioglimento.

Ma, precedenti a parte, debbo ritenere, più in generale, che l’esigenza di rafforzare i poteri del Governo e del Presidente del Consiglio, dentro e fuori dal Parlamento, è stata in larghissima misura soddisfatta. Mi riferisco innanzitutto alle leggi elettorali del 1993 ed ai loro risultati nel 1994, nel 1996 e nel 2001; in secondo luogo, ricordo che nelle precedenti legislature, e in particolare nella XIII, le Camere hanno adottato modifiche regolamentari tali da precludere ogni eventualità di ostruzionismo, quale ancora sussiste nel senato statunitense. Il presidente della Camera onorevole Violante parlò allora di revisione regolamentare per realizzare un Parlamento decidente, anche se poi si è dovuto prendere atto che a decidere era soprattutto il potere governativo. Perciò la normativa vigente sulla forma di governo avrebbe bisogno di qualche aggiustamento e di qualche integrazione (per lo più «riconoscendo» prassi già in atto) senza intaccare l’impianto di fondo di un Governo veramente e continuativamente responsabile di fronte al Parlamento. Anche le convergenti opinioni da parte di personaggi di diversissima esperienza (Bobbio, Dossetti, Ciampi) circa la limitazione delle riforme su questo tema a qualche ritocco non tendevano tanto ad una «minimizzazione» degli interventi auspicabili, quanto, appunto, alla salvaguardia della struttura di base.

Sulla canonizzazione nella Carta dell’appartenenza di poteri già esercitati in via di prassi dal premier, basti pensare alla nomina e revoca di Ministri, specie in occasione di «rimpasti», che, ad esempio, nella Costituzione spagnola del 1978, si producono con la proposta al Re del Presidente del Governo (norma analoga si rinviene nella Legge Fondamentale tedesca, mentre secondo la Costituzione svedese, revisionata nel 1974, è il Primo Ministro che nomina gli altri membri del Gabinetto).

Si potrebbe altresì scrivere in Costituzione che il Primo Ministro può proporre lo scioglimento della Camera al Presidente della Repubblica, dotato, come in Portogallo, della facoltà di non accogliere la proposta (così si è comportato recentemente il presidente Sampaio nei confronti di un’iniziativa del Governo promossa dal Partito socialista). Ad avviso di numerosi autori il potere di scioglimento, malgrado la controfirma del decreto, sarebbe di spettanza esclusiva del Presidente della Repubblica, mentre a parere del Mortati e di altri costituzionalisti nel decreto di scioglimento si ravviserebbe un atto complesso, risultante dalla volontà convergente del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio controfirmante. È chiaro che un’interpretazione del genere potrebbe essere assunta a contenuto di una revisione dell’articolo 88 della Costituzione, tanto più che non costituisce precedente lo scioglimento delle Camere decretato nell’inverno del 1994 dal presidente Scalfaro, in quanto motivato dalla sopravvenienza di nuovissime leggi elettorali.

In base al testo sottoposto al vostro esame si propone invece un accentramento di poteri, pressoché senza limiti, nel titolare dell’ufficio di Primo Ministro. Solo per aver detto che il nuovo nomen richiamava la formula della legge fascista 24 dicembre 1925, n. 2263, mi si è attribuita nel titolo di una intervista la parificazione dei poteri di Mussolini con quelli del vertice del potere governativo nella disciplina oggetto della vostra deliberazione. È ovvio che i poteri del Primo Ministro non sono paragonabili a quelli del Capo del Governo in un regime in cui stava per essere proscritta l’opposizione: e tuttavia si tratta di un insieme di attribuzioni che non trovano riscontro in nessuno stato retto oggi dalla forma di governo parlamentare (se non forse nelle competenze del Presidente della Repubblica francese secondo la Costituzione del 1958 e il referendum del 1962).

L’abbandono del titolo Presidente del Consiglio corrisponde del resto alla prospettiva di un premier che agisce e delibera sui temi di indirizzo politico in totale solitudine: sicché i componenti del Governo si riuniscono in Consiglio dei ministri solo per le deliberazioni di routine previste dalla legge n. 400 del 1988 e per la decisione, questa sì di rilievo politico, di togliere il diritto di ultima parola al Senato per darlo alla Camera sulla legislazione di principio per le leggi regionali, quando si ravvisi l’essenzialità di un testo per l’attuazione del programma governativo.

In particolare il Consiglio dei ministri è completamente escluso (a differenza, ad esempio, che in Spagna ed in Svezia) dalle decisioni del Primo Ministro a proposito di scioglimento della Camera: evidentemente, si teme che un governo di coalizione non garantisca una piena docilità, e perciò si vuole assicurare a chi determina la politica generale del Governo l’attribuzione e l’esercizio di un potere schiettamente monocratico.

Inoltre si prescrive l’inamovibilità del leader investito dal voto popolare per tutta la durata quinquennale della legislatura. Questa inamovibilità è coerente con una forma di governo, il semi-presidenzialismo francese, che ho sempre contestato anche quando, sulle orme di Sartori e di altri politologi e costituzionalisti, non pochi nel mondo politico ed accademico erano favorevoli ad accoglierlo nel nostro ordinamento: tanto che durante il tentativo Maccanico (1995-1996) e poi nei lavori della Bicamerale D’Alema (1997-1998) si andò vicino ad una sua, sia pur spuria, recezione. Nel quadro di quel sistema si affermano una assoluta irresponsabilità politica del Presidente eletto dal popolo nei confronti dell’Assemblea Nazionale e insieme il conferimento a lui di poteri che sono propri di un premier responsabile verso il Parlamento in un autentico regime parlamentare: così al Presidente irresponsabile e fornito del potere di indirizzo politico del tutto predominante corrisponde un Primo Ministro con minori poteri ma responsabile dinanzi all’Assemblea Nazionale. A me questa contraddizione è apparsa sempre insuperabile e intollerabile: ma quel sistema si fonda pur sempre su una logica minore allorché collega l’inamovibilità presidenziale allo status di Capo dello Stato attribuito al vertice dell’Esecutivo.

La proposta inamovibilità, garantita per cinque anni ad un premier ope constitutionis, sia pure a seguito di una investitura popolare e per l’attuazione del programma approvato dagli elettori, mi appare in netto contrasto con i princìpi cui si ispira la forma di governo parlamentare.

