1º Resoconto stenografico
SEDUTA DI MARTEDÌ 23 ottobre 2001
Presidenza del presidente PASTORE indi del vice presidente MAGNALBÒ
INDICE
Audizione del professor Leopoldo Elia
– PASTORE (FI) 3
BASSANINI (DS-U) 16
DEL PENNINO (Misto-PRI) 18
KOFLER (Aut) 20
GUERZONI (DS-U) 21, 22
ELIA Pag. 4, 17, 19 e passim
I lavori hanno inizio alle ore 15,35.
PROCEDURE INFORMATIVE Audizione del professor Leopoldo Elia
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca l’indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione.
Oggi è in programma l’audizione del professor Leopoldo Elia. Non poteva esserci inizio migliore perché il ruolo ricoperto dal professor Elia in qualità di costituzionalista già componente della Corte costituzionale, di Presidente emerito, di parlamentare e professore universitario cattedratico è un viatico assai positivo per i nostri lavori. Ricordo che questa Commissione ha approvato la proposta di indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni costituzionali in materia regionale (Titolo II, parte V della Costituzione) che devono ancora trovare attuazione, e ci riferiamo non soltanto all’ultima sottoposta a referendum confermativo ma anche alla precedente relativa all’elezione diretta dei Presidenti delle regioni, che ha determinato, tra l’altro, un’ampia autonomia statutaria delle regioni stesse, che si sono attivate per l’approvazione di nuovi Statuti che dovranno tener conto anche delle novità introdotte dalla seconda novella costituzionale. Ricordo che, ai sensi dell’articolo 33, comma 4, del Regolamento, è stata chiesta l’attivazione dell’impianto audiovisivo, e informo che la Presidenza del Senato ha già preventivamente fatto conoscere il proprio assenso. Se non ci sono osservazioni, tale forma di pubblicità è dunque adottata per il prosieguo dei lavori. I nostri lavori devono avere la diffusione più ampia possibile perché è interesse di tutto il Paese, oltre che di noi addetti, avere consapevolezza degli effetti che le revisioni costituzionali hanno determinato e determineranno in futuro. Vorrei ringraziare il professor Elia che si è dichiarato disponibile, oltre a fornire un suo contributo scritto, ad intervenire per una audizione in Commissione. Purtroppo, alcuni di noi alle ore 16 dovranno partecipare ad una riunione della Giunta per il Regolamento (impegno sopravvenuto e non rinviabile). Per tale motivo anch’io dovrò allontanarmi e sarò sostituito dal vice presidente Magnalbò. In coloro che dovranno assentarsi indubbiamente resterà il sapore di una piccola delusione per non aver potuto formulare domande al nostro illustre ospite. Chiederemo, quindi, al professor Elia di essere disponibile a tornare in Commissione per un’eventuale integrazione che potrebbe rendersi opportuna anche a seguito della lettura del resoconto stenografico; oppure potremmo chiedergli la disponibilità a rispondere ad ulteriori domande anche con una nota scritta. Ricordo che il professor Elia è stato uno dei protagonisti della Commissione affari costituzionali, e quindi lo accogliamo, se possibile, con maggiore piacere, e ci aspettiamo da lui, come da tutti, che sia tracciata la strada da percorrere nell’applicazione di questa riforma che investe direttamente le nostre attività specifiche. Siamo in attesa della costituzione della nuova Commissione bicamerale per le questioni regionali, la cui composizione dovrà essere integrata, in base alla novella costituzionale, da rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali. Nel frattempo si sta organizzando un progetto per affidare alla Commissione affari costituzionali il compito, esaltante ma anche oneroso, di intervenire anche su questa materia per la futura attività legislativa.
ELIA. Ringrazio il Presidente per la sua cortesia e i colleghi perché mi danno l’occasione di tornare in quest’Aula dove ho lavorato per dieci anni: cinque anni nel corso della X legislatura e cinque anni nel corso della XIII. Quest’Aula evoca quindi in me molti ricordi, sui quali però non posso ora soffermarmi per passare subito al tema di cui dobbiamo discutere.
Affermare che la riforma costituzionale del Titolo V è stata varata soprattutto per dare una copertura costituzionale alle riforme Bassanini, alle riforme che con legge ordinaria erano già state realizzate ai fini del federalismo amministrativo di cui si è parlato fin dai primi passi del Governo Prodi, significa immiserire quella riforma della Costituzione perché si tratterebbe di una sorta di sottoprodotto, di evento conseguenziale. Il punto di fondo che come ragione costituzionale va evidenziato ed enunciato per primo è il superamento del contrasto interno alla Costituzione che si era determinato nel corso degli ultimi anni (caso alquanto singolare nella storia costituzionale): una nuova lettura dell’articolo 5 della Costituzione a proposito del principio di autonomia (insieme a quelli di unità e di indivisibilità) alla luce del principio di sussidiarietà, aveva determinato una scissura all’interno del corpo normativo della Costituzione, per cui gran parte del Titolo V veniva ad essere inadeguata e perfino contrastante con la nuova lettura che dell’articolo 5 veniva data. Indubbiamente, uno degli indizi di questa frattura all’interno stesso della normativa costituzionale era poi offerto da una situazione paradossale: la riforma Bassanini era più in armonia con l’articolo 5, basato sulla nuova interpretazione, che con il Titolo V, così come si era venuto attuando dopo il 1970. Anche in mancanza di puntuali violazioni delle norme del Titolo V, sta di fatto che il risultato delle riforme Bassanini sommate insieme comportava l’abbandono del criterio del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative delle regioni e conduceva, piuttosto, ad un criterio di dissociazione tra l’attività legislativa e l’attività amministrativa; tale situazione doveva essere superata e bisognava farlo con urgenza perché non si poteva rimanere più a lungo con questa contraddizione all’interno della normativa costituzionale. Si è proceduto, con vicende che ora non rievoco, sulla base di una marcata distinzione tra funzione legislativa e funzione amministrativa. Quanto alla prima, qualcuno dice che si è inciso indirettamente sull’articolo 70 della Costituzione, in base al quale la funzione legislativa è esercitata da Camera e Senato, anche se il potere legislativo delle regioni era già riconosciuto. Certamente si è operata una innovazione molto forte non solo perché si è equiordinata, quanto a limiti e vincoli, la potestà legislativa dei due enti (Stato e Regione) ma anche e soprattutto perché si è accentuata una contrapposizione tra Stato e regioni in modo che con il famoso rovesciamento e l’inversione dell’enumerazione delle materie lo Stato è diventato il legislatore per eccezione mentre la fonte generale è divenuta la legge regionale per tutto un complesso di materie. Si è distinta fortemente l’attività amministrativa, affidandola in gran parte agli enti locali e, in particolare, ai comuni, salvo i casi che necessitino di esercizio unitario. Quindi, il primo pilastro della riforma si trova nella legislazione, con conseguenze molto forti che stiamo individuando progressivamente. Forse ad una prima lettura molti aspetti ci erano sfuggiti. Questa inversione è tipica delle costituzioni federali (Stati Uniti, Svizzera e Germania), anche se nel nostro caso la Repubblica non è definita tale. Il rovesciamento delle enumerazioni delle materie è un tratto del federalismo, mentre era un tratto del regionalismo, della Costituzione spagnola del 1931 e della nostra del 1947, l’enumerazione delle materie di competenza legislativa regionale, con la residualità a favore dello Stato. Ormai, invece, la residualità è a favore delle regioni. È un rovesciamento molto forte non solo perché ci troviamo di fronte ad un tratto di indubbio federalismo – il diritto comparato lo attesta – ma anche perché esso ci costringe ad un ripensamento di tanti istituti disciplinati dalla Costituzione. Mi riferisco ad esempio alle riserve di legge contenute nella prima parte della Carta costituzionale e specialmente a quella disciplinata dall’articolo 