Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi

46a SEDUTA

MARTEDI 10 FEBBRAIO 1999

Presidenza del Presidente PELLEGRINO

Indice degli interventi

PRESIDENTE
ANCORA
DE LUCA Athos (Verdi-l'Ulivo), senatore
FOLLIERI (PPI), senatore
FRAGALA' (AN), deputato
TARADASH (Forza Italia), deputato

La seduta ha inizio alle ore 20,15.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la seduta.

Invito la senatrice Bonfietti a dare lettura del processo verbale della seduta precedente.

BONFIETTI, segretario, dà lettura del processo verbale della seduta del 25 novembre 1998.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato. E’ approvato.

 

COMUNICAZIONI DEL PRESIDENTE

PRESIDENTE. Comunico che, dopo l'ultima seduta, sono pervenuti alcuni documenti, il cui elenco è in distribuzione, che la Commissione acquisisce formalmente agli atti dell'inchiesta.

Comunico altresì che il prefetto Vittorio Stelo ha provveduto a restituire, debitamente sottoscritto ai sensi dell'articolo 18 del regolamento interno, il resoconto stenografico della sua audizione svoltasi il 25 novembre 1998, dopo avervi apportato correzioni di carattere meramente formale.

Comunico inoltre che è stato conferito ed accettato l'incarico di consulenza a tempo determinato con riferimento ai fenomeni eversivi e terroristici del periodo 1969-1975 al dottor Domenico Rosati, al quale dò il benvenuto. Questo perché ho ritenuto di attribuire l'incarico di relatore su questo periodo al collega Follieri, che è qui e che ringrazio di averlo accettato. Mi auguro che quanto prima la commissione possa cominciare a discutere su un documento.

Informo infine che, in data 9 febbraio 1999, il Presidente del Senato della Repubblica ha chiamato a far parte della Commissione il senatore Alessandro Pardini in sostituzione del senatore Eugenio Mario Donise, dimissionario. Vedo presente il senatore Pardini e formulo anche a lui auguri di benvenuto.

Colleghi, noi riprendiamo oggi l'attività di inchiesta. L'Ufficio di Presidenza ha deliberato un nutrito calendario di audizioni e insieme ha disposto alcune acquisizioni importanti. I colleghi potranno consultare il verbale dell'Ufficio di Presidenza per avere più chiaro il quadro entro il quale ci muoveremo.

 

INCHIESTA SUGLI SVILUPPI DEL CASO MORO: AUDIZIONE DEL DOTTOR TULLIO ANCORA

Viene introdotto il dottor Tullio Ancora.

PRESIDENTE. La prima delle audizioni che abbiamo disposta è quella del dottor Tullio Ancora, presidente di sezione del Consiglio di Stato, ora in pensione, che ringrazio per la sua presenza.

Vorrei preliminarmente fare una raccomandazione ai colleghi. Continuerò a non porre limiti temporali agli interventi e al numero delle domande, però, dopo aver riletto i verbali della nostra Commissione e aver letto, in preparazione di questa audizione, i verbali della Commissione Moro, mi sono accorto che molto spesso noi impieghiamo moltissimo tempo nel formulare le domande. Spesso si vedono domande di due facciate, due facciate e mezzo nel verbale e questo nuoce all'utilità dell'audizione. Quindi vi pregherei, quando mi chiederete e vi darò la parola, di limitarvi a domande secche e poi di lasciare ad altra sede i commenti e le valutazioni. Direi che addirittura questo è più utile, soprattutto se si richiede una immediatezza e una chiarezza di risposta. La domanda molto lunga spesso lascia in realtà in dubbio o sfuma l'interrogativo che viene posto all'audiendo. Voglio dare il buon esempio in questo e comincerò a fare al dottor Ancora delle domande brevi, sintetiche al massimo.

Pregherei quindi innanzitutto il dottor Ancora di esplicitare alla Commissione qual era il suo rapporto di amicizia e di collaborazione con l'onorevole Moro.

ANCORA. I rapporti con il presidente Moro sono cominciati credo nel 1941 con l'università, poi c'è stata un'affinità, un'amicizia e quasi un rapporto filiale tra maestro e allievo, tant'è vero che lui mi dava del tu e io gli davo del lei. Poi quando Moro ha cominciato a rivestire cariche ufficiali, e particolarmente quella di Presidente del Consiglio, io ero alto funzionario della Camera; istituzionalmente ero capo dell'ufficio leggi, norme e usi, nonché rapporti col Governo. Fu allora che Moro chiese che fossi, in questo insieme, anche suo consigliere costituzionale. C'è una lettera, che posso lasciare agli atti in cui egli scrive - siamo nel 1965 - all'allora Presidente della Camera: "Alla vigilia della ripresa parlamentare desidero confermarle che il dottor Tullio Ancora, mio consigliere per l'attività parlamentare, è incaricato di coadiuvare il Ministro per i rapporti con il Parlamento, per quanto riguarda i rapporti del Governo con il Parlamento". Il presidente Bucciarelli Ducci risponde: "Ricevo la sua lettera, della quale mi dà conferma. Sono lieto della fiducia che ella concede al dottor Ancora".

Dopo la fine del Governo di centro-sinistra Moro ha avuto come carica ufficiale quella di Ministro degli esteri e anche qui nei cosiddetti annuari è scritto: "rapporti con il Parlamento e gli altri organi costituzionali: consigliere del Ministro Ancora dottor Tullio, consigliere di Stato" (nel frattempo dalla Camera passai al Consiglio di Stato). Quindi sono stati rapporti istituzionali, che avevo anche perché alla Camera mi occupavo dei rapporti con i Gruppi per l'attività parlamentare. Il segretario e poi presidente del Gruppo Socialista allora era Ferri, poi Bertoldi: presidente del Gruppo Comunista era Ingrao, vice presidente del gruppo era Barca; presidente del Gruppo Liberale era Malagodi, Giorno segretario; presidente del Movimento Sociale era De Marzio, Almirante era segretario del partito ma non era capogruppo. Quindi era un rapporto con tutti i Gruppi per organizzare i lavori parlamentari. E avevo da lui - si può anche dire - delle lettere in bianco firmate. Lui per telefono mi diceva, ad esempio, di chiedere la remissione in Aula di un determinato disegno di legge e naturalmente mi dava la autorizzazione ad usare una sua lettera firmata. Questo per quanto riguarda l'attività parlamentare. C'è stato poi il Governo di centro-sinistra e l'attività del Ministero degli affari esteri e Moro - è la verità - fu ricercato dal Partito comunista, non fu lui a ricercare quest'ultimo.