Solo formalmente il Primo Ministro è responsabile dinanzi alla Camera, quando in sostanza la Camera è privata di una sua autonomia deliberativa sostenuta da una libera riflessione e discussione: questo contesto necessario alla dialettica fra Esecutivo e Legislativo viene meno allorché lo spettro dello scioglimento compare dietro ogni votazione, specialmente dietro quelle che riguardano la disciplina di attuazione di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Si obietterà che i precedenti «ribaltoni», al centro e in periferia, giustificano l’adozione della regola simul stabunt aut simul cadent: ma, come dirò tra poco, la trasposizione al centro di questa regola dal livello delle Regioni e da quello degli enti locali costituisce una impropria soluzione al problema della stabilità dell’Esecutivo nelle forme di governo parlamentare.

Tuttavia l’automatismo simul simul, pur inaccettabile in una riforma ritenuta neoparlamentare, ha una sua linearità, caratterizzata da un massimo di automatismo, più meccanico del superato precedente israeliano (elezione diretta e separata del Primo Ministro), che pur prevedeva special elections del premier in costanza di legislatura e senza scioglimento della Knesseth.

Peraltro, il tentativo di attenuare l’automatismo del simul simul (riservato qui in tutto il suo rigore alla sfiducia secca d’iniziativa parlamentare) con il ricorso ad un voto di sfiducia costruttiva interno alla maggioranza iniziale del premier, mi sembra un rimedio peggiore del male. Come è noto, nel documento presentato dall’opposizione di centro-sinistra all’inizio della prima discussione in Senato figurava un periodo così formulato: «In caso di sfiducia, e su sua proposta» cioè del premier, «vi sarà lo scioglimento a meno che una mozione costruttiva votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta, non proponga un diverso candidato». Questa indicazione, che non ho mai condiviso, è stata con ogni evidenza proposta senza calcolare le gravi conseguenze che essa, se accolta, avrebbe potuto produrre: intanto la maggioranza l’ha tradotta in due disposizioni (articoli 88 e 94 del progetto) che hanno ulteriormente irrigidito il criterio dell’«autosufficienza della maggioranza», il quale già di per sé si allontanava dal modello tedesco, l’unico compatibile con i princìpi basilari del costituzionalismo.

Più in particolare, il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento a seguito della richiesta del premier (e nei casi in cui lo scioglimento è provocato dalle sue dimissioni), «qualora sia presentata e approvata una mozione di sfiducia con la designazione di un nuovo Primo Ministro, da parte dei deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera» (così l’articolo 94, comma quinto e, con lievi differenze formali, l’articolo 88, comma secondo).

Si parla di un quorum di continuità: peraltro esso non è previsto nei termini sopra riferiti o con un congegno analogo in nessuna Costituzione di Stato democratico fin qui conosciuta. In realtà non si vede chi possa aver avuto il coraggio di scrivere in una Carta costituzionale un testo così aberrante soprattutto per la principale conseguenza che ne deriva. In base a questa disposizione, il Primo Ministro può rimanere in carica anche se nel corso della legislatura perde la fiducia della maggioranza della sua maggioranza iniziale. Non è un gioco di parole ma una constatazione che si trae immediatamente dalla lettura di questa nuovissima regola, intesa a blindare con una corazza a tenuta stagna il futuro Primo Ministro.

Gli autori di questa invenzione si sono dimenticati di un piccolo dettaglio che in realtà rappresenta un aspetto fondamentale quasi sempre dimenticato in questa discussione. Se il premier inglese perde la fiducia della maggioranza del suo partito parlamentare, maggioritario nella Camera dei Comuni, si dimette e comunque la Regina non aderirebbe ad una sua richiesta di scioglimento della Camera.

Ho sentito più volte un Capogruppo di maggioranza al Senato affermare alla televisione che con questa riforma si è voluto innalzare l’Esecutivo italiano al livello dei poteri spettanti ai Primi Ministri nei maggiori Paesi europei, e in particolare in quello britannico: ebbene, chi fa queste affermazioni disconosce la realtà costituzionale più volte storicamente verificatasi nel Regno Unito; certo in buona fede, dato il diffondersi in Italia di una vulgata per uso di interessato fraintendimento. Così, infatti, si isola il potere di scioglimento del Primo Ministro inglese, estrapolandolo da un contesto che risulta di forte condizionamento. Torno a ripetere che non esiste in quell’ordinamento un potere indiscriminato di dissoluzione della Camera dei Comuni, che può esercitarsi soltanto se il premier è sostenuto dalla fiducia della maggioranza del suo partito parlamentare. Quando si dice, con un’altra formula corrente, di voler portare Westminster in Italia con questa riforma, non si tiene conto delle conventions di cui ha parlato il collega Pitruzzella, assolutamente necessarie, anche a suo giudizio, per comprendere il sistema inglese. Blair ha rischiato molto, come si sa, sia sul tema delle tasse universitarie sia su quello dell’intervento in Iraq. Se Blair fosse posto in minoranza dai suoi, si dimetterebbe come Eden dopo Suez, come Mac Millan dopo l’affare Profumo, come la Thatcher dopo la poll tax.

Da noi, invece, se passasse questa riforma, sarebbe sufficiente al nuovo Primo Ministro, per rimanere in sella, il voto contrario alla mozione di sfiducia costruttiva «interna» di una frazione minoritaria di fedelissimi, capaci di impedire il raggiungimento di quel quorum proibitivo. In pratica una condizione impossibile, finalizzata ad escludere la effettiva messa in gioco della responsabilità del premier.

Leggere testi simili, approvati dai parlamentari della maggioranza, suscita profondo disagio: si tratta di clausole estreme che isolerebbero l’Italia nell’Unione Europea, esponendola alla critica irridente non solo di soci malevoli ma anche di amici delusi.

Di fronte a disposizioni come queste reagisce pure chi mi accusava di soggiacere al «complesso del tiranno» e giungeva a definire indebolito il ruolo del Primo Ministro. Così nel Forum dei Quaderni costituzionali (24 ottobre 2004) Augusto Barbera considerava testualmente «una stramberia» bloccare l’elezione di un nuovo premier con quel quorum inedito. In un suo scritto del 28 ottobre 2004 Stefano Ceccanti qualificava di «paradosso» quel congegno della sfiducia costruttiva escogitato per stabilizzare il vertice dell’Esecutivo; aggiungendo che la soluzione potrebbe anche arrovesciarsi, rendendo arbitri della vita non solo del Governo, ma anche della legislatura, segretari di partiti piuttosto piccoli, esposti a tentazioni ricattatorie. A mio avviso questa eventualità non può escludersi ma resta pur sempre eccezionale rispetto all’ipotesi della permanenza in carica del premier che abbia perduto la fiducia della sua maggioranza. A giudizio di Salvatore Vassallo «appare inaccettabile» in termini di teoria della rappresentanza costituzionalizzare una differenza di status tra i deputati, quelli di serie A, componenti della coalizione che ha vinto le elezioni, i quali hanno la facoltà effettiva di conferire e revocare la fiducia al Governo, e deputati di serie B, ai quali viene negata ope constitutionis tale facoltà (così ne «il Mulino» n. 5 del 2004, a pagina 851).