23 sulle prestazioni personali o patrimoniali. Ci si chiede se esse siano riserve di legge statali, come si era pensato fino a ora (per lo meno in larga misura) o se, invece, possano essere in alcuni casi anche di leggi regionali; questione che i sostenitori di un’interpretazione dell’articolo 119 della Costituzione in materia fiscale ritengono collegata al potere delle regioni di istituire tributi propri. Se questo è attribuito alle regioni, la legge regionale che li istituisce in qualche modo soddisfa e rientra nella riserva di legge dell’articolo 23. Ma la maggiore controversia è sorta a proposito del potere così vistosamente equiordinato tra Stato e regioni. Già nel testo elaborato dalla Bicamerale era presente l’enumerazione rovesciata mentre per la legislazione concorrente si usava la formula: «Spetta allo Stato determinare con legge la disciplina generale relativa a...». Si fa riferimento al disegno di legge della Bicamerale, ma naturalmente si potrebbe parlare di disegno di legge della Camera dei deputati perché il 21, 22 e 23 aprile del 1998 gran parte di tale normativa fu approvata a Montecitorio da una larghissima maggioranza. È improprio dunque in senso stretto fermarsi alla Bicamerale. Bisogna ricordare – lo ribadisco – il consenso molto ampio della Camera dei deputati. Il testo in questione però non recava il primo comma del nuovo articolo 117 che appare molto innovativo. Esso recita: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Sugli obblighi internazionali è sorto un vivace dibattito che si svilupperà successivamente. Ci sono alcune affermazioni contrapposte al riguardo: alcuni, come il professor Pinelli, affermano che la norma riguarda il rapporto tra ordinamenti, ma non tocca la disciplina attuale delle fonti come è stata fissata soprattutto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale; perciò si continuerebbe a non riconoscere nell’ordinamento italiano un’autorità superiore alle normative che discendono da trattati ratificati rispetto alle leggi ordinarie; altri, invece, come il professor Luciani e il professor Lombardi (con diversità di atteggiamenti nel merito), ritengono che da questa impostazione derivi una situazione molto simile a quella disciplinata dall’articolo 55 della Costituzione francese della V Repubblica, che peraltro tratta in una sola norma la disciplina che nella Costituzione del 27 ottobre 1946 era contenuta in due articoli, oltreché nel preambolo. In essi si affermava che il diritto interno cedeva a quello internazionale pubblico; e il diritto internazionale pubblico era interpretato non solo come diritto basato sui princìpi generali – come è scritto con altra formulazione nell’articolo 10 della nostra Costituzione – ma anche come diritto pattizio. Quest’ultimo tema ha echi che vanno al di là del diritto perché in seno al Comitato consultivo che discusse il progetto della Costituzione gollista vi furono affermazioni da parte del deputato Teitgen, secondo il quale quello della superiorità della normativa dei trattati rispetto alla legge ordinaria era addirittura un principio di civiltà. In altre parole, tra popoli civili questa tesi non si doveva mettere in discussione e, per la verità, essa non fu contrastata né dal guardasigilli Debré, incaricato della riforma costituzionale, né da altri deputati gollisti, da presumere di tendenze – si direbbe oggi – souverainistes, cioè piuttosto portati a valorizzare la sovranità dello Stato. In sostanza, questa norma non ha provocato grandi controversie nel diritto francese giacché il Conseil constitutionnel non si può occupare se non delle leggi in fieri; quindi, praticamente, è stata soprattutto la Corte di cassazione che ha fatto valere la superiorità della normativa dei trattati rispetto alle leggi ordinarie. In base ad alcuni princìpi della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, il nostro ordinamento, specialmente a seguito di questa nuova formulazione, può essere sostanzialmente ritenuto incline al riconoscimento di tale superiorità, naturalmente senza toccare la formazione del processo che porta a far valere nel diritto interno le norme dei trattati, nel senso che il Parlamento rimarrebbe sempre competente ad intervenire in base all’articolo 80 della Costituzione in cui si disciplina l’autorizzazione alla ratifica. Però, una volta ratificato il trattato, la normativa in esso contenuta avrebbe un rango gerarchicamente superiore a quello delle norme di legge ordinaria. Si è tentato di far valere questo principio nella sentenza n. 10 del 1993 della Corte costituzionale (relatore Baldassarre), rimasta però isolata. In essa si cercava di riconoscere questa superiorità a favore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Ma – ripeto – si tratta di una sentenza rimasta senza seguito. La dottrina e la giurisprudenza italiana hanno insistito molto sul dualismo tra diritto interno e diritto internazionale. Peraltro, per quanto riguarda il diritto comunitario, l’interferenza è stata tale che ad un certo punto il giudice italiano ha applicato senza mediazioni direttive e altre norme dell’ordinamento comunitario.
Lo stato di equiordinazione tra legge statale e legge regionale può apparire alquanto singolare. In base alla interpretazione Pinelli (chiamiamola così) circa il rapporto tra ordinamenti, le leggi regionali – per il rapporto paritario tra ordinamento statale e regionale – non potrebbero essere limitate ulteriormente, per esempio, da una legge ordinaria statale che volesse ristabilire il principio dell’indirizzo e coordinamento rendendo così superiore la legge nazionale rispetto a quella regionale. L’unico elemento di differenziazione che rimarrebbe a vincolo della legge regionale sarebbe l’obbligo di promuovere la parità uomo-donna anche nell’accesso alle cariche elettive. Può trattarsi di un principio importante perché – come sapete – in base alla legge costituzionale n. 1 del 1999 le regioni, sia pure sulla base dei princìpi che dovrebbero essere stabiliti dalla legge dello Stato, hanno il potere di adottare una legge per l’elezione del proprio consiglio regionale. Da questo punto di vista, la dottrina si è divisa tra chi sostiene che questa norma supera la sentenza n. 422 del 1995 (relatore Ferri), che faceva cadere le quote femminili nella proporzionale, ed altri autori (il professor Romboli), secondo i quali una norma programmatico-promozionale di per sé non si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza negativa della Corte costituzionale. Certo, è strano che tale principio sia stato enunciato solo per le leggi regionali mentre a rigore, dato l’argomento di cui si tratta, dovrebbe valere su scala generale. Quali di queste materie rivestono un’importanza particolare? Per la novità, quelle che non sono menzionate nel nuovo articolo 117, quelle che sono coperte dal manto della residualità; l’insieme è di notevolissimo rilievo. La competenza esclusiva delle regioni, collegata alla residualità, è prevista nel comma 4 del nuovo articolo 117 (secondo il quale «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato») e riguarda, tra l’altro, l’industria, i trasporti, la viabilità, la formazione professionale, il turismo, l’agricoltura, l’artigianato, l’assistenza. Si tratta di materie di evidente importanza, a cui qualcuno vorrebbe aggiungere anche l’università in quanto, non essendo l’istruzione universitaria ricompresa in nessuna delle materie nominate, essa ricadrebbe nella residualità. Però si deve rispondere che per giudicare delle attribuzioni bisogna considerare anche le altre norme costituzionali, le quali recano – nell’ultimo comma dell’articolo 33 – una riserva di legge statale che, secondo buona parte della dottrina, fa salva la competenza legislativa dello Stato in materia universitaria. Nel progetto di legge della Bicamerale e della Camera, invece, erano state unite istruzione, università, professioni nell’ambito della legislazione concorrente. Nel disegno di legge governativo l’Università passava nella legislazione esclusiva dello Stato; ma poi scompariva dal testo finale, forse perchè le Regioni avevano richiesto che l’istruzione universitaria