Il Partito comunista durante il centro-sinistra non era assolutamente leggero nei suoi rilievi, nelle sue critiche e nelle sue opposizioni: ne riconosceva però la linea leale, culturale e suscettibile di sviluppi, anche perché, ormai è storia antica, il centro-sinistra nacque con una chiusura verso il Partito comunista ed anche con il Partito liberale (cosa che Malagodi non perdonò veramente, ma questo serviva, diceva Moro, anche per non dare l'impressione di un Partito comunista messo da solo al bando e di un Governo che lavorava al Centro, non appoggiandosi ad una parte pronunciata a Destra: certo, quella di Malagodi non era la parte più pronunciata a Destra ma il suo era un partito che aveva culturalmente un patrimonio liberale moderato). Questo era il quadro. Io fui avvicinato dall'onorevole Barca e dall'onorevole Ingrao. Dopo la caduta del suo Governo, Moro fece dei discorsi da fuori molto energici; ma, intendiamoci, non erano discorsi di chi era pieno di rancore per non essere stato confermato Presidente del Consiglio. C'era stato un accordo nel suo partito per cambiare; non l'aveva compreso. I suoi non erano attacchi che egli faceva ad altri Gruppi, ma erano richiami al suo partito - al quale una volta ricordo disse: "Vi siete arroccati e non fate arrivare neanche un soffio di vento" - con un richiamo alle classi sociali che erano intorno e che chiedevano, non dico di essere determinanti, ma di essere se non altro ascoltate nelle loro esigenze e che da questo ascolto venisse poi fuori un'azione di Governo che ne tenesse conto.

I comunisti dissero che avevano interesse a parlare con Moro perché egli sembrava l'interlocutore più sensibile, socialmente e culturalmente. In quel momento segretario del partito doveva essere Longo, però Berlinguer già sorgeva come vicesegretario del partito, con poteri e responsabilità particolari; era quasi il segretario, mentre Ingrao era il presidente del Gruppo. E cominciò questo discorso con il Partito comunista. Ecco perché Moro dà poi importanza al rapporto di Tullio Ancora con il Partito comunista: in quel momento era sul Partito comunista che si posava la sua azione per una nuova formula di governo in cui doveva portare con fatica e convinzione il suo partito.

PRESIDENTE. E’ storia nota.

ANCORA. E allora posso risparmiarvela. Ho spiegato perché c'era questo rapporto con il Partito comunista.

TARADASH. In che anni eravamo?

ANCORA. Dopo il 1968, 1969.

PRESIDENTE. Mi scusi presidente se la interrompo, ma volevo fare una domanda che si inserisce in questo contesto. Nel memoriale Moro c'è una conferma di ciò che lei ci sta dicendo. Con riferimento ai giorni drammatici della strage di piazza Fontana, Moro dice testualmente che era a Parigi e che in quella città venne raggiunto dalla notizia della strage e che aveva la sensazione che qualcosa, almeno al momento, di oscuro e di imprevedibile si fosse messo in moto. Egli afferma: "Mi confermò in questa angosciosa convinzione il fatto che il mio vecchio amico, dottor Tullio Ancora, allora alto funzionario della Camera dei deputati e da tempo mio normale organo di informazione e di collegamento con il Partito comunista, mi telefonò in ambasciata a Parigi per dire, con qualche circonlocuzione, che non ci si vedeva chiaro e che i suoi amici (comunisti) consigliavano qualche accorgimento sull'ora di partenza, sul percorso, sull'arrivo e sul trasferimento di ritorno. Si trattava, si precisava, di una pura precauzione non legata a qualche fatto specifico e di sicuro accertamento". Lei può confermare questo ricordo dell'onorevole Moro?

ANCORA. Certamente. Mi telefonò l'onorevole Barca in ufficio e mi disse - allora si pensava alla Grecia, mi pare - che Moro poteva essere preso di mira perché era la forza più viva di Sinistra in quel momento. Io allora gli telefonai e gli dissi che i miei amici, uno in particolare, quello che l'aveva ricercato, consigliavano di seguire una rotta diversa e di prendere un aereo diverso. Ma erano impressioni, queste. Moro mi disse di cercare di fare delle indagini istituzionali; quindi non erano solo rapporti con il Partito comunista. Io allora telefonai a Picella, allora segretario generale della Presidenza della Repubblica, nonché mio amico.

PRESIDENTE. Questo infatti poi lo dice.

ANCORA. Io i memoriali non li ho mai voluti vedere; la loro lettura avrebbe riaperto delle ferite. Io allora parlai con Picella e gli dissi che Moro mi chiedeva di essere informato. Avevo parlato anche con Restivo, che era il ministro dell'interno dell'epoca e lui mi aveva detto di non avere niente in mano. Parlai allora con Picella. Egli mi disse di essere in relazione con Vicari, che era il Capo della Polizia e che si pensava ad un filone anarchico; difatti poi ci fu Valpreda. Questa era la sua valutazione che io trasmisi a Moro. Moro mi disse di seguire la questione ma poi lui stesso si rese conto che era una semplice impressione, come giustamente l'aveva definita il povero Picella, e che non c'era nessun elemento preciso.

PRESIDENTE. Ma nella sua amicizia con lei, Moro le confermò mai che non gli sembrava una pista credibile quella anarchica? Perché lui fin dall'inizio pensava invece ad un attentato di matrice opposta; questo è ciò che scrive nel memoriale.

ANCORA. Beh, per come la disse l'onorevole Barca (anche se non cito i titoli) si pensava che venisse da destra. Non so perché emerse la questione dell'anarchico: quest'impressione si ebbe dal Quirinale, ma non mi sembra che Moro ne fece una questione. Mi è stato chiesto quando sia cominciato questo processo: si tratta del '69; in quell'anno è iniziato questo lento avvicinamento al Partito comunista. Venne poi l'espressione "compromesso storico" di Berlinguer.