Del resto, anche giuristi di diverso orientamento hanno posto in rilievo le anomale conseguenze di questo congegno, con cui si vorrebbe affievolire la criticata rigidità del simul simul. Secondo Marco Olivetti si produrrebbe un paradosso nel paradosso, perché un premier con una larga maggioranza parlamentare potrebbe essere sostituito più facilmente che un Primo Ministro sostenuto da una maggioranza parlamentare più ristretta: se quest’ultima fosse, in ipotesi estrema ma non di scuola, di due deputati, basterebbe al premier «controllare» due componenti della Camera per impedire la sua sostituzione. Aberrazioni simili non sono mai state scritte in nessuna Costituzione. Come si può tollerare che in uno Stato democratico il principio maggioritario sia calpestato in misura tanto grave ed in modo così patente?

Già il simul simul rappresenta una vera forzatura perché l’analogia tra Stato, Regioni ed enti locali non regge a fronte di un semplice dato di chiara evidenza: la potestà deliberativa della Camera è di natura diversa da quella dei Consigli regionali (per non dire di quelli comunali): essa ha per oggetto l’attuazione della normativa costituzionale sui diritti fondamentali delle persone, l’ordinamento giudiziario, le leggi elettorali, il sistema radiotelevisivo, l’autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali di essenziale importanza, come quelli riguardanti l’Unione Europea (ex articolo 11 della Costituzione). La contraddizione con i princìpi del costituzionalismo, accolti nella nostra Costituzione del 1947, è resa ancora più evidente dalla necessità che quel quorum di continuità si realizzi non già in sede di sottoscrizione della mozione ma in sede di voto, per appello nominale, nella solennità di una seduta della Camera.

Ma quale voto? Ci sarà un Presidente della Camera che avrà l’ardire di proclamare l’esito della votazione su una mozione di sfiducia costruttiva dichiarando che i voti dell’opposizione non entrano in linea di conto e valgono come le schede bianche o le schede nulle? O che la mozione è respinta non essendosi raggiunto per una frazione minoritaria di voti il cosiddetto quorum di continuità?

Si può giungere a questi estremi se si dimenticano non solo i precedenti inglesi che ho sopra ricordato, ma anche quelli tedeschi, al di fuori dell’unico caso di sfiducia costruttiva verificatosi a favore di Kohl nell’ottobre 1982; mi riferisco alle dimissioni del cancelliere Erhard e a quelle del cancelliere Brandt dopo l’affare Guillaume.

La scelta compiuta dai nostri riformatori comporta una totale ingessatura del rapporto premier-maggioranza anche se si riduce in apparenza l’assoluto automatismo del simul simul; questa indissolubilità di un’unione senza possibilità di qualche parentesi impedisce non solo i governi di unità nazionale in casi di necessità o i connubi Cavour-Rattazzi, ma, per esigenze di simmetria, vieta al premier di sopravvivere se in una votazione di fiducia risulta determinante l’apporto di consensi pervenuti al di fuori del recinto di maggioranza (articolo 94, quarto comma). Ovviamente siamo lontani anni luce da quel bipolarismo mite auspicato dal senatore Manzella, assolutamente incompatibile con regole così rigide quanto discriminanti che precludono ogni flessibilità del sistema e risultano perciò sgradite anche al collega Pitruzzella. Ma davvero la storia si ferma all’election day e nel quinquennio successivo non deve accadere nulla salvo l’attuazione del programma elettorale, quando sappiamo che anche questa fase può dar luogo a conflitti nella coalizione maggioritaria? Questa prospettiva è aggravata dalla circostanza che il «fatto maggioritario», come dicono i politologi francesi, si è già verificato (maggioranza assoluta dei seggi alla coalizione vincitrice): perciò l’aggiunta degli espedienti individuati per l’ipotesi che quella maggioranza non si realizzasse (voto bloccato ecc.) crea un quadro istituzionale che precostituisce di per se stesso una inclinazione all’arroganza maggioritaria.

Per concludere sulla forma di governo si deve sottolineare che la summa divisio corre tra chi porta fino alle estreme conseguenze l’istanza antiribaltonista e antitrasformista e chi, pur assumendo quella istanza, vuole evitare che vengano per quel fine abbandonati princìpi e limiti propri del costituzionalismo moderno (insomma, se si superano certi confini, vuol dire che l’esigenza di stabilizzazione del premier e di attuazione del programma devono trovare altri mezzi per realizzarsi). Dunque, rispetto alle domande che ponevo all’inizio di questo intervento rispondo che il simul simul applicato a livello nazionale vanifica l’autonomia della Camera, concentrando il massimo del potere nella persona del premier e sacrificando drasticamente il delicato meccanismo di pesi e contrappesi che caratterizza i regimi costituzionali (compreso quello degli Stati Uniti d’America) e caratterizza oggi la nostra Costituzione. Si deve poi aggiungere che la sfiducia costruttiva «interna» alla maggioranza contraddice il divieto del vincolo di mandato per l’esercizio delle funzioni parlamentari (articolo 67, parte seconda della Costituzione) e viola la parità di status di ogni membro di ciascuna Camera (articolo 67, parte prima della Costituzione).

Passando brevemente alle modifiche apportate al Titolo V della Parte II, sono d’accordo con il collega Pitruzzella nel giudizio positivo sul trasferimento alla legislazione esclusiva dello Stato dell’energia, delle telecomunicazioni e di altre materie di interesse nazionale. Permane il pericolo di qualche riflusso centralistico (portato avanti con il pretesto di esigenze unitarie): infatti, mentre in Germania è previsto il diritto della Federazione di intervenire per salvaguardare l’unità giuridica ed economica con una disciplina legislativa federale: im gesamtstaatlichen Interesse (cioè nell’interesse dello Stato complessivo, comprendente Federazione e Länder), nelle materie oggetto di legislazione concorrente (articolo 72 della Legge Fondamentale), nella nuova proposta per il Titolo V si parte dall’esercizio di un potere sostitutivo che può estendersi ad ogni tipo di legislazione delle Regioni.