rientrasse tra le materie soggette a forme e condizioni particolari di autonomie. Più in generale, la formulazione del comma quarto soprariferita impedisce di utilizzare il criterio interpretativo dei poteri impliciti a favore dello Stato. Lo ius superveniens del nuovo Titolo V è molto diverso da quello relativo ad una legge ordinaria che è sottoposta al giudizio della Corte costituzionale. Qui lo ius superveniens è un paradigma costituzionale, è il termine nuovo di raffronto cui vengono assoggettate le leggi ordinarie. Bisogna rendersi conto che a questa stregua è già chiara l’incostituzionalità, per esempio, di una delle ultime leggi approvate nella scorsa legislatura – la legge n. 153 del 2001 in materia di turismo – che certamente non resiste di fronte alla competenza esclusiva delle regioni in materia appunto di turismo. Ciò vale naturalmente anche per altre leggi analogamente viziate. Invece il comma 2 riguarda le competenze statali, le quali non sono eccessivamente ampie, come qualcuno ritiene, perché anche nelle Costituzioni tedesca e svizzera sono previste riserve allo Stato più o meno equivalenti come numero. Semmai altri deplora alcuni vuoti difficilmente spiegabili, mi riferisco in particolare al professor D’Atena. In altri ordinamenti rientrano infatti nella competenza esclusiva della federazione le poste, le telecomunicazioni, le grandi reti di trasporto dell’energia, che invece qui, con sommesso dissenso – largamente giustificato – del professor Cassese, ricadono nella legislazione concorrente. Richiamo la vostra attenzione su due norme particolarmente importanti per quanto riguarda il potere legislativo esclusivo dello Stato. Innanzi tutto, non deve trarre in inganno il termine «esclusivo», che non significa completo, tant’è vero che in materia di istruzione la competenza statale è limitata alle norme generali. Poi vi sono ancora due gradini: i princìpi fondamentali che, in materia di istruzione, dovrebbero essere stabiliti dal Parlamento prima che la regione faccia la sua parte nella legislazione concorrente dedicata a questa materia. Quindi avremmo addirittura tre livelli di intervento: due volte lo Stato, una volta le regioni. Voi capite l’enorme importanza di operare tale distinzione. La scelta del buono scuola, che tocca il problema dei rapporti tra scuola statale e scuola non statale, appartiene alle norme generali sull’istruzione, ai princìpi fondamentali della materia istruzione in ambito di legislazione concorrente o può essere disciplinata dalle regioni nell’esercizio del loro potere nella stessa materia? Ad un certo punto bisognerà pur fare chiarezza, e dovrà farla o la Corte, che peraltro per due volte ha dichiarato inammissibili ordinanze che riguardavano l’intervento della regione Emilia-Romagna in materia di aiuti alle scuole non statali, o il legislatore nazionale. Tutto consiglia che su molti aspetti si cerchi di non aggravare il compito della Corte, come già avvenne in precedenza per l’interesse nazionale, occasione in cui sarebbe spettato al Parlamento giudicare. Come sapete, il Parlamento non è mai stato investito della valutazione di merito sulle leggi regionali, mentre è stata sempre la Corte ad occuparsene, trasformandosi il criterio dell’interesse nazionale in un criterio di legittimità. Sarebbe bene che il Parlamento evitasse di far pesare troppi oneri sulla Corte, non tanto per una questione di sovraccarico, ma perchè scelte troppo caratterizzate politicamente non possono giovare alla fisiologia della giustizia costituzionale. L’altra norma più importante è quella sui livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali. Anche in questo ambito bisognerebbe tentare di fare chiarezza per sapere, possibilmente non in via giurisdizionale, cosa si sia voluto dire con l’espressione, richiesta dalle regioni e che richiama il «nucleo essenziale» dei diritti della Legge Fondamentale di Bonn. Ma, in mancanza di una normativa concorrente di tipo tedesco, bisognerebbe che il Parlamento italiano tentasse perlomeno di definire questi livelli, che sono fondamentali per una cittadinanza sostanziale (oggi, infatti, si parla di diritto di cittadinanza sostanziale). Il criterio dei livelli essenziali è eminentemente trasversale e supera quella concezione arcaica per cui lo Stato federale o quasi federale dovrebbe occuparsi soltanto della spada, della bilancia, della feluca e della moneta; perché uno Stato federale moderno, sia negli Stati Uniti sia altrove, si occupa anche del benessere dei propri cittadini e tende ad impedire, anche per salvare l’unità effettiva del Paese, che i dislivelli nel godimento di questi diritti siano troppo profondi. Abbiamo il criterio trasversale dei livelli essenziali che, dalla legislazione di competenza esclusiva dello Stato, passa a qualificare sia l’esercizio della legislazione concorrente sia, a mio avviso, l’esercizio della legislazione esclusiva delle regioni. Mi riferisco, per esempio, al diritto alla salute. Se la regione ha potere legislativo nell’industria, anche il legislatore regionale deve tenere conto di quella tutela nella disciplina della materia. L’altro aspetto molto importante della legislazione è la legislazione concorrente, che non è, malgrado lo stesso nome, la figura tedesca in cui lo Stato in certi casi può legiferare sia sui principi che sul dettaglio, ma è quella che ripete le problematiche, certo non agevoli, della distinzione tra princìpi fondamentali e normativa che chiamerei di regolazione. Forse l’espressione «di regolazione» richiama troppo alcune autorità indipendenti, però non so trovarne un’altra per contrapporla ai princìpi. Questi princìpi fondamentali si differenziano profondamente, secondo alcuni autori, da quelli che erano alla base della legislazione concorrente secondo il vecchio articolo 117 perché, essendo la legge regionale fonte con competenza di carattere generale, si avrebbero varie conseguenze che prima non erano state tratte. Ossia, se lo Stato non esercita questi poteri per la fissazione dei princìpi fondamentali, la regione può agire liberamente. Quindi, se si vuole raggiungere un risultato unificante, vi è l’urgenza che il Parlamento fissi tali princìpi fondamentali. Diversamente, mentre la Corte costituzionale aveva sempre ritenuto che, in assenza di princìpi fondamentali ad hoc, questi si potessero estrarre dalla legislazione esistente, secondo un’impostazione più federalista (del resto si dice nel testo che la potestà legislativa «spetta alle regioni», salvo allo Stato stabilire i princìpi fondamentali), bisognerebbe prevenire una proliferazione di leggi troppo divergenti da regione a regione. E vengo quindi alla potestà regolamentare, che è assegnata sia allo Stato sia alla regione, ma al primo per quelle materie che fanno parte della sua competenza esclusiva. Può esserci una delega dallo Stato alle regioni per l’attuazione regolamentare di leggi statali in materia esclusiva. In questo caso i regolamenti regionali non sono, come di norma, serventi rispetto alla legge regionale, ma sono, invece, serventi rispetto ad una legge statale. Saranno gli statuti, salvo a vedere in che misura e se conformi sul punto ai princìpi della Costituzione, a stabilire se ci possono essere regolamenti indipendenti nell’ambito della normativa regionale. Voi sapete che la legge costituzionale n. 1 del 1999 ha trasferito all’esecutivo della regione il potere di deliberare i regolamenti regionali. Bisogna vedere anche se lo statuto potrà o meno decidere una riserva di regolamento per certe materie. Il secondo pilastro è quello della funzione amministrativa, già oggetto della riforma Bassanini. Non si parte da zero. Oggi, mentre in altri campi occorre intervenire rapidissimamente per colmare delle autentiche lacune, per quel che riguarda la funzione amministrativa, almeno in linea di massima, il vuoto è già in buona parte colmato; perciò credo che per un certo periodo andrebbe sperimentata la normazione che è stata prodotta nella scorsa legislatura con decreti legislativi e con decreti del Presidente del Consiglio sulla base della legge n. 59 del 1997. Naturalmente potranno esserci degli scostamenti: in materie in cui le regioni hanno acquisito il potere legislativo esclusivo, possono essersi prodotte anche delle discrasie rispetto all’assegnazione di poteri da parte dello Stato. Tali discrasie, in linea di massima, non dovrebbero prodursi quando, nelle materie già previste dall’articolo 117 della Costituzione, è stata la regione ad assegnare funzioni ai comuni e alle provincie con legge regionale. Ma in tutte le altre materie, in particolare in quelle che la regione acquisisce come competenza esclusiva, indubbiamente in futuro si potrebbe dar luogo ad un’altra ondata di conferimenti, ove le regioni ritenessero, nell’esercizio dei loro nuovi poteri, di allocare competenze ed attribuzioni, già assegnate dai provvedimenti Bassanini necessariamente per categorie (ad esempio, i comuni in generale o quelli con un certo numero di abitanti), mentre il legislatore regionale sarebbe in grado di allocare queste funzioni in relazione alle potenzialità effettive degli enti (comuni e provincie). Certo, questa materia può apparire disciplinata in termini ambigui (e la formulazione del testo è stata molto criticata in dottrina). L’articolo 118, come risulta dalla proposta dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, recepita forse troppo grezzamente dal Comitato dei nove alla Camera, rischia di confondere le idee perché parla di funzioni attribuite, funzioni conferite e funzioni proprie. In tal modo, tra queste tre specie possono sorgere con molta probabilità degli equivoci o quanto meno delle ambivalenze secondo i rilievi mossi dal professor Giuseppe Ugo Rescigno. Il terzo pilastro è rappresentato dalla riformulazione dell’articolo 119. Non è vero, come ha detto qualcuno, che la nuova formulazione di questo articolo riproduce sostanzialmente, sia pure con altre parole, la vecchia disciplina. In realtà, ci sono delle innovazioni molto forti, in parte solo anticipate dal decreto legislativo n. 56 del 2000, nel quale è contenuta una normativa complessa, che addirittura si prolunga per anni e anni prima di arrivare a regime e che dovrà essere in qualche modo resa compatibile anche con questo nuovo articolo 119. Emerge la territorialità dell’imposta, emerge cioè che la compartecipazione della regione ai tributi erariali va commisurata al gettito sul territorio. Per cui non ci saranno mai più i «calderoni» dei fondi in cui non si sa cosa sia dell’Emilia, cosa della Calabria, e così via. Questo diventa, invece, il punto di riferimento base per una quota parte dell’entrata regionale, che in Germania è quella preminente (aliquote dell’IRPEF e dell’IVA). Questo elemento della territorialità comporta un duplice riflesso. Innanzi tutto, vi è un riferimento al gettito, per cui oramai si dovrebbe ritenere che non si possa arrivare ad una parificazione assoluta nel carico dei contribuenti delle varie regioni, altrimenti sarebbe stato inutile richiamarsi al gettito nel loro territorio. In secondo luogo, c’è un riferimento alla capacità fiscale per abitante cui ogni regione dovrebbe sforzarsi di far corrispondere le proprie entrate, correndo il rischio, altrimenti, di non poter utilizzare appieno l’accesso al fondo perequativo: misura diretta chiaramente a scoraggiare l’eccessiva benevolenza verso i contribuenti-elettori. Quindi, come vedete, si tratta di questioni che richiederebbero un impegno molto serio per il chiarimento delle relazioni tra il decreto legislativo n. 56 del 2000 e questa nuova disciplina. Ci domandiamo se veramente il finanziamento delle regioni potrà essere lo stesso, sia per le materie che toccano i livelli essenziali dei diritti, sia per le materie di competenza esclusiva, che, riguardando tra l’altro l’industria, il commercio ed il turismo, non toccano direttamente l’esercizio di questi diritti. In sostanza, non si verrà a creare come per i vecchi comuni una distinzione tra spese obbligatorie e spese facoltative, o più discrezionali? Ed il finanziamento di queste differenti spese potrà in qualche modo essere disciplinato in maniera differente? È un grande problema, che sicuramente dovrà essere affrontato. Il quarto pilastro è quello dei controlli. Cadono tutti i controlli preventivi sulle leggi e sugli atti amministrativi delle regioni, delle province e dei comuni. Per quanto riguarda le regioni, qualcuno ritiene che si realizzi una carenza di garanzie perché, se il Governo non impugna una legge regionale, questa legge non viene sottoposta al sindacato della Corte costituzionale e quindi rimane nell’ordinamento giuridico italiano. Allora, in dottrina, qualcuno pensa a dei soggetti aggiuntivi, a minoranze parlamentari che possano investire della questione, nei 60 giorni successivi alla pubblicazione della legge, la Corte costituzionale. In tal modo, questi ulteriori soggetti potrebbero ovviare, con una sorta di azione pro Constitutione, ad un’eventuale omissione governativa. Si vorrebbe quindi aggiungere una garanzia nel caso in cui il Governo sia d’accordo con una determinata regione per motivi politici, che non tengano abbastanza conto della Costituzione. Tale garanzia sarebbe rinforzata se si desse alla Corte costituzionale il potere cautelare di sospendere l’efficacia di una legge regionale che potrebbe produrre dei guasti altrimenti non riparabili. Il quinto pilastro è dato dal rapporto tra regioni ed enti locali. Questo rapporto, in realtà, non risulta chiarito, perché da una parte non si è voluto dare, a causa della resistenza dei comuni (municipalismo contro regionalismo), ciò che era stato riconosciuto alle regioni a statuto speciale, cioè il potere ordinamentale. Questo potere è stato assegnato, con una legge costituzionale del 1993, alle regioni a statuto speciale, che tra l’altro in generale – salvo le provincie di Trento e di Bolzano – non l’hanno esercitato, perché creava troppe reazioni nei comuni. Allora rimane il dubbio: quali poteri hanno le regioni nei confronti degli enti locali? In realtà, l’articolo 118 chiarisce che ci sono funzioni che possono essere conferite con legge regionale. Allora, se ci sono funzioni che possono essere conferite con legge regionale, è evidente che anche la regione può allocare competenze (probabilmente in quelle materie di competenza esclusiva che abbiamo visto prima) al comune o alla provincia, i quali dovrebbero arricchire le loro attribuzioni anche con competenze assegnate mediante legge statale (funzioni fondamentali; così l’articolo 117, comma 2, lettera p). Rimane tuttavia quest’incertezza circa i limiti del potere allocativo delle regioni. In Germania, invece, non ci sono dubbi circa il fatto che il Land può senz’altro ridurre o ampliare le competenze delle circoscrizioni minori. Un problema di principio molto importante è posto dal comma 3 del nuovo articolo 116 (articolo 2 del nuovo testo approvato anche dal corpo elettorale), che prevede ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui al comma 3 dell’articolo 117. Secondo alcuni – ma la soluzione mi sembra, per così dire, massimalista – le regioni potrebbero perciò acquisire potere legislativo esclusivo anche in materia di grandi reti di telecomunicazioni, di energia, eccetera, ma soprattutto – è una novità negoziata all’ultimo momento alla Camera – anche in alcune materie di legislazione esclusiva dello Stato, cioè nelle famose norme generali sull’istruzione ed altre, di minore rilievo, concernenti i giudici di pace (non la giustizia: non esiste una giustizia di pace, come è stato affermato scherzosamente, da contrapporre ad una giustizia di guerra, esistono solo giudici di pace). Ebbene, a mio avviso è molto dubbio che questa norma rispetti i princìpi fondamentali della Costituzione, perché mentre il progetto della Bicamerale diceva che «con legge costituzionale possono essere aggiunte altre materie» (e le modifiche apportate dall’Assemblea della Camera salvavano le materie di competenza esclusiva dello Stato), qui si viola secondo me il principio della rigidità costituzionale dell’articolo 138, che è la garanzia massima che la Costituzione contempla per la sua superiorità. In altri termini, in questo caso, come riconosce l’autore di un volume sul regionalismo differenziato (perché adesso c’è, specie in Lombardia, una forte spinta al regionalismo asimmetrico), in sostanza si arriva con queste formule ad una vera e propria ipotesi di revisione costituzionale. Scrive infatti il professor Antonini: «La prospettiva dell’asimmetria appare quindi votata a presentarsi come un’ipotesi di revisione costituzionale potenzialmente idonea a ricondurre in nuovi e più giustificati equilibri l’una e l’altra delle forme originarie del regionalismo italiano», cioè a statuto ordinario e a statuto speciale. Ma se si realizza un’ipotesi di revisione costituzionale, nel momento in cui si apre una strada che può dare alle regioni poteri di cui non conosciamo la portata, è possibile procedere senza le garanzie dell’articolo 138 della Costituzione, almeno nella misura in cui queste garanzie erano mantenute dalle leggi istitutive delle Bicamerali? Io ritengo che questo sia un problema molto grave. Mentre eravamo partiti in modo ortodosso, in sede di Bicamerale, ci siamo poi venuti a trovare, passo dopo passo, con poteri sempre più estesi delle regioni e con garanzie sempre minori per il procedimento di revisione costituzionale: invece dell’articolo 138, una legge sui generis approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intese fra lo Stato e la regione interessata. Voi capite che adesso – non mi riferisco a questa legislatura, parlo in generale – con l’adozione del sistema maggioritario le garanzie dovrebbero essere certamente maggiori rispetto a quelle previste in questo comma. Mi rendo conto che c’è una forte spinta (non so se sia incontenibile come dicono alcuni), specialmente in quello che, per intenderci, chiamo lo Stato di Milano. Voi sapete che c’è un bel libro di uno storico contemporaneista, Fausto Fonzi, intitolato «Crispi e lo Stato di Milano»: praticamente anche qui c’è un po’ di Stato di Milano, lo dico in termini scherzosi ma non troppo. Quindi, questo è un punto che secondo me va meditato seriamente, perché altrimenti questo regionalismo rischia di essere sì asimmetrico, ma a danno della Costituzione. Tutto ciò impone cautela; certo, questo regionalismo differenziato non è obbligatorio ma è disponibile con eccessiva facilità. Peggio ancora se il procedimento di revisione costituzionale venisse «scansato» con una disinvolta abilitazione offerta alle regioni per appropriarsi di materie ora di competenza esclusiva dello Stato. Vi è poi una questione di merito. È vero che finora abbiamo avuto statuti speciali e statuti ordinari, però tale distinzione non ha danneggiato molto il principio di unità nazionale, perché c’erano statuti speciali al Sud così come al Nord. Diversa sarebbe la situazione se si venissero a creare delle contrapposizioni che comprendessero tutto o buona parte del Nord da una parte e tutto o buona parte del Sud dall’altra. Questo anche perché nella nostra Costituzione (che tendenzialmente con questa revisione del Titolo V vorrebbe evolvere in direzione del federalismo cooperativo), eccezion fatta per la conferenza Stato-regioni che non è citata, mancano purtroppo le sedi per la cooperazione, salvo quella Commissione bicamerale per le questioni regionali che dovrebbe integrarsi con rappresentanti delle autonomie e che è stata affidata, a questo fine, al potere regolamentare delle Camere proprio per rispettare la loro autonomia. Può darsi che si arrivi a quelle regolamentazioni parallele che si realizzarono quando si approvò la legge per la responsabilità penale dei Ministri, togliendo il giudizio su di essa alla Corte costituzionale e limitando l’intervento parlamentare alla autorizzazione di una Camera, o anche prima, allorchè, auspice l’allora segretario generale del Senato Picella, per precisare il procedimento di revisione costituzionale, si adottò una regolamentazione identica tra Camera e Senato, una sorta di atto bicamerale non legislativo. Indubbiamente questa esposizione non sarebbe completa (invero, le questioni su cui diffondersi sarebbero tantissime) se, come mi ha chiesto il Presidente, non vi indicassi alcune urgenze che secondo me sono da sottolineare in modo particolare. Innanzi tutto, vi è la questione che agita in questi giorni lo stesso Governo, e cioè il problema dei controlli. È accaduto infatti che, mentre il progetto della Bicamerale approvato dalla Camera e il disegno di legge presentato da D’Alema e Amato prevedevano espressamente la soppressione di tutti questi controlli e la loro esclusione per l’avvenire, la legge costituzionale attuale invece – credo per una svista – si limita ad abrogare quegli articoli della Costituzione che riguardano i controlli. Sono affiorate allora varie perplessità. Alcuni, come il relatore alla Camera, professor Cerulli Irelli, ritengono che, una volta abrogata la norma costituzionale, rispetto a cui talune leggi ordinarie (come ad esempio la legge Paladin del 1993) si ponevano come leggi di attuazione, cadrebbero egualmente, sia pure per effetto di interpretazione, tali leggi che minutamente regolavano questi controlli. Altri invece ritengono che si sia creata una vera e propria lacuna nella Costituzione. Vi cito solo una frase del professor Pastori, uno degli amministrativisti che si è occupato della questione: «È vero che la legge di riforma abroga le norme relative a tutte le altre forme di controllo su atti ora previsti dalla Costituzione vigente, anche se non le vieta espressamente, il che parrebbe costituire una indubbia lacuna: l’aver di fatto rimesso alla legislazione ordinaria di prevedere eventuali altre forme di controllo». Data la lacuna che si è venuta a creare nella Costituzione, che non ha soppresso espressamente i controlli – ma il visto sulle leggi del Commissario di Governo è sicuramente caduto –, se anche, per una sorta di carambola interpretativa, cadessero le norme di legge, rimarrebbe tuttavia il potere dello Stato di stabilire controlli con legge ordinaria. È comunque urgente per i comuni sapere se i loro bilanci devono essere controllati, anche per la disciplina specifica esistente sulla materia. Occorre perciò chiarire al più presto la questione dei controlli, perchè è diverso sopprimere istituti in modo espresso invece che eliminare semplicemente le norme che li fondano senza disporre per l’avvenire. Su questo direi che occorrerebbe un’iniziativa governativa o una legge del Parlamento, sia pure di contenuto circoscritto, che chiarisse la questione. Poi vi sono alcune grandi scelte molto urgenti: in primo luogo, quelle relative alle norme generali sull’istruzione e sul livello essenziale dei diritti sociali, che esigerebbero indubbiamente un intervento non troppo tardivo. Occorrerebbe anche chiarire i criteri in base ai quali giudicare, almeno in via di massima, quando le attribuzioni, in deroga al principio di sussidiarietà e per ragioni di esercizio unitario, possono essere mantenute in capo alle regioni o allo Stato e non conferite ai comuni. Andrebbero poi adottate, almeno a titolo di precedente o di esempio, alcune normative sui princìpi fondamentali per le materie di legislazione concorrente, di cui abbiamo parlato prima. Dovrebbe, inoltre, esservi un raccordo tra il decreto legislativo n. 56 del 2000, in materia fiscale, e l’articolo 119 della Costituzione e dovrebbero essere stabiliti i princìpi-base dei sistemi elettorali delle regioni; altrimenti queste ultime non potrebbero esercitare il loro potere su questo tema così rilevante. Da ultimo, dobbiamo analizzare, solo per un attimo, i riflessi sulla vita parlamentare delle nuove regole. Secondo me, le recenti norme che hanno ridisciplinato i Ministeri e che dopo questa legge dovrebbero essere riviste almeno in parte – alcuni Ministeri hanno attribuzioni che appartengono ormai alla competenza esclusiva delle regioni (agricoltura, industria, commercio, eccetera) – non possono mancare di avere un «riflesso» – si dice così nelle conversazioni tra studiosi – anche nella vita parlamentare. Certamente il riordino delle Commissioni dovrà tener conto del riordino dei Ministeri, ma anche e soprattutto del nuovo riparto delle competenze tra Stato e regioni. Può darsi che il numero delle Commissioni permanenti possa rimanere lo stesso di oggi; ma è certo che bisognerebbe perlomeno tentare una razionalizzazione alla luce dello jus superveniens. Signor Presidente, prima di concludere, anche in considerazione della presenza del senatore Salvi, vorrei fare una postilla. Se guardiamo al libro bianco sul mercato del lavoro in Italia: «Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità», presentato dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali, a pagina IX dell’introduzione troviamo un’affermazione che ha dato luogo a molte discussioni: «Peraltro, il nuovo assetto federale che interessa anche la regolazione del mercato e dei rapporti di lavoro può valorizzare questo metodo di intervento. La potestà legislativa concorrente delle regioni riguarda non soltanto il mercato del lavoro, bensì anche la regolazione dei rapporti di lavoro. Il legislatore nazionale, nel dialogo con regioni e parti sociali, dovrà intervenire con una normativa cornice, – ma poi spetterà alle singole realtà territoriali costruire un impianto regolatorio che valorizzi le diversità dei mercati del lavoro locali e superi l’attuale stratificazione dell’ordinamento giuridico». Ora, poiché l’elenco delle materie della legislazione concorrente prevede soltanto la «tutela e sicurezza del lavoro» – ed è molto discusso che la sicurezza del lavoro possa dipendere dalle diversità delle regioni – si deve rispondere a questa affermazione che quella materia di legislazione concorrente non sembra ricomprendere la disciplina dei rapporti di lavoro. È stato opposto anche da altri che nel codice civile esiste un libro V che riguarda il lavoro e che quelle norme insieme ad altre, come le regole contenute nello Statuto dei lavoratori, farebbero parte di una competenza esclusiva dello Stato (al secondo comma, lettera l) del novellato articolo 117 della Costituzione dove si parla di «ordinamento civile e penale»). Queste norme sul rapporto di lavoro rientrerebbero, almeno come quadro, nell’ordinamento civile. Mi pare che anche il senatore Bassanini si sia espresso in questi termini. In realtà, forse nel libro bianco si fa confusione con il concetto di politica dell’occupazione che, secondo Cerulli Irelli, rientrerebbe nella competenza esclusiva delle regioni, perché non sarebbe ricompresa nella competenza esclusiva o concorrente dello Stato. Comunque, un problema è stato posto. Il libro bianco consta di circa novanta pagine. Mi riservo di esaminarlo più analiticamente; per oggi mi fermo alla pagina IX.
BASSANINI (DS-U). Rispetto all’ultima questione (sulla quale non si è pronunciato) chiederei al presidente Elia in base a che cosa si può ritenere che la competenza riservata allo Stato in materia di ordinamento civile comprenda solo alcuni libri del codice civile e non altri. Alcune delle interpretazioni citate, senza pronunciarsi, dal presidente Elia azzerano sostanzialmente (o pongono le premesse per azzerare), per via di legislazione regionale, interi libri del codice civile.
Su questo argomento vorrei porre una domanda più generale al presidente Elia: non crede che, al di là delle diverse posizioni di ciascuna forza politica, l’attuazione di una riforma di questa portata richieda ormai un atteggiamento di sostanziale onestà intellettuale? In questi ultimi mesi abbiamo visto contrapporsi tesi ed interpretazioni singolarmente contraddittorie. Abbiamo letto editoriali che sostenevano che questa riforma è «acqua fresca», che non cambia sostanzialmente niente; editoriali anche autorevoli: ricordo uno studioso vicino alla mia parte politica, Ilvo Diamanti, in un editoriale su «Il sole-24 ore», che affermava che si tratta di una riforma di modestissima portata, ma esortava a votare sì perché è meglio che niente. Nel libro bianco del Ministro del lavoro viene data un’interpretazione più estensiva delle competenze regionali in una materia molto delicata quale i rapporti di lavoro, pure appartenendo il medesimo Ministro ad una forza politica che afferma che questa riforma è poca roba ed ha poco significato. Contraddizioni ce ne sono da tutte le parti, ne ho citate soltanto alcune. Viceversa, anche sulla base di quanto affermato dallo stesso presidente Elia, penso che questa sia una riforma di vasta portata. Egli ricordava una serie di materie ormai di competenza esclusiva delle regioni; il che vuole dire competenza legislativa esclusiva e competenza regolamentare piena delle regioni e degli enti locali, tra cui, ad esempio, gran parte dei comparti dei settori dell’industria (salvo una competenza ripartita in alcuni settori limitati come la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia), del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura. Di fronte a questo dato, non pensa, Presidente, che bisognerebbe richiamare tutti ad una sorta di onestà intellettuale? Non giochiamo su queste cose e non tentiamo di dare interpretazioni forzate; dove il testo, come nel caso dei rapporti di lavoro, può essere correttamente interpretato, nel senso di una competenza ancora unitaria, non cerchiamo di forzarlo allargando un ambito di competenza, di devoluzione di funzioni che già è molto consistente. Si potrebbe arrivare a ciò, cancellando un intero libro del codice civile che, a questo punto, deve attendere soltanto la decisione delle regioni che potrebbero tranquillamente abrogarlo e sostituirlo. A me, francamente, sembra un’interpretazione poco sostenibile. La seconda domanda che vorrei porre è connessa con quella che ho appena svolto. Nell’elenco, sia pure esemplificativo, delle principali materie che in forza della riforma passano alla competenza esclusiva della regione, il presidente Elia ci ha parlato di industria, commercio, artigianato e agricoltura senza citare l’urbanistica. Nel testo si parla di governo del territorio; forse questo cambiamento di terminologia che il legislatore ha usato sarebbe stato meglio evitarlo per renderne più chiara l’interpretazione. Penso però che, se identifichiamo la materia urbanistica con il governo del territorio (non so quale sia l’opinione del Presidente in proposito), la legislazione è ripartita o concorrente; quindi i poteri amministrativi sono di competenza regionale e locale, o provinciale nel caso del Trentino-Alto Adige. È veramente così? Ciò significa che dovremmo porci immediatamente il problema di una verifica: non tutte le disposizioni contenute nel disegno di legge Lunardi sulle grandi opere sono coerenti con queste disposizioni costituzionali. Poiché non è stato definitivamente approvato dovremmo analizzarlo meglio, perché dove è prevista una potestà concorrente, non c’è più un potere amministrativo statale. E questo vale, a maggior ragione, in una materia come l’urbanistica, che già era tradizionalmente di competenza amministrativa delle regioni e degli enti locali. Vorrei porre un’ulteriore domanda al presidente Elia. Tra le materia di competenza statale vi è la tutela della concorrenza. Vorrei sapere qual è la giusta interpretazione. Riguarda le regole della concorrenza nelle materie di competenza dello Stato o, più in generale, tutti i settori, compresi quelli di competenza legislativa delle regioni? Si tratta di una competenza, per così dire, trasversale, trattandosi di definire le norme sulla tutela della concorrenza, le norme antimonopolistiche in generale, o solo nel settore di competenza del legislatore statale?
ELIA. Per quanto riguarda il primo punto, forse non mi sono espresso bene; non azzardo un giudizio definitivo perché non ho potuto leggere ancora tutto il libro bianco. Per una questione di metodo e per ragioni di prudenza, mi riservo di leggerlo prima di fare affermazioni assolute. Se mi dovessi fermare alle prime nove pagine, in mancanza di una motivazione specifica, direi – come ho già fatto – che effettivamente vi è il libro V del codice, e che la formula «tutela e sicurezza del lavoro» non mi sembra tocchi l’ordinamento del rapporto di lavoro e dei relativi contratti. Quindi, ad una prima e non definitiva valutazione, affermerei anch’io che la materia non è tra quelle di legislazione concorrente; però, per scrupolo di studioso, mi riservo di leggere l’intero libro bianco.
Il problema dei lavori pubblici è certamente uno dei più gravi poiché richiama una distinzione presente nel vecchio articolo 117 della Costituzione. In altre parole, alcuni sono portati a far rientrare nel grande «calderone» della competenza residuale materie come i trasporti e la viabilità di interesse regionale. Le grandi reti di trasporto e di navigazione rientrano tra le materie di legislazione concorrente; di conseguenza, tutta una serie di attività e funzioni minori potrebbero dar luogo ad una competenza regionale esclusiva, su scala più ridotta. Ritengo che alcune di queste materie, come le grandi reti di trasporto e di navigazione o l’ordinamento della comunicazione, dovrebbero essere riesaminate; come hanno fatto, del resto, gli olandesi, che nel 1983 hanno approvato una sorta di legge di consolidamento e di razionalizzazione di tutte le modifiche accumulatesi negli ultimi anni. Vedremo se, una volta conclusa questa lunghissima fase di transizione, sarà possibile procedere ad una razionalizzazione. Oggi come oggi credo debbano essere date interpretazioni che salvino la possibilità per lo Stato di agire a tutela di quel benessere della collettività a cui si è accennato. Per quanto riguarda la concorrenza, credo si tratti (oltre che di una competenza) di una finalità trasversale, che riguarda l’industria e il mondo economico; un po’ come la tutela del consumatore, che tocca l’esercizio del potere tariffario in tutta una serie di settori. Certamente vi saranno conseguenze anche su procedimenti legislativi in corso. Ricordavo poc’anzi un caso da manuale: la legge n. 153 del 2001, sul turismo, che a prima vista contrasta con l’assegnazione del turismo alla competenza esclusiva della regione. Naturalmente sappiamo che il criterio delle materie si presta ad essere dilatato o ristretto. Alcune formule utilizzate impediscono, per onestà intellettuale, di restringere la portata di alcune attribuzioni, anche quando sul piano tecnico e materiale da parte di alcuni studiosi per talune di queste competenze ripartite si è parlato di follia. In ogni caso, bisognerebbe seriamente valutare ciò che rende agibile il principio di unità dell’articolo 5 e ciò che, invece, lo rende oltremodo difficile e preferire – magis ut valeat – l’interpretazione a favore del principio unitario.
DEL PENNINO (Misto-PRI). La ringrazio, presidente Elia, per la sua esposizione, che ha messo in evidenza, con molto acume e garbo, alcuni aspetti di questa riforma che da tempo avevano destato in me preoccupazione e perplessità.
Non voglio svolgere un’analisi dettagliata delle sue osservazioni, molte delle quali, tra l’altro, mi trovano ampiamente consenziente: mi riferisco, in particolare, alla possibilità di una riforma costituzionale impropria introdotta dall’ultimo comma dell’articolo 116 e all’osservazione, indirettamente contenuta nelle sue parole, che con la modifica introdotta a proposito della impugnazione delle leggi regionali, eliminata l’ipotesi di intervento del Parlamento e mantenendosi solo quella di ricorso alla Consulta, in realtà si finirà con il gravare la Corte costituzionale di ulteriori problemi. Mi soffermo, dunque, su un punto specifico: quello relativo alla cosiddetta legislazione concorrente, che – a mio avviso – rappresenta l’elemento di maggiore preoccupazione di questa riforma. Vorrei capire se ho colto bene una sua osservazione che mi sembra degna della massima attenzione. Lei ha sottolineato che con la nuova formulazione dell’articolo 117 non vale più l’interpretazione secondo cui i princìpi fondamentali che devono essere stabiliti dalle leggi dello Stato vengono comunque dedotti dalle leggi di merito regolanti la materia. È necessario, invece, che esistano specifiche leggi di principio, non potendosi dedurre i princìpi generali dall’insieme della legislazione di merito. Le conseguenze che derivano da questa interpretazione rilevano ai fini della possibilità di iniziativa legislativa delle Regioni nelle materie concorrenti. Lei ha fatto riferimento ad alcune materie che oggettivamente sarebbero da riesaminare (sulle quali sarebbe stato opportuno riflettere al momento della stesura del testo), le grandi reti di trasporto e di navigazione e l’ordinamento della comunicazione. Io aggiungerei la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, che certamente è questione di portata nazionale, non regionale. Si tratta di un aspetto che è necessario assolutamente chiarire. Se l’interpretazione che mi è parso cogliere dalle sue parole venisse avallata dall’indagine conoscitiva, sarà necessario porsi il problema di un intervento legislativo correttivo. La domanda che le pongo è quindi: se non interviene una specifica legislazione di principio, è consentita alle regioni un’iniziativa legislativa sulle materie che sono oggetto di legislazione concorrente, indipendentemente dalle indicazioni statali?
ELIA. Pur non essendo espressamente qualificata come una revisione in senso federale dell’ordinamento, in questa disciplina ci sono dei tratti di federalismo; basterebbe infatti il rovesciamento dell’enumerazione. Questo – si dice – porta con sé anche l’impostazione tipica degli Stati federali. È previsto espressamente, proprio nel comma 3, che «Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato». Un po’ per questa formulazione letterale, un po’ perché la fonte legislativa statale non ha più competenza generale, secondo alcuni, ci sarebbe un’attrazione che determinerebbe la possibilità per le regioni di legiferare anche senza che siano stati prima stabiliti i princìpi fondamentali; forse per spingere le Camere a delibeare, perché altrimenti, non enunciando princìpi fondamentali, lo Stato bloccherebbe praticamente l’esercizio della potestà legislativa regionale concorrente.
Il riferimento alla normazione precedente in effetti darebbe luogo a risultati raramente utilizzabili data la differenza di impostazione, specialmente in tema di organizzazione e di poteri amministrativi, che si è venuta a realizzare con questa riforma. Come si potrà far valere la tutela dell’interesse nazionale? Probabilmente si potrà fare ricorso al comma 2 dell’articolo 120, che raccoglie due criteri propri dell’articolo 72 della Legge Fondamentale tedesca: la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica. Credo che in casi estremi, per esempio la produzione e il trasporto dell’energia o materie simili, si possa fare ricorso a quel comma. È sbagliato parlare di «Governo»: il Governo al massimo potrà emanare un decreto-legge, in casi estremi; il potere rimane infatti al Parlamento. Non si doveva parlare di «Governo» ma di «Stato». Comunque, a parte la questione terminologica, un surrogato della tutela dell’interesse nazionale sta in questa ipotesi di intervento sostitutivo, non per il mancato rispetto dei trattati internazionali o della normativa comunitaria né per il pericolo per l’incolumità e la sicurezza pubblica, bensì appunto per «la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica» e in particolare per «la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Probabilmente potrebbe prevalere un’interpretazione per cui in alcuni casi, che sarebbero del tutto atipici, del tutto anomali rispetto alla vita di uno Stato federale anche contemporaneo, non sarebbe illegittimo un intervento combinato Governo-Parlamento, in sede di conversione di un decreto-legge o con l’iniziativa legislativa in sede parlamentare, che, facendo valere i criteri dell’unità giuridica o economica, ponesse rimedio alle anomalie più stridenti. Anche se non c’è in questo testo la formula «ordinamento federale», rimane la domanda: quale federalismo? Il problema non è il federalismo, il problema storicamente è quale federalismo. L’elaborazione successiva, gli sviluppi legislativi, giurisprudenziali e della prassi potranno indicarci quale ipotesi federalistica si potrà realizzare.
KOFLER (Aut). Presidente Elia, da convinto autonomista ho seguito con molto interesse e con grande soddisfazione la sua accurata esposizione. Lei ci ha indicato, su richiesta del presidente Pastore, alcune urgenze che incombono sul legislatore nazionale.
La mia non è una domanda del tutto disinteressata, in quanto provengo da una regione a statuto speciale. Vorrei chiederle se ha potuto intravedere qualche urgenza che incombe sul legislatore regionale o addirittura su quello provinciale. Mi riferisco soprattutto all’applicazione dell’articolo 10 della legge costituzionale.
ELIA. Per alcuni casi l’adeguamento viene ritenuto in re, già realizzato, nel senso che per tutte le materie in cui è previsto il potere legislativo esclusivo delle regioni a statuto ordinario automaticamente scatterebbe il potere legislativo esclusivo, quando mancasse, per le regioni a statuto speciale.
Più delicato è il punto che riguarda le cosiddette competenze legislative primarie delle regioni a statuto speciale, se queste in qualche modo toccano le competenze esclusive dello Stato, indicate al comma 2 del nuovo articolo 117. Secondo alcuni studiosi varrebbero i limiti dei princìpi generali dell’ordinamento e delle grandi riforme economico-sociali; però a questo proposito sarebbe necessario un esame analitico, statuto per statuto, per verificare se vi sono situazioni di contrasto a proposito di competenze primarie. A mio avviso, sono soprattutto le regioni a statuto speciale che dovranno assumersi questo compito. I consigli regionali e provinciali dovranno esaminare più da vicino la portata dell’articolo 10 e distinguere se il pareggiamento è, per così dire, automatico o se invece esige ulteriori interventi. Credo che il Parlamento abbia già abbastanza lavoro, per cui speriamo che le regioni a statuto speciale diano un contributo.
GUERZONI (DS-U). Signor Presidente, ringrazio il professor Elia per la sua relazione, stimolante e approfondita.
Sono tre le questioni che vorrei affrontare. In materia di controlli egli ci ha ricordato che l’abrogazione non è esplicita e la discussione che si è aperta, citando la tesi del professor Pastore, circa l’ipotesi di provvedere con legge ordinaria. Ma già nella Costituzione erano previsti dei controlli: se il Costituente avesse voluto trasferire alla legislazione ordinaria la potestà, avrebbe potuto indicarlo! Si potrebbe diversamente ragionare se fossero mancate previsioni specifiche sul punto. Lei ci ha elencato questioni meritevoli di attenzione urgente. Non crede che bisognerebbe includere quella della finanza locale, con riferimento alla formazione e all’ordinamento dei bilanci dei comuni? Ieri ho partecipato ad un seminario piuttosto impegnativo su questo tema, con la partecipazione di diversi sindaci. L’articolo 119 prevede che: «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario». Tenuto conto che nella precedente legislatura, con la riforma fiscale, questi princìpi sono stati definiti, il coordinamento è stato stabilito. Per i Comuni si fa riferimento agli statuti, ma gli statuti già esistono. Non ci troviamo di fronte a vuoti, rispetto ai quali si può esercitare il potere di stabilire ed applicare tributi propri. Bisogna riflettere sul fatto se anche la questione della finanza locale debba essere affrontata con una certa urgenza. In caso contrario, potremmo incontrare dei problemi. Ricordo che stiamo varando una finanziaria che per la finanza locale va in tutt’altra direzione e che all’inizio del prossimo anno potrebbero determinarsi divaricazioni anche consistenti. L’ultima questione riguarda il principio di «interesse nazionale». Credo che sia una questione centrale, che la riforma riproporrà con molta forza. Lei, giustamente e saggiamente, ha detto che il Parlamento dovrebbe assumersi le sue responsabilità, perché è una questione essenzialmente politica; in proposito, ha citato i livelli essenziali dei servizi. Partendo da due presupposti: la riforma approvata e i decenni passati dalla data di entrata in vigore della Costituzione, quale potrebbe essere il passaggio parlamentare adatto per la soluzione della questione?
ELIA. Senatore Guerzoni, per quel che riguarda i controlli, la questione è resa più grave dal fatto che per gli atti del Governo e per quelli della pubblica amministrazione rimane fermo l’articolo 100 della Costituzione, che prevede il controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti. Qualcuno dice che si è determinato uno squilibrio eccessivo tra l’assenza di controllo sugli atti degli enti locali ed il controllo per gli atti dell’amministrazione dello Stato e del Governo. Questo, secondo me, è il motivo che spinge alcuni autori a sostenere che si può ammettere che siano caduti i controlli come erano previsti da norme di attuazione di disposizioni costituzionali abrogate, però questo non dovrebbe impedire al legislatore ordinario di stabilire altre forme di controllo. Non solo il cosiddetto controllo di gestione ex post della Corte dei conti, ma anche, in qualche caso più grave (penso ai bilanci per la salvaguardia del «patto di stabilità»), un controllo preventivo di legittimità. Come ho detto prima, c’è bisogno di un chiarimento. Ci sono resistenze; alcuni si erano adagiati sulle funzioni del CORECO e su quelle di presidenza di questi organismi: ci sono delle reazioni, umanamente comprensibili, perché c’è chi teme di perdere la propria carica; ma questo è un dettaglio. Ciò che è importante è che l’incertezza andrebbe perlomeno provvisoriamente risolta in vista di scadenze più immediate.
Passo ora alla questione della finanza locale e dei bilanci. Oltre alle discipline particolari previste per questi controlli, che alcuni vedono come non immediatamente attuativi di norme costituzionali, credo si debba far riferimento alla necessaria razionalizzazione della finanza locale. L’articolo 119 mette impropriamente sullo stesso piano Stato, regioni, comuni e province. Essendo in vigore l’articolo 23 della Costituzione, i comuni e le province, non avendo potestà legislativa, non possono intervenire con norme regolamentari in materia tributaria, fissando aliquote, salvo quelle già consentite dalla legge (tipo ICI). Bisogna forse ripensare sia a queste discipline sia a quelle del decreto legislativo n. 56 del 2000, che prevede tempi molto lunghi (se non sbaglio, andrebbe a regime tra tredici anni).
GUERZONI (DS-U). Per le regioni. ELIA. Sì. Andrebbero coordinati tempi e scadenze in modo da non incorrere, se non in vere e proprie aporie, quanto meno in discordanze che dovrebbero essere eliminate. Per quello che riguarda l’interesse nazionale, certamente si è tolto un limite, nella cui interpretazione la Corte, esponendosi, era stata fatta oggetto di molte critiche da parte di chi vi ravvisa una tendenza eccessivamente centralista. Abbiamo vissuto troppo tempo con l’errata identificazione tra principio di unità e principio di accentramento. Nel superamento di questa identificazione impropria, si è ritenuto di dover escludere anche la categoria dell’interesse nazionale (che si poneva come limite per la legislazione concorrente, in base al vecchio articolo 117), nella equiordinazione delle due potestà statale e regionale.
Ritengo che un valore come la tutela del principio di unità dovrebbe valere sia per la legislazione nazionale, sia per quella regionale, e quindi dar luogo ad una giurisprudenza che fissi alcuni criteri unificanti per entrambe. Sarebbe meglio se lo facesse il legislatore, altrimenti bisognerà che provveda la Corte costituzionale.
PRESIDENTE. Professor Elia, sarei tentato di porle una domanda sulla Camera delle regioni, per questo esempio di democrazia mediata che viene immesso nel nostro ordinamento. Purtroppo stanno iniziando i lavori dell’Aula e quindi non abbiamo più tempo a nostra disposizione. Comunque, avremo modo di parlarne in altre occasioni. ELIA. Certamente. C’è già una letteratura su questo argomento! PRESIDENTE. La ringrazio per il suo contributo e dichiaro conclusa l’audizione.
Rinvio il seguito dell’indagine conoscitiva ad altra seduta.
I lavori terminano alle ore 17,30.