FOLLIERI. Solo per completezza, vorrei sapere a che ora avvenne la telefonata tra lei e l'onorevole Moro e più precisamente se la mattina o il pomeriggio.

ANCORA. Direi di mattina. Ma allora per le telefonate non c'era il progresso di oggi: si chiedeva alla batteria di raggiungere Moro; veniva risposto che avrebbero provato. Magari la telefonata sarà stata chiesta la mattina e sarà "arrivata" verso le 14 o le 15.

FOLLIERI. Guardi, Signor Presidente, che questo riferimento lo fa anche Moro nel suo memoriale!

PRESIDENTE. La mia domanda, per l'appunto, era questa, in quanto stavo seguendo il memoriale di Moro.

FOLLIERI. E’ importante, perché la strage di piazza Fontana...

PRESIDENTE. Moro afferma che la notizia arriva a Parigi, dove egli presiedeva la seduta dell'Assemblea del Consiglio d'Europa durante la quale venne sospesa la Grecia per violazione dei diritti umani, sul finire della seduta mattutina, e poi aggiunge, senza precisare l'orario, che dopo un po' viene raggiunto dalla telefonata...

FOLLIERI. Perché la strage avviene alle 16,25!

ANCORA. Si vede che hanno cominciato in un'ora mattutina del giorno successivo alla strage. E in questo giorno ne arrivò la notizia.

PRESIDENTE. La strage avviene nel primo pomeriggio!

ANCORA. ...perché non potevano certo interrompere per una mia telefonata la seduta in corso della mattina successiva.

FOLLIERI. La strage - ripeto - avviene alle ore 16,25!

ANCORA. La telefonata chiaramente fu successiva alla strage. Una volta, per parlare con Moro, se ne andò una giornata intera in Etiopia…

PRESIDENTE. Senta, presidente Ancora, venendo ai giorni tragici del sequestro ed al periodo immediatamente antecedente, lei può confermarci quello che ci ha detto il dottor Guerzoni, secondo il quale la moglie di Moro riferì a lungo alla prima Commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro su uno stato crescente di allarme e di preoccupazione da parte dello stesso onorevole Moro? E se può confermarcelo, era un allarme che si collegava alla situazione italiana, cioè alle tensioni che ormai da quasi un decennio caratterizzavano in maniera crescente la vita del paese, od anche a preoccupazioni legate ai riflessi internazionali che sull'equilibrio di Yalta poteva avere la scelta che Moro aveva fatto, o per lo meno l'obiettivo politico che Moro aveva in quel momento perseguito, quello dell'entrata nella maggioranza di Governo del PC1?

ANCORA. Qui purtroppo devo fare un'altra premessa, signor Presidente, visto che ha citato la signora Moro. Con essa non ho mai avuto rapporti durante il sequestro, perché (non intendo certo eludere la domanda: arriverò tra breve alla risposta, per carità!)...

PRESIDENTE. Non ho dubbi su questo!

ANCORA. Il giorno in cui fu rapito Moro, ero passato al Ministero dell'interno, perché avevo una questione di commissariato di governo, di cui ero titolare, però non trovai Cossiga e me ne tornai al commissariato di Governo. Non sapevo niente. Arrivato al commissariato di Governo, venne colui che era il mio capo di Gabinetto e mi chiese se sapevo che avevano rapito Moro. Risposi di no. Allora telefonai alla batteria, dove mi dissero che stavano impazzendo perché era stato rapito Moro. In quel minuto mi arriva una telefonata di Andreotti, allora presidente del Consiglio, che mi chiede di andare da lui: Palazzo Chigi era a pochi passi. Andreotti allora era Presidente del Consiglio e con lui, in qualità di commissario del Governo, avevo dei rapporti; Moro gradiva che li avessi, anche come collegamenti (uno dei tanti), perché lui fu Capogruppo democristiano a lungo ed anche Andreotti in quella fase del compromesso storico era messo al corrente da me, ripeto, in base all'incarico di Moro. Andai lì e trovai "dentro", da Andreotti, La Malfa, Berlinguer e Lama; poi arrivò Cossiga e tutti in quel momento erano completamente incerti. Lama disse che avrebbe fatto immediatamente uno sciopero generale; La Malfa chiedeva la pena di morte. L'unica cosa che io dissi era che ad un certo punto il Governo si sarebbe dovuto comunque presentare alle Camere e riferire. Fu un suggerimento accettato ed infatti la fiducia fu accordata in una mattinata o in una giornata (questo, adesso, non lo ricordo). Lama - ripeto - voleva fare uno sciopero generale (l'ha fatto, poi) ed io dissi a Berlinguer che non sapevo quanto ciò avrebbe giovato, perché avrebbe potuto creare irrigidimento in chi aveva in mano l'ostaggio. Berlinguer chiese a Lama se doveva proprio farlo lo sciopero e Lama rispose di sì, in quanto il movimento operaio non poteva rimanere estraneo ad un evento di quel tipo, ma avrebbe dovuto dimostrare la propria compattezza. Io pensai che certo ciò non avrebbe influito sul piano dei brigatisti, ma questo non ha importanza.

Moro era sempre preoccupato delle azioni politiche e di come sarebbero state prese... Infatti mi mandava sempre a spiegare ai Gruppi i suoi discorsi: era una preoccupazione di un cervello che lavorava su se stesso ed era anche un perfezionista nell'esattezza. Una volta mi mandò da Malagodi per dire che quel discorso non era contro il partito liberale, quando lui si spingeva e diceva di guardare al partito comunista, anche se affermava che era necessaria una lunga strada; Malagodi, con confidenza e con la sua chiarezza, mi rispose che avrebbe fatto bene a non dirle le cose, anziché mandargli il suo amico a spiegargliele dopo averle pronunciate. Quindi, era sempre un po' preoccupato. Non so se è venuto qui a dirvelo l'onorevole Barca, ma Moro ebbe a casa mia un colloquio con Berlinguer (questo lo sanno tutti) per l'elezione del Presidente della Repubblica, perché Moro in quel momento non chiese assolutamente (e questo lo si trova scritto in un articolo di Amendola di luglio su "l'Unità", in cui afferma che loro avrebbero votato convinti per Moro perché a differenza di tutti gli altri, specie del suo partito, non era mai andato da loro a chiedere niente per la Repubblica"; infatti Moro era lì, assente in questa vicenda, faceva viaggi all'estero e non chiedeva assolutamente voti)... Berlinguer, a casa mia, venne e si incontrò con Moro (c'era anche l'onorevole Barca, come ho già detto), e affermò: "Abbiamo deciso di sostenere la sua candidatura e di votare tranquilli per lei e non le chiediamo neanche ... ".