Ad ogni modo, la giustapposizione di competenze esclusive statali in materia di istruzione e di tutela della salute e di competenze esclusive regionali nella organizzazione scolastica e sanitaria può dar luogo a fenomeni seriamente dissociativi se Governo e maggioranza fossero condizionati dai fautori della devolution e il Governo non impugnasse davanti alla Corte costituzionale leggi di Regioni propense a prendere alla lettera l’esclusività delle loro attribuzioni (articolo 117, comma quarto, del nuovo testo).

Inoltre, nella riforma mancano pressoché completamente quelle garanzie di sistema rese necessarie dal sopravvenire delle leggi maggioritarie del 1993 e che non si esauriscono certo nello statuto dell’opposizione. Non tutto può essere assoggettato a deliberazioni della maggioranza: vi sono questioni che non possono restare nella sua esclusiva disponibilità come dimostrano la vicenda dei cosiddetti seggi fantasma e più in generale l’attività di verifica dei poteri, perché altrimenti può accadere che rimanga fuori dalla Camera chi, per gli accertamenti compiuti dalla Giunta competente, dovrebbe appartenervi.

Una particolare attenzione merita da parte mia la sorte del Senato nel progetto riformatore: sono stato senatore nella X e nella XIII legislatura, per circa dieci anni, e prima ancora sono stato funzionario nell’amministrazione di questo ramo del Parlamento. Perciò avverto come profondamente mortificante la prospettiva che, allo stato attuale del testo, il progetto apre all’istituzione di Palazzo Madama. Non mi riferisco alla esclusione del rapporto fiduciario con il Governo, che ritengo inevitabile, specie dopo l’avvento di una legislazione elettorale prevalentemente maggioritaria, ed anche in base ai dati del diritto costituzionale comparato. Mi rammarico per il rischio che corre questo ramo del Parlamento non solo di esercitare un ruolo di molto inferiore a quello di altre istituzioni analoghe, ma soprattutto di risultare privo di una funzione caratterizzante e di una reale utilità. Non è infatti una camera rappresentativa di collettività territoriali costituite in enti regionali e locali, e perciò vi è completa concordanza della dottrina costituzionalistica nel ritenere federale solo di nome il nuovo Senato. Non è nemmeno una camera di garanzia, perché è venuto meno il suo potere di concorrere con leggi bicamerali paritarie alla tutela dei diritti fondamentali ed in particolare alla disciplina dell’esercizio dei diritti di libertà di cui agli articoli da 13 a 21 della Costituzione. Non è una camera elitaria come quella dei Lords che, specie dopo la riforma Blair, annovera ex-primi ministri, giudici delle Corti più prestigiose, esponenti della società civile. Il Senato federale italiano rischia di avere un ruolo inferiore anche al Senato francese. È vero che quest’ultima Assemblea corre l’alea, nel procedimento legislativo e su richiesta del Governo, del trasferimento del diritto di ultima parola all’Assemblea Nazionale. Ma la richiesta governativa è nella pratica assai rara. Sicché il Senato, pur composto, prevalentemente, in base ad una legislazione antiquata, con il voto dei consiglieri dei 36.000 comuni francesi, rurali per la più parte (rappresentativi, come si diceva un tempo, della segala e della rapa), ha però mostrato una sua vitalità, tanto da provocare in larga misura, con la sua eliminazione, la bocciatura referendaria del primo testo di Costituzione nel 1946: e, soprattutto, resistendo nel 1969 al referendum per il suo forte ridimensionamento, con il determinare le dimissioni del presidente De Gaulle. Per non parlare del Senato USA, va anche ricordato che la riflessione in corso sul bicameralismo tedesco parte da una situazione in cui il Bundesrat, sicuramente rappresentativo dei Governi dei Länder, ha progressivamente acquisito un ruolo rilevante, specie in occasione dell’esame di leggi per il riequilibrio finanziario tra centro e periferia, ed in particolare un forte potere di veto; secondo alcuni dati, si tratterrebbe del 60-70 per cento della legislazione federale.

Perciò mi ero permesso (nel corso di una audizione presso questa Commissione sull’allora nuovo Titolo V) di prevedere che se, per struttura e funzioni, il Senato non fosse stato idoneo a svolgere compiti almeno in parte comparabili a quelli del Bundesrat, il rapporto Stato-Regioni, con i suoi conflitti e i suoi compromessi, si sarebbe sviluppato altrove. E mi pare che la costituzionalizzazione della Conferenza Stato-Regioni sia non poco significativa in questo senso. Che poi il Senato federale possa proporsi come autentica controparte nei confronti del premier mi appare molto dubbio per due ragioni: la prima, per l’incertezza sul sistema elettorale che, anche in ipotesi di scelta a favore del proporzionale, potrebbe favorire un parallelismo di composizione con la Camera dei deputati; e in secondo luogo per il potere dell’Esecutivo, già menzionato, di trasferire anche per la legislazione di principio, a valere per la legislazione regionale concorrente, il diritto di ultima parola alla Camera dei deputati.

Da ultimo, vorrei dire che la preoccupazione circa il carattere globale del referendum ex articolo 138 è da me condivisa; e non da oggi, se ho sempre ritenuto pericolosi i referendum finali previsti dalle leggi costituzionali che istituivano la Commissione De Mita-Iotti e quella D’Alema. Mi pare che le obiezioni fondate sulla eterogeneità delle maggiori questioni tocchino proprio il carattere democratico della consultazione. Del resto, la storia costituzionale conosce precedenti di referendum con pluralità di quesiti (Francia 1945, ad esempio).

Spero che queste considerazioni contribuiscano ad approfondire la riflessione circa l’idoneità delle proposte sottoposte al vostro esame. Vi ringrazio.

PRESIDENTE. Sono io che la ringrazio, presidente Elia, e colgo l’occasione per salutare il ministro Calderoli che ci ha raggiunto per partecipare ai nostri lavori.

Procediamo con le domande dei commissari.

FERRARA (FI). Vorrei rivolgere innanzi tutto una domanda al professor Pitruzzella, anche se le tesi del presidente Elia necessitano di alcuni chiarimenti da parte mia.

Le relazioni degli auditi riguardano in particolar modo la configurazione della forma di governo e quindi i chiarimenti, rispetto ai loro convincimenti, si sono soffermati in particolare sulla qualificazione del premierato all’interno della proposizione della modifica della Costituzione: se premierato assoluto o non assoluto, se con capacità e poteri di scioglimento e altro. In proposito, farò una breve premessa nella speranza di poter arrivare rapidamente ad una domanda.

Parto dalla seguente convinzione, che si sviluppa per necessità deduttive. Considerato che nel mondo occidentale siamo la democrazia con forma di governo di tipo parlamentare da più lungo tempo esistente nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, il fatto che si abbia anche il debito pubblico più alto dovrebbe farci intuire che con ogni probabilità la necessità di una trasformazione della forma di governo sia da ricollegarsi sia alle difficoltà di rispondere in maniera quanto più immediata e positiva nei confronti dell’attesa dell’elettorato sia alla necessità che il governo dell’amministrazione sia caratterizzato da una maggiore efficienza.

Inoltre, la necessità di una trasformazione della forma di governo nasce anche da quanto si osserva non soltanto in occidente ma anche, per attrazione, in alcuni Paesi orientali rispetto alla capacità di comunicazione. Al di là degli eventi esterni citati dal professor Pitruzzella, quali la crescita delle authority o delle imprese multinazionali e creditizie, va individuato un sistema che attenui il potere del sistema apicale di una democrazia presidenziale o un’eventuale deriva assolutistica. Ho fatto riferimento all’attrazione dell’oriente rispetto all’occidente perché mi viene sempre più spesso da pensare che la caduta dei sistemi assoluti orientali non sia stata favorita soltanto dalla crescita di imprese multinazionali e creditizie o da autorità di altro genere, che in quei Paesi non esistevano, ma anche dalla velocità della comunicazione, un fatto ormai non più collegabile solo ad uno specifico territorio ma uniformabile a livello quasi universale.

In parole povere, nonostante le sue dimensioni, il Muro di Berlino non può impedire la comunicazione tra oriente e occidente e dunque cade. Anche se il fatto ormai appartiene alla storia, Honecker non è più in grado di fermare le masse perché l’informazione che ricevono dall’altra parte del muro è sempre più veloce.

Forse la discussione in merito alla più efficiente forma di governo di tipo presidenziale non dovrebbe più limitarsi all’ambito accademico ma essere sentita come una necessità alla quale non ci si può più sottrarre. Ora, al di là delle possibili riserve di scuola su come affinare le condizioni del premierato nel sistema costituzionale italiano, ritenete forse che il dibattito da noi sviluppato sia eccessivo rispetto alla forma di governo, con riferimento alla trasformazione da parlamentare a presidenziale, e che non ci si soffermi abbastanza sui poteri residuali della forma parlamentare?

Inoltre, dal momento che mi occupo di questioni che attengono al bilancio, negli ultimi giorni ho potuto verificare che il rendiconto sta sempre più perdendo significato in un sistema in cui la velocità della comunicazione è aumentata notevolmente. Un rendiconto che viene presentato il 30 giugno, contemporaneamente all’assestamento, perde di significato. Il rendiconto dovrebbe costituire la verifica del bilancio dell’anno precedente mentre l’assestamento dovrebbe rappresentare la premessa sulla cui base predisporre la legge finanziaria e dunque indicare il budget inerente alla previsione finanziaria dell’anno successivo.

Negli Stati Uniti d’America di fatto non esiste una Commissione bilancio. Tutte le Commissioni svolgono la funzione di Commissione di bilancio rispetto al Dicastero del Segretariato, al quale la Commissione competente fa riferimento. Questo meccanismo viene attivato non soltanto attraverso un particolare potere di indagine ma con un sistema più esaltato rispetto a quello italiano, che non dispone cioè dei poteri specifici della magistratura ma ha comunque la possibilità di esercitare un potere definito di censura. La Commissione difesa del Senato analizza gli elementi di spesa del Dicastero della difesa e successivamente ha la possibilità di fare una censura al riguardo.

Cosa accadrebbe se si realizzasse una forma di governo con un premier forte e un Parlamento non altrettanto forte, considerato che la Costituzione è molto puntuale e riflessiva sull’iter di formazione delle leggi, mentre poco o nulla dice per quanto attiene ad una trasformazione in un sistema presidenziale con poteri di indagine?

PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire il senatore D’Onofrio, relatore alla Commissione sul disegno di legge costituzionale n. 2544-B, di riforma dell’ordinamento della Repubblica.

D’ONOFRIO (UDC). Personalmente avrei bisogno di un chiarimento. È una questione preliminare rispetto a qualunque approfondimento nel merito delle questioni. Lo chiedo in particolare al professor Elia, anche se la domanda può valere anche per il professor Pitruzzella. Mi sembra importante chiarire che l’atteggiamento da me assunto in Commissione mi porta a replicare sulle questioni di merito e pregiudiziali soltanto al termine di tutti gli interventi. Siccome però sono state poste due questioni pregiudiziali, preliminari rispetto ai contenuti, un chiarimento mi sembra importante.

La prima questione attiene ad un’affermazione fatta dal professor Elia – e in passato anche da altri colleghi – secondo cui di fatto non si può fare riferimento all’articolo 138 della Costituzione per modifiche relative ai princìpi fondamentali, che certamente emergono da questa riforma.

Non pretendo risposte immediate a tale questione, ma certo non è la prima volta che interviene una modifica della Costituzione in senso fondamentale. Ricordo, ad esempio, quella del 1958 che portò ad una modifica della natura del Senato o quella del 1999 in cui si modificò l’elezione dei Presidenti delle Regioni. La stessa Commissione bicamerale per le riforme costituzionali propose una legge costituzionale secondo cui certe questioni si potevano modificare anche rispetto all’articolo 138 della Costituzione.

Nella vostra memoria vi è traccia di qualche passaggio del dibattito costituzionale di allora, almeno nell’ambito dei tre casi citati, in cui si sia affermato che non si poteva procedere alla riforma dei princìpi fondamentali della Costituzione? Non mi risulta – non avendo una memoria così precisa da poterlo escludere, gradirei poter acquisire dagli uffici tutto il materiale esistente per poterlo verificare – che la fondamentale questione dei limiti del potere di revisione costituzionale sia mai stata affrontata in passato, pur avendo il Parlamento già approvato almeno tre leggi costituzionali di significativa rilevanza.

La seconda questione riguarda il referendum finale, questione di grande delicatezza. Ricordo che quando fu approvata la legge costituzionale n. 1 del 1997, istitutiva della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, si era espressamente previsto che il voto finale fosse unico, relativo alla forma di Stato e di Governo, al bicameralismo, alla giustizia. Si riteneva che dovesse intervenire un voto conclusivo sull’intero contesto delle riforme costituzionali. Non dico – ovviamente – che quanto fu deciso allora non si possa modificare adesso, ma allora così fu deciso. Allora fu deciso, come si legge espressamente all’articolo 1, comma 4, un voto unico sul complesso degli articoli, trattandosi di forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e giustizia.

È una questione che vale oggi, all’improvviso, o ha alle spalle un pronunciamento del Parlamento? Questo problema, ne capisco l’importanza, ma non fu affermato recentemente così nell’ambito dei lavori della Bicamerale costituzionale.

Poiché dovrò rispondere su questioni specifiche, avrei piacere innanzitutto di capire cosa fu detto e successe quando fu cambiata la natura del Senato nel 1953, che è questione fondamentale. Allora, infatti, la Costituzione prevedeva un Senato, che la revisione del 1953 ha cambiato totalmente stravolgendo la storia del Senato rispetto alla Costituzione del 1947. Forse, abbiamo sottovalutato questo aspetto ma, dobbiamo ricordarlo, il Senato è cambiato totalmente; nel 1947 non esisteva il bicameralismo perfetto, esisteva una situazione totalmente diversa, un altro sistema di Governo in cui vi erano due Camere che, anche con maggioranze diverse, dovevano esprimere la fiducia nei confronti del Governo – lo ripeto – una situazione completamente diversa.

Nel 1958 il Senato di allora fu ucciso, ovviamente, politicamente.

Nel 1999 poi è stata introdotta l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni modificando la sostanza dell’articolo 123 della Costituzione che prevedeva che fossero eletti dai Consigli regionali. Ciò è irrilevante? Quando quella legge costituzionale fu scritta, fu obiettato qualcosa? Qualcuno lo sostenne? E in che misura? Oggi mi interesserebbe saperlo.

Per quanto riguarda il referendum finale, era previsto vi fosse un referendum unico sull’intero pacchetto della riforma della Parte II della Costituzione. Oggi si ritiene una cosa diversa. Ciò è possibile; vorrei però capire se abbiamo alle spalle argomenti che ci consentono di dire che le questioni affrontate lo sono perché già in passato fu detto questo, altrimenti dobbiamo affermare che è la prima volta che si dice ciò. È una questione molto importante.

Nel merito, non entrerò in nessuna delle questioni dal momento che mi sono riservato di rispondere alla fine. Ringrazio tutti, però, perché si tratta di argomenti rilevanti, anche se alcuni sono ripetitivi delle cose ascoltate durante la prima lettura al Senato del disegno di legge costituzionale. Ha ragione il presidente Pastore nel dire che le decisioni della Camera che non riguardino quelle già prese dal Senato rendono immodificabile il testo, però le questioni rimangono. Se il problema proceduralmente non ci consente di cambiare ciò che la Camera ha confermato, rimangono le questioni dal punto di vista culturale e politico. Non riterrei sufficiente dire che «la Camera non ha cambiato il testo del Senato» se rimangono questioni di fondo; vorrà dire che si affronteranno in un altro modo e momento, non proceduralmente con le modifiche di questo comma e articolo. Sul punto comunque – come ho già detto – risponderò alla fine.

Sulle questioni pregiudiziali, cioè se si possa fare o meno una riforma costituzionale di fondo con l’articolo 138 e se si possa fare o no un referendum unico su tutta la Parte II della Costituzione, si tratta di questioni preliminari. Avrei piacere di sapere se c’è una risposta subito o se c’è materiale da acquisire per avere una risposta più tardi.

PRESIDENTE. Passerei ora alle risposte dei nostri ospiti.

ELIA. Il senatore Ferrara ha introdotto un tema che costituisce, nei termini in cui è stato avanzato, una riprova delle alternative che in parte ho presupposto ed in parte esplicitato. Nel momento in cui esigenze di velocità nelle comunicazioni, di decisioni rapidissime, incombono, – diceva il senatore Ferrara, o almeno questo mi è parso di avere capito – una spinta di tipo presidenzialistico, parlando in termini atecnici, di concentrazione del potere in un soggetto che abbia una sua legittimazione da investitura popolare, si impone.

Sono d’accordo con lui. Per rendere, però, compatibile tale previsione con i princìpi del costituzionalismo, che esige una limitazione del potere malgrado l’accelerazione attuale (rimane quindi l’esigenza di pluralismo istituzionale e di diffusione delle attribuzioni), senza arrivare alla mortificazione del Parlamento, si può giungere ad una separazione strutturale tra Esecutivo e Legislativo. Non è detto che non ci siano dei metodi di concorso funzionale (la formula USA è: potere legislativo al Congresso ma potere di veto al Presidente superabile solo a certe condizioni); strutturalmente, però, una volta che il Presidente è stato eletto, non può essere sfiduciato né deposto, salvo l’impeachment del Congresso, né può porre la questione di fiducia o sciogliere le Camere.

Secondo me, come ho accennato nel mio intervento, è pressoché assente un equilibrio, malgrado si parli di semipresidenzialismo, in Francia dove vi è un Presidente della Repubblica che somiglia sempre più ad un Presidente del Consiglio (dopo la riduzione del mandato da sette a cinque anni), mentre risulta inadeguata l’attribuzione della responsabilità al Primo Ministro che durante la V Repubblica è stato sfiduciato una sola volta (il Governo Pompidou nel 1962); si tratta, quindi, di un fenomeno assolutamente marginale. Tuttavia, vi è una sorta di squilibrio rispetto alla situazione americana, perché il Presidente può sciogliere indiscriminatamente l’Assemblea nazionale, mentre l’Assemblea nazionale non può deporre il Presidente soggetto solo alla messa in stato d’accusa davanti all’Alta Corte di giustizia.

Pur rendendomi conto che c’è questa spinta alla concentrazione del potere e che non è facile trovare un equivalente dell’equilibrio americano (in cui addirittura, con l’organizzazione del Congresso, si può predisporre un progetto di bilancio federale), io chiedo che, senza arrivare a degli estremi, ci sia un equilibrio.

Ma è proprio questo che manca nel testo della riforma. Il Presidente della Repubblica è ridotto ad uno status che rappresenta una vera e propria contradictio in adjecto: è un «garante della Costituzione» a cui si tolgono i mezzi per garantire; non ha risorse per garantire alcunché, perché gli sono attribuiti interventi sporadici, come l’accertamento se il programma governativo esiga che il Senato non dica l’ultima parola ma la dica la Camera, o interventi di incertissimo effetto, come le nomine alla presidenza delle autorità indipendenti. Se il Presidente di una autorità conta come ha contato la dottoressa Lucia Annunziata nel Consiglio di amministrazione della RAI, evidentemente, anche queste nomine hanno un valore molto limitato. Questo squilibrio, allora, è fortissimo perché il Presidente conta ben poco, la Camera è condizionata dalla spada di Damocle dello scioglimento anche quando discute di materie importantissime per i diritti dei cittadini, ed è l’unica che discute dopo che il Senato è stato depauperato di questa competenza bicamerale necessaria per riconoscergli una funzione di garanzia.

Tutto ciò ci porta ad una constatazione finale (malgrado le giuste esigenze che lei, senatore Ferrara, ha messo in rilievo): c’è uno squilibrio strutturale che impedisce poi di trovare degli sharing powers, perché organi come il Congresso e il Presidente USA si dividono dei poteri, però strutturalmente conservano una forte indipendenza tra Esecutivo e Legislativo.

Per quel che riguarda le richieste avanzate dal senatore D’Onofrio, in parte una risposta si può trovare nelle critiche che molti autori hanno mosso nei confronti delle due leggi costituzionali istitutive delle Bicamerali. Lasciamo stare la Commissione Bozzi che aveva un carattere, per così dire, consultivo. I disegni di legge originati da quella Commissione furono presentati dallo stesso onorevole Bozzi come singolo parlamentare; non è dunque un’esperienza paragonabile alla Commissione De Mita-Iotti o a quella D’Alema.

Una parte cospicua della dottrina è stata molto critica sulla possibilità di modificare l’articolo 138 della Costituzione in vista della realizzazione di qualcosa di molto grave, ossia non di un’applicazione razionalizzatrice di princìpi già esistenti nella nostra Carta costituzionale, ma addirittura, trattandosi di un progetto organico, dell’emanazione di norme suscettibili di alterare quei princìpi.

A parte le forti critiche della dottrina verso questa soluzione (Panunzio, Pace, ma è inutile citare tutti i critici), io stesso mi feci portavoce di quelle obiezioni ma purtroppo fui messo in minoranza nell’ambito della maggioranza cui appartenevo soprattutto per la mia posizione contraria al referendum globale su argomenti così eterogenei. In quelle due leggi, però, tale soluzione è passata. Non contesto dunque i precedenti, che esistono e che tuttavia non ritengo probanti, anche perché il mio giudizio non può prescindere dai contenuti, i quali stavolta travolgono princìpi fondamentali. Specialmente nella forma di Governo, mi pare si sia andati, e di molto, oltre il segno. Il federalismo in fondo non fa che sviluppare l’articolo 5 della Costituzione. Ammetto che in taluni casi con il Titolo V sono stati commessi degli errori, ora giustamente corretti e riconosco che su questo punto il voto della Camera è stato positivo. Tuttavia, nella forma di governo che mette in gioco il principio democratico, mi sembra che i precedenti non ci siano. Si va molto oltre sia rispetto al semipresidenzialismo, cui si era giunti in Bicamerale con un testo votato a seguito dell’intervento decisivo della Lega che prevedeva l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, sia rispetto al premierato, per quanto detto poc’anzi nel mio intervento. In entrambi i casi, però, non c’era questa esorbitanza, questa oltranza a cui si perviene oggi con un Primo ministro blindato (se non volete chiamarlo assoluto, ammettete che è onnipotente). Del resto, non mi importano le definizioni ma la sostanza: una blindatura di questo tipo non la ritrovate nella costituzione di nessun Paese democratico.

PITRUZZELLA. Inizio subito con le considerazioni di ordine pregiudiziale mosse dal senatore D’Onofrio. Il senatore, che è anche un autorevole costituzionalista, è a conoscenza del dibattito sui limiti del potere di revisione costituzionale per cui non mi soffermerò sul punto. Sappiamo bene però che alcuni sostengono che i princìpi supremi di un ordinamento costituzionale esistono, sono ravvisabili e costituiscono un limite del potere di revisione, altri tendono ad escludere tutto ciò; penso ad una monografia ormai lontana di Stefano Maria Cicconetti dedicata al potere di revisione costituzionale.

Fatta questa premessa, la questione pregiudiziale ha un senso se arriviamo a sostenere che questo tipo di riforma costituzionale è in contrasto con alcuni princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale; la qual cosa, a me pare, anche per quanto affermato nella prima parte del mio intervento, è assai discutibile. Sul piano dell’assetto della forma di Stato e quindi del rapporto tra Regioni e Stato, non mi pare si possa parlare di uno stravolgimento dei princìpi fondamentali, e non soltanto perché l’articolo 5 già esisteva ma anche perché la riforma si presenta come una correzione, un completamento della precedente riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, già approvata nella scorsa legislatura. Le intenzioni di chi sta scrivendo la nuova riforma sono finalizzate ad eliminare alcune supposte incongruenze e a risolvere taluni problemi. Non mi pare che rispetto a ciò si possa parlare di un superamento del limite al potere di revisione costituzionale.

Con riferimento alla forma di Governo, non credo che siamo in presenza di un premierato assoluto confliggente addirittura con i princìpi di democraticità del sistema. Ho già detto come in realtà il premier incontri alcuni limiti. Non a caso il professor Barbera, più volte citato in questa sede, parla addirittura, a dimostrazione di come le cose si possono vedere da punti di vista diversi, di un Governo debole. Non credo sussistano pertanto quei rischi di assolutismo proprio per la riconosciuta facoltà di cambiare il Primo Ministro. Come ho già detto, non vedo troppo bene invece una norma antiribaltone così rigida. Ritengo però che la possibilità di cambiamento sia prevista e che peraltro il Primo Ministro abbia un potere di scioglimento assoluto. In precedenza, citavo il professor Cheli che davanti alla Commissione bicamerale ribadiva la necessità della sfiducia costruttiva ma, di contro, sottolineava l’opportunità di un potere di scioglimento nelle mani esclusive del Primo Ministro.

Pertanto, i problemi di conflitto con il principio democratico mi pare siano in larga misura superabili; naturalmente, il ragionamento richiederebbe un’estensione maggiore di quella consentita dai tempi a disposizione.

Passando alle altre questioni, il senatore Ferrara faceva riferimento alla velocità di comunicazione delle nostre società, sottolineando la necessità di una risposta rapida da parte delle istituzioni. Probabilmente, al di là del merito delle singole questioni di cui ci siamo occupati e sulle quali è inutile ritornare, uno degli obiettivi della riforma dovrebbe essere quello di rafforzare la capacità decisionale in un contesto di pluralismo istituzionale e di conservazione dei meccanismi di garanzia. Il senatore Ferrara faceva anche riferimento al potere di indagine del Senato. In questo caso, è da valutare se la soluzione finale adottata dalla Camera per una Commissione di inchiesta che sia solamente di quel ramo del Parlamento o bicamerale rappresenti la soluzione preferibile. Questa considerazione parte probabilmente dall’idea che la Commissione di inchiesta abbia soltanto un potere di controllo sul Governo, ma, in un assetto multilivello e complesso come quello che andiamo a prefigurare, forse ci sarebbe uno spazio anche per inchieste condotte dal Senato; un tema senz’altro da approfondire.

FERRARA (FI). Non c’è niente che fino ad oggi parli di censura.

PITRUZZELLA. Mi pare però che sia insito nella scelta fatta, perché una volta che è stato escluso che il Senato (è una scelta, per quanto discutibile) abbia un rapporto di fiducia e sia una Camera politica mi pare che si escluda, credo che lo spiegherei così, un potere di censura espresso.

ELIA. Bisognerebbe fare una legge per una Commissione bicamerale.

PITRUZZELLA. Certo. Riguardo alle osservazioni del senatore Villone, vorrei chiarire meglio il mio pensiero. Ho detto che a livello teorico avrei preferito una posizione più vicina al modello Bundesrat, ma credo che, anche a livello di dottrina e anche di alcuni segmenti di classe politica, simili soluzioni siano state prospettate; capisco peraltro che non vi era la possibilità pratica di procedere in tale direzione, dobbiamo stare con i piedi per terra, altrimenti restiamo al libro dei sogni, non facciamo nulla. Quindi, il mio intendimento non era una demolizione della soluzione, tutt’altro. Però, in tutti i sistemi federali la seconda Camera, il Senato, chiamiamola come vogliamo, è in parte di poteri non equivalenti a quelli della Camera politica. Addirittura Bruce Ackerman, nel suo libro sulla nuova separazione dei poteri, afferma che quelli federali sono sistemi con una camera e mezzo, nel senso che la seconda Camera ha poteri ridotti rispetto alla prima. Quella prospettata mi pare una soluzione con cui sono state eliminate alcune delle critiche che erano state mosse sul piano del blocco decisionale: è vero, vi è la possibilità di maggioranze diverse, però alla fine con un meccanismo più o meno complesso vi è la possibilità di dare l’ultima parola alla Camera. Ripeto che la mia non è una valutazione che muova da ragioni di politica quotidiana, ma soltanto una mia valutazione personale di studioso; e credo che almeno coloro che studiano questi temi non possano essere ascritti ad un partito o all’altro, ad una maggioranza o all’altra. Ve ne sono alcuni che militano nel centrosinistra e che hanno sostenuto il premierato e, viceversa, altri che sono del centrodestra e che sono critici nei suoi confronti. Non credo all’idea che il Senato rappresenti un organo di garanzia, perché in un sistema come quello italiano, in cui ci sono i partiti, in cui questi ultimi non hanno raggiunto quel livello di fluidità tipico del sistema americano, le elezioni, per come è stato disegnato il Senato, saranno elezioni politiche; contestuali, è vero, ai consigli regionali, ma comunque politiche, realizzate sulla base di linee e di divisioni partitiche. Inevitabilmente, quindi, nel Senato si proietteranno quelle divisioni e quest’ultimo opererà secondo logiche politico-partitiche piuttosto che secondo meccanismi di garanzia (bisognerebbe intenderci su cosa intendiamo per garanzia). Piuttosto, possiamo dire che varrà in qualche misura, per come è configurato, da bilanciamento e da limite del potere del Primo Ministro, che incontra però ben altri limiti e anche dei meccanismi di garanzia in senso proprio che faranno riferimento non tanto a delle alternative politiche quanto al rispetto dei limiti costituzionali, legali e quant’altro. Da un lato, abbiamo dunque dei meccanismi di garanzia cui il Senato è estraneo, diretti a far prevalere la Costituzione, quell’insieme di valori e di princìpi in cui tutti ci dobbiamo riconoscere; dall’altro, esisteranno vari bilanciamenti politici tra cui fondamentale sarà quello di tipo federale o di regionalismo forte (non vorrei dare troppa importanza alla distinzione tra una cosa e l’altra). In un sistema che vede un ruolo importante (a mio avviso, stiamo vivendo un processo di federalizzazione) delle Regioni comunque il centro troverà soprattutto un limite in questi altri elementi.

Spero, sia pure sinteticamente, di avere risposto a tutte le domande.

PRESIDENTE. Vi era ancora la questione della pluralità del referendum, della sua necessità, opportunità o possibilità, perché le strade in realtà sono diverse.

PITRUZZELLA. È un problema a mio parere assai difficile da risolvere. Vi è innanzi tutto una difficoltà di politica costituzionale, perché la riforma è il frutto di un accordo, di un compromesso, tra diversi attori politici, ognuno con la sua identità, per cui ognuno dà qualcosa e riceve in cambio qualcos’altro, considerando il disegno come un tutto unitario. La parte sul federalismo, sulla devolution, si lega nel disegno politico generale alla parte sul bicameralismo, a quella sulla forma di Governo, quindi forse scindere in tanti aspetti, in tanti oggetti, la consultazione popolare tradirebbe il processo di formazione di questa riforma costituzionale. D’altra parte, siamo in presenza di un referendum che probabilmente ha delle caratteristiche diverse da quello abrogativo che per giurisprudenza costituzionale deve avere dei quesiti omogenei. In fondo, è o dovrebbe essere una legittimazione della decisione complessiva. Mi rendo conto, però, che la scelta di aver messo tanta carne al fuoco potrebbe disorientare l’elettore e rendere difficoltoso l’affermarsi di un’opinione ragionevole e sensata.

In ogni modo, soppesando i pro e i contro, alla fine ritengo che l’ipotesi del referendum su tutto non sia un’ipotesi da demonizzare.

PRESIDENTE. Ringrazio il presidente Elia e il professor Pitruzzella per la loro disponibilità e per il loro contributo, del quale faremo naturalmente tesoro, come pure il ministro Calderoli che ha seguito questo ciclo di audizioni.

Dichiaro concluse le audizioni odierne.

Rinvio il seguito dell’indagine conoscitiva in titolo ad altra seduta.

I lavori terminano alle ore 17,35.