PRESIDENTE. A quali elezioni del Presidente della Repubblica si riferisce? A quelle in cui fu eletto Leone?

ANCORA. Sì: 1972. Dicevo: "...e non le chiediamo neanche quale sarà la sua azione o a chi darà l'incarico, perché abbiamo fiducia in lui per una salda democrazia". Poi, dopo di questo, Berlinguer lanciò il compromesso storico e quindi ci fu un incontro. Moro non voleva in quel momento l'incontro con Berlinguer, perché si era inserita anche la questione del referendum sul divorzio, che creava grandi problemi al Partito comunista, che avrebbe potuto portare ad una spaccatura fra cattolici. Ricordo, invece, che Moro, con la sua visione di sintesi, diceva: "Va bene, lasciamo i cattolici fra di loro! Non è niente di tragico! Anche noi abbiamo dei cattolici che non se la sentono di votare contro il divorzio". Moro non era terrorizzato per questo motivo. Invece i comunisti erano veramente preoccupati. E quindi, rapporti intensi: ci fu la proposta Carrettoni, e anche Bozzi prese parte alla sua redazione per cercare di trovare un'intesa.

PRESIDENTE. Il problema è se la preoccupazione era di attentati alla sua persona o alla sua famiglia.

ANCORA. Era preoccupato per lo sviluppo del compromesso storico con movimenti ed attentati nelle piazze. Quanto alle preoccupazioni per la sua persona, una volta mia moglie ricevette una telefonata; un uomo disse: "Attenzione ad Aldo e a Tullio". Mia moglie restò terrorizzata perché mio figlio, che allora aveva otto o nove anni, si chiama Aldo. Avvisai il capo della Polizia Meneghini nonché Aldo Moro, che era però ben lungi dal pensare che si trattasse di lui. Disse testualmente: "Si può essere così cattivi da arrivare a minacciare un bambino?"; non pensava che la minaccia fosse indirizzata alla sua persona. Ricordo, a proposito della scorta, che a quel tempo non esisteva una notevole protezione: Moro camminava durante le sedute per l'elezione del Presidente della Repubblica con me e con una guardia del corpo che in realtà sarebbe stata insufficiente a difenderlo. Confermo che la sua preoccupazione era di ordine generale.

Non posso rispondere telegraficamente. Sto pensando se le trattative per il compromesso storico furono riavviate dopo l'elezione del Presidente della Repubblica. Potrei paragonare la nascita del compromesso storico ad un seme che diventa una pianta. Ci fu un incontro di Moro con Bufalini e Barca e non anche con Berlinguer, perché Moro aveva la preoccupazione di dare l'impressione che fosse stato già stretto un patto; incontrò i due esponenti del Partito comunista, con me vicino a lui. Mi sto riferendo ai tempi del compromesso storico. Bufalini chiese a Moro se temesse un'azione da parte dell'America per tentare di arrestare questo sbocco politico. Confermò l'ipotesi: da parte di filoamericani e anche dall'altra parte. E io, che aiutavo Moro nel colloquio, dissi ad ambedue se si poteva temere anche dall'URSS. Bufalini non lo escluse.

PRESIDENTE. Come situa temporalmente l'incontro?

ANCORA. Avvenne prima dell'incontro con Berlinguer e della gestazione del compromesso storico, che prese avvio nel 1978. Siamo nel 1977, nello studio di via Savoia. Chiesi a Bufalini e a Barca, da parte del presidente Moro, se potessero esservi reazioni anche da parte dell'altra potenza straniera. Bufalini non escluse questa possibilità. Fu una risposta onesta. Si temevano movimenti scomposti; Moro sapeva che in un garage era stata messa una bomba; pensava al dilagare della violenza. Moro sapeva di non avere la piena simpatia di Kissinger, sentimento che era, oltretutto, ricambiato: avevano due temperamenti diversi. Non mi risulta comunque l'esistenza di una minaccia americana. In occasione del successivo incontro con Berlinguer a casa mia, Moro si meravigliò per il fatto che Berlinguer fosse venuto senza scorta. La preoccupazione di Moro era sintomo di onestà e di dirittura: combinava gli incontri con Berlinguer di sera, tenendo conto che per la scorta esistevano un turno mattutino, uno pomeridiano e uno serale. Considerava, per esempio, Leonardi una persona intelligente. Temeva forse che potessero trapelare notizie, ma è anche vero che se avesse avuto una specifica preoccupazione di incolumità personale - è una mia illazione - avrebbe scelto Leonardi, più efficiente. Mi disse che gli altri uomini della scorta non avevano interesse a questioni politiche. Vengo alla lettera che mi riguarda...

PRESIDENTE. Sono presenti riferimenti a lei anche in una lettera che Moro indirizza alla moglie. Desidero porle una domanda rispetto all'agguato di via Fani. Le modalità dell'agguato sembrano provare la sufficiente ragionevolezza dell'ipotesi secondo la quale i brigatisti avevano certezza, il giorno del rapimento, riguardo al percorso della scorta di Moro. In base a diversi elementi sappiamo che la scorta avrebbe dovuto scegliere soltanto all'ultimo momento il suo percorso. Si è mai interrogato e ha mai riflettuto su tale circostanza?

ANCORA. Ero seduto spesso in macchina con Moro e non ricordo cambiamenti dell'itinerario. Soltanto una volta disse all'autista di cambiare strada per non rimanere imbottigliati in via Trionfale. Mi sembra che l'episodio risalga al 1978. Ripeto che c'era una certa rilassatezza, non vi era allarme da parte della scorta. Non ho letto il memoriale di Moro; certe cose, alcune neanche esatte, mi davano fastidio. Telefonai a Berlinguer, che aveva piena fiducia in me: pure Tatò, che era un suo uomo di fiducia, non era al corrente di tutto. Io non ero un politico: assumevo spontaneamente molte iniziative pensando che le avrebbe intraprese anche Moro, il quale era solito pensare alle conseguenze di ogni azione, donde l'accusa di immobilismo. Insistetti con Berlinguer perché non assumessero subito un atteggiamento di rigidità e di chiusura, perché sarebbe stato difficile tornare indietro. Ricordo alcune sagge frasi di Moro: non si tratta di una mancanza di apprezzamento, ma quando il PCI assumeva decisioni di Gruppo o di direzione, quelle scelte erano irrevocabili e non c'era modo di cambiare linea politica. Non si tratta di un sentimento di disistima nei loro confronti; si trattava di metterli in guardia giacché erano i più forti dal punto di vista della tenuta e potevano influenzare anche gli altri. Berlinguer mi disse di stare tranquillo, perché aveva sentito e preso atto del mio invito. All'epoca ero commissario del Governo e telefonai anche a Maurizio Ferrara. Signor presidente, si ricorda di lui?

PRESIDENTE. Certo, siamo stati al Senato insieme.

ANCORA. Allora era presidente della Giunta. Gli dissi di non promuovere azioni di protesta o di proclamare intransigenze perché poi sarebbe stato difficile tornare indietro. Mi disse di sì, però, poi anche lui si lasciò prendere dagli eventi. Andreotti mi teneva al corrente, ma ho avuto rapporti anche con Leone. Telefonai alla signora Moro, perché avevo avuto l'impressione che ci fossero altri operatori in questa vicenda, mentre quello più naturale ritenevo di essere io perché potevo ricordare ai comunisti le loro manifestazioni di stima e di indispensabilità della figura di Moro. Erano i primi di marzo e mi rispose (ed era giustificabile), che non mi dovevo occupare del caso, perché altri avevano ricevuto tale incarico. Rimasi stupito, ma ne presi atto. Tuttavia, dissi che avrei insistito affinché si fossero resi conto di dover fare qualcosa. Lei replicò di lasciar perdere e di far lavorare le persone preposte senza creare loro problemi. La loro identità, comunque, è a me sconosciuta. L'amico Luciano Barca mi disse... ma l'avrà detto anche alla Commissione, ...

PRESIDENTE. In realtà, non l'abbiamo sentito.

ANCORA. ... che sia lui sia io eravamo tenuti fuori e che al piano di Berlinguer un alto esponente del partito aveva detto che era arrivato un messaggio dalla famiglia Moro, non certo mio tramite, sul quale era scritto che con il leader del Partito comunista né io né lui dovevamo avere rapporti. Ero quindi tagliato fuori. Soltanto Andreotti mi informava e mi disse che pensava con il Vaticano di poter utilizzare il mezzo economico. Mi sembrava strano, e glielo dissi, che la questione si potesse risolvere con i soldi. Non do giudizi sul movimento, ma se si trattava di un'azione che rispondeva ad una fede, sia pure riprovevole, con i soldi certo non la si poteva fermare. Un giorno mi disse che i terroristi chiedevano la trattativa e mi chiese come la si potesse eventualmente condurre, visto che c'erano dei morti della polizia. In realtà, non è che trattando per Moro avremmo salvato i poliziotti, perché questi erano già stati uccisi. In un'altra occasione mi confidò che chiedevano la liberazione di dodici o sedici dei loro compagni e che sarebbe stato difficile accontentarli. Successivamente mi disse che il numero da dodici si era ridotto ad uno e mi sembrava sincero nel suo far trasparire una speranza. Che poi abbia incontrato resistenze negli altri partiti non lo so. Allora venne fuori la questione Besuschio. Il povero Leone mi telefonava e mi diceva che aveva la penna nel calamaio e che era pronto ad usarla per firmare la grazia. Ma ormai era tardi.

Il 29 aprile 1978 mia moglie ricevette una telefonata. La batteria la avvertiva che la signora Moro desiderava parlare con me. Mia moglie rispose che ero uscito, e mi avvisò in ufficio. Chiamai la signora Moro, la quale mi disse di aver bisogno di consigli e mi chiese di passare da lei. La risposta da parte mia fu certo affermativa. Allora erano presenti anche Freato e Giovanni Moro, con il quale non ho avuto rapporti. La signora Moro mi disse che c'era una lettera di Aldo per me, che non dovevo sapere da dove venisse, ma solo che me l'aveva data lei. Dovevo leggerla ed operare perché era Aldo che l'aveva scritta. Siccome si trattava di organi istituzionali mi consegnò altre due lettere, una per Ingrao, l'altra per Pennacchini, allora ex sottosegretario, che io tuttavia, per correttezza, non lessi. Della lettera di Berlinguer sicuramente sarete al corrente perché l'ho consegnata all'autorità giudiziaria. La lettera consegnatami dalla signora Moro iniziava così: "Caro Tullio, dopo la lunga marcia ricevo come premio dai comunisti la condanna a morte" - sto ripetendo a memoria dopo circa 20 anni - "ma non perdiamoci in cose non essenziali. Quello che dovresti fare, e fare presto, con il garbo che non ti manca, è di andare da Berlinguer e di dirgli che posso capire (male) il loro atteggiamento duro ed intransigente, ma non che ne facciano una questione di quadro politico, che tanto faticosamente è stato elaborato e che ora dovrebbe essere ridisegnato".

PRESIDENTE. Dottor Ancora, cosa voleva dire Moro con quella frase?

ANCORA. Signor Presidente, sapevo che me lo avrebbe chiesto. Moro non era imputato nel caso Lockheed, tuttavia fece quel discorso in cui disse...

PRESIDENTE. "Non ci lasceremo processare sulle pubbliche piazze".

ANCORA. Esatto. Quel discorso aveva un precedente, perché nell'incontro con Berlinguer a casa mia, Moro mi disse che aveva bisogno di un po' di tempo per convincere il Partito democristiano. Ribatté che facendo un discorso lo avrebbe avuto in mano. Moro replicò dicendogli che non si doveva illudere perché non si trattava solo di un discorso, ma anche di un lento avvicinamento. Disse poi che i democristiani erano stati duri nei loro confronti, ma anche che i comunisti avevano detto che avrebbero costruito sulle loro rovine.

PRESIDENTE. Questo però appartiene alla fase Lockheed.

ANCORA. Dopo quella fase, Moro mi chiese come si potesse raggiungere un'alleanza con persone che infierivano contro uomini della democrazia cristiana (della cui innocenza era sicuro). Quindi già da parecchio si domandava se l'alleanza potesse essere stabile, perché vedeva, non in Berlinguer, ma forse nel suo partito, un ritorno a quell'idea di costruire sulle rovine.

PRESIDENTE. Mi faccia capire cosa può significare il passaggio della lettera: "e che ora dovrebbe essere ridisegnato"; forse che l'atteggiamento assunto dal PCI sul rapimento...

ANCORA. Non solo sul suo rapimento... anche con quella durezza sull'incriminare. Ci fu la seduta, lo stato d'accusa, Moro difese gli accusati.

PRESIDENTE. Non sto capendo bene: il Governo della solidarietà nazionale nasce lo stesso giorno del rapimento Moro, quindi il problema Lockheed è prima, è a monte. Se nasce il Governo di solidarietà nazionale malgrado l'atteggiamento assunto del PCI...

ANCORA. Ho detto che questa era una domanda che Moro si poneva, era dubbioso, ma certo non avrebbe buttato a mare un'azione che era in corso. Si domandò se quell'alleanza avesse forza, se avesse base. Il "può essere ridisegnato" trova anche base nel suo rapimento, ma ha cominciato a chiedersi questo con il caso Lockheed. Questo era il significato del "non ci faremo processare sulle pubbliche piazze" e espresse anche l'orgoglio dicendo "abbiamo garantito 50 anni di democrazia". Poi c'era il suo non dico scetticismo, il suo accomodamento "dicano pure che la loro è una posizione dura e intransigente ma la lascino lì come punto di riferimento". Egli era sicuro - si comprendeva anche se non gli parlavo - che i democristiani erano intimiditi dai comunisti. Tra i democristiani alcuni erano più favorevoli ed altri meno e così via. Quando ebbi la lettera di Moro mi recai da Berlinguer - è noto - ed egli mi chiese se non avevo niente in contrario a che assistesse anche Bufalini che era un mio vecchio amico (da parte mia non c'era alcun problema) e gli dissi che non potevano lasciar cadere una figura che, se non altro, aveva condotto per un lungo tratto il discorso con i comunisti. Bufalini, che era un latinista, mi riferì che quella sera in direzione aveva citato le "dodici vite" di Svetonio: Cesare fu rapito dai pirati, inviò il suo medico e gli disse di tornare con il tesoro in modo da essere liberato. Il medico tornò con il tesoro e i pirati liberarono Cesare; Cesare, appena libero, chiese ai pirati se preferivano lo strangolamento o il taglio della testa: questa era l'unica libertà di scelta che poteva dare loro. Non posso dire la mia opinione, ma credo che quelli che credevano ad una trattativa sapevano che non può lo Stato essere legato alla propria parola: se fa una promessa ai brigatisti, quando poi ha ottenuto il risultato, sa come catturarli, se è uno Stato forte.

PRESIDENTE. Non ho compreso quale fu la risposta di Berlinguer.

ANCORA. Che era tardi: il colloquio avvenne il 29 aprile e il 9 maggio Moro veniva ucciso. Ripeto, quando i comunisti hanno preso una decisione non c'è verso che venga cambiata. Infatti egli mi disse che la direzione aveva già deciso: se questa fosse una risposta di comodo non lo so.

PRESIDENTE. Dunque Berlinguer restò fermo sulla linea dell'intransigenza, malgrado la lettura di Svetonio da parte di Bufalini che sembrava un messaggio a trattare.

ANCORA. La lettura di Svetonio non avvenne in mia presenza, ma in direzione. Dovrebbe ascoltare Bufalini perché, come mi disse Barca, anche Bufalini votò: ci fu infatti l'unanimità. Questo me lo ha raccontato Bufalini che ha ricordi ancora lucidi anche se è molto stanco e malato. Le debbo ancora una risposta. La moglie mi tenne fuori da questa vicenda, le ripeto, e questo non era, purtroppo, nelle intenzioni di Moro. Infatti c'è una lettera che ho scoperto nel libro di Flamigni in cui si dice "i miei amici sono attoniti, lasciano cristallizzare la situazione, invece devono operare presto" e poi c'è la frase che ancora mi fa male "anche di Tullio non so niente". Questo purtroppo riguarda sua moglie, egli non ne sapeva niente, poveretto. Con quella frase voleva dire "possibile che anche Tullio si sia messo in disparte?" La signora Moro mi chiamò il 5 o il 6 maggio dicendo di volermi parlare. Le risposi che non avrei portato lettere, ed ella disse che aveva soltanto bisogno del mio consiglio. Mi recai dunque per un colloquio ma le dissi che non poteva alla fine mettermi a parte in quanto ero ormai fuori, esautorato di fronte agli altri interlocutori. Ella mi rispose che voleva sapere soltanto se ero andato dall'autorità giudiziaria con quella lettera. Le dissi di sì, certamente. Quando ebbi quella lettera prima sono andato da Berlinguer ed ho parlato con lui più di un'ora, anzi Berlinguer mi disse "ha difeso con zelo e capacità la causa". Io risposi di non essere l'avvocato, non mi interessava l'elogio alla mia orazione ma il risultato. Corsi da Berlinguer perché mi sembra che nella lettera Moro mi dicesse di non perdere un attimo. Con quella lettera dovetti andare anche dal Presidente del Consiglio perché il contenuto poteva interessare anche il segreto di Stato. Egli la guardò e disse "faccia lei, non c'è problema". Allora mi misi alla caccia di Pascalino, che era allora il procuratore generale; egli risultava sull'elenco telefonico ma non rispondeva al numero. Provai più volte perché era sabato, era il 29 aprile, e pensai che fosse uscito. Non riuscii a parlare con Pascalino ed allora andai da Ingrao, egli mi diede appuntamento e mi ricevette a casa, ma passai due ore con la moglie perché Ingrao stava arrivando con un aereo, ma passò per Botteghe Oscure perché quando giunse a casa era già informato della mia visita a Berlinguer. Con Ingrao - che è un "duro" - c'è stato sempre un discorso intelligente. Ingrao mi disse: "Dottore, il nostro colloquio purtroppo si deve interrompere; onestamente, è inutile che lei insista, perché io non sono legittimato ad andare oltre", anche se era una persona che ascoltava molto. Allora, visto che ormai avevo le credenziali (l'unica persona che poteva disporre di queste credenziali era Moro), mi ricordo che telefonai a Galloni e a Zaccagnini per convocare almeno il Consiglio nazionale. L'atteggiamento non lo conosco, ma Zaccagnini mi disse che avrebbe cercato di fare il possibile. Non so le posizioni di Zaccagnini, però non è esatto dire che faceva tutto quello che voleva Moro; Zaccagnini ascoltava molto tutti quanti e Moro diceva: "Attribuiscono a me, ma Zaccagnini a volte fa quello che vuole". Comunque questo non c'entra molto con l'economia del discorso.

A questo punto è arrivata la notizia che Moro era morto. Io andai a casa di Moro e la signora disse che in quel momento non era possibile, e questo è spiegabile data la circostanza dolorosa. Pregai un amico che era titolare dell'istituto di medicina legale di farmi vedere la salma, ma questo era un mio bisogno. Però quando mi dissero che era possibile vederla, la salma era già stata ritirata dalla famiglia. Poi non mi avvisarono dell'ora dei funerali, quindi non vi presi parte. Mi recai in seguito sulla tomba a Torrita Tiberina.

Questa è la sostanza del discorso. Io intanto alle 7 di mattina della domenica presi coraggio e richiamai Pascalino, ma non lo trovai. Allora dissi alla batteria che doveva trovarmi assolutamente Pascalino. La batteria in passato - ormai ogni Ministero ha le proprie centrali - riusciva a trovare tutti, anche perché conosceva le abitudini di tutti e mi trovò Pascalino. Io dissi che avevo una lettera di Moro e chiesi cosa dovevo fare. Mi rispose di non fare niente, perché gli uffici erano chiusi e che sarebbe venuto a casa mia. Allora io dissi che dovevo dare una lettera a Pennacchini; credo che nella lettera a Pennacchini - che io naturalmente non lessi- c'era il ricordo dei libici. Pennacchini doveva essere addentro a quella vicenda; era sottosegretario, non era nei servizi segreti. Fece andare via i libici purché non facessero una strage.

PRESIDENTE. L'aereo con cui i libici vennero riportati in Libia è quello che cadde nel Veneto.

ANCORA. Ecco cos'era la lettera. Sono tornato e circa alle 17,00 è arrivato Pascalino con la sua "500" senza nessuna scorta; prese la lettera, la guardò e mi disse che ero in regola; me l'ha fatta leggere. Era il 1° maggio e gli uffici erano chiusi, quindi mi disse di andare da lui il 2 maggio. Io andai da lui il 2 maggio, fece il verbale e prese la lettera. Mi disse che gli dispiaceva farmi restare senza un documento storico. Gli risposi: "Pazienza, la deve prendere". C'è un verbale che credo ancora esista. Mi disse che se mi interessava la lettera potevo farmi nominare custode giudiziario della stessa. Io gli risposi che poteva tenerla lui.

PRESIDENTE. E si fece la fotocopia.

ANCORA. Non volevo aprire una procedura di questo tipo. Bufalini e Berlinguer andarono da Pascalino la domenica - visto che può chiedermi questo dettaglio - alle 11.00. Pascalino non era tendenzialmente portato verso i comunisti, ma non tutti lo erano in quel momento. Bufalini - che era un amico - mi aveva detto: "Noi cercheremo Pascalino" e io avevo risposto: "Certo, dovete cercarlo, perché io vado da Pascalino; anch'io lo sto cercando". Allora loro dissero a Pascalino che c'era un fatto rilevante, che Tullio Ancora, un amico di Moro, era andato da loro quella mattina. Pascalino rispose: "Mi sta dicendo una cosa che so da un giorno", perché egli era già venuto il giorno prima a casa mia. Questa è la vicenda della lettera. In seguito la mostrai pure a Leone, ma non prima di essere andato dall'autorità giudiziaria. Leone era Presidente della Repubblica, ma questo aspetto non ha importanza ai fini delle indagini.

PRESIDENTE. Volevo porle delle altre domande, ma le risposte che lei ci ha fornito praticamente le rendono inutili e superflue. Comunque vorrei fare insieme un commento e una domanda; alla base del commento vi è un interrogativo. L'impressione che io ne ho ricavato è che i comunisti erano fermi e intransigenti sulla linea della fermezza, i democratici cristiani erano perplessi ma tutto sommato condizionati da questa rigida posizione comunista...

ANCORA. Devo ritenerlo.

PRESIDENTE. ...il Presidente del Consiglio sperava che il Vaticano avrebbe tolto le "castagne dal fuoco" mediante una trattativa di tipo monetario. Lei ha svolto tutto sommato, da quello che io ho capito, un ruolo importante ma marginale...

ANCORA. C'era Andreotti che mi riferiva.

PRESIDENTE. …legato solo a questi episodi. La domanda che mi pongo è la seguente: è possibile che nessuno pensasse che pur lasciando alla politica la scelta della fermezza, c'era un dato istituzionale importante: le forze dell'ordine, la polizia, l'intelligence non avrebbero forse potuto liberare Moro in maniera diversa (cioè compiendo le indagini di polizia, cercando di capire dove lo tenevano prigioniero, pedinando i brigatisti rossi) individuando il luogo della prigionia per poi liberarlo? Oppure questa era una prospettiva che veniva completamente esclusa quasi in maniera tacita da quelle possibili? Lo stesso procuratore della Repubblica...

ANCORA. Gallucci era il procuratore della Repubblica, Pascalino era il procuratore generale.

PRESIDENTE. Sembravano tutti indifferenti a questo fatto che invece restava sempre un'attività di polizia giudiziaria: individuare il luogo dove si trovava il sequestrato e liberarlo. Su tale aspetto lei non aveva responsabilità, però era un alto funzionario della Camera. Che cosa può dire a una persona che a vent'anni di distanza si interroga su tutta questa vicenda?

ANCORA. Io mi rivolsi a Cossiga, al Ministro dell'interno, e capii che anche lì c'erano altri "plenipotenziari". Capivo che facevo forza ad essere ricevuto; una volta sono stato ricevuto. Credo che chiamasse altri; lui ha costituito una specie di comitato, ma non so chi erano (forse c'era Guerzoni), anche perché quello che dice Moro...

PRESIDENTE. Moro nelle sue lettere sembra completamente escludere la prospettiva che potesse essere rintracciato e liberato; sembra che anche Moro considerasse tale prospettiva fuori dalle possibili ipotesi percorribili.

ANCORA. E lei vuole che le risponda io?

PRESIDENTE. Sì, lei è un cittadino autorevole di questo Stato. A vent'anni di distanza, quale idea ha di questo fatto, che a me personalmente colpisce in maniera forte?

ANCORA. Io, ripeto, una volta sono stato ricevuto da Cossiga. Mi chiese quali erano le condizioni di salute di Moro e dissi: "a me sembra che si tenga molto bene, anche se forse esagera in preoccupazioni. Però, più che chiederlo a me, le faccio telefonare da Cassano". Il professor Cataldo Cassano era il suo medico, credo che abbia ora 93 anni. Moro ha avuto una volta un'operazione, andai a trovarlo quando era degente, anche perché mi chiamò, c'era il riconoscimento della Cina e voleva essere sicuro che non ci fossero reazioni incomposte dei Gruppi parlamentari; in quell'occasione Cassano disse che era un calcolo o una cosa del genere.

PRESIDENTE. Non sto capendo il riferimento. Lei sta dicendo che Cossiga si preoccupa della salute di Moro, ma il problema di liberarlo?

ANCORA. Io non ho partecipato ai comitati di Cossiga, mai; posso immaginare chi ha partecipato. Più di una volta ho pregato Cossiga per telefono almeno di invitarmi, non mi ha invitato. Ora, Cossiga, gran parte... ma adesso perché devo giudicare un Ministro con il quale non ero in contatto?! So che interpretava le lettere di Moro, però per sentito dire, non è che me l'ha detto. "Sono impantanato" - significa - "sono in una zona umida", "mi sono impantanato in questa vicenda"; poi: "sono sotto il dominio incontrollato" e questo "in un condominio", parola però che non me l'ha detto Cossiga, l'ho sentito dire. C'erano anche dei professori di semantica, eccetera. Questo io so, però non ho mai avuto una richiesta di intervenire. Una sera Cossiga mi ha chiamato e mi ha detto: "pare che abbiamo scoperto la prigione di Moro, però non si sa se è vivo o morto; se lei viene per riconoscerlo..."; e io rispondo: "scusi, lei mi chiama adesso, dopo due mesi, per riconoscere il defunto; c'è la famiglia che lo deve riconoscere". Ma poi non era esatto, perché non fu in quella occasione che lo ritrovarono. Da Cossiga dopo andai a portargli la lettera di Moro - era il Ministro dell'interno - e lui mi disse che c'era un'intesa con Pascalino che gli avrebbe dato tutto, e Pascalino gli aveva mandato una fotocopia della sua lettera. Di quello che riguarda l'azione di polizia ne so molto poco. Ero cittadino, soggetto passivo, perché ogni volta che passavo con la macchina mi aprivano il portabagagli per vedere se c'era dentro Moro; tutte le strade erano prese da questi controlli della polizia, ma non so le azioni che furono fatte. Parola mia, di azioni di Cossiga non so niente. Lei mi dice: "perché Moro per primo non chiese di intensificare le forze di polizia, come i comunisti?". Adesso dovrei dire, ma questa è un'opinione del tutto personale: perché Moro probabilmente dubitava, non era sicuro dell'efficienza della polizia e quindi era per la tendenza della trattativa. Questa però è opinione mia.

FRAGALA’. Presidente Ancora, la ringrazio per la sua disponibilità. Desidero avere dei chiarimenti rispetto ad alcune domande che le sono già state poste. Quando lei ha telefonato a Parigi all'onorevole Moro, per avvertirlo che l'onorevole Barca le aveva preannunciato un problema gravissimo per cui era necessario che l'onorevole Moro addirittura cambiasse itinerario, può precisare di cosa le parlò l'onorevole Barca quella mattina: di una situazione di ordine pubblico, di una situazione di attentati o di un pericolo diretto nei confronti della persona dell'onorevole Moro? Di cosa le parlò, cioè, per allarmarla tanto che lei usò - perché questo risulta - i telefoni criptati della Presidenza del Consiglio...

ANCORA. Ricorrevo ai telefoni della Presidenza - come tutti gli organi ufficiali - quando si trattava di ritrovare persone.

FRAGALA’. ...e avvertì immediatamente l'onorevole Moro; quale fu l'argomento così preoccupante che le annunciò l'onorevole Barca?

ANCORA. Guardi, so che lei si tuffa in una vicenda in cui ho nuotato per vent'anni, pure con la memoria oramai. Non è che Barca annunciò... Barca disse: "c'è da temere che venga qualche cosa da destra, quindi prenda delle cautele". Era un suggerimento, per carità, non è che Barca sapesse qualche cosa, altrimenti non si sarebbe rivolto a me ma ad organi ufficiali. Disse: "prenda delle cautele, cambi la rotta" - questo mi disse Barca, non è che mi annunciò chissà che cosa, per carità - e difatti lui dirottò.

PRESIDENTE. Dirottò che cosa, l'aereo?

ANCORA. Cambiò rotta, era un aereo. Ora io non so, non c'ero dentro, non l'ho mai accompagnato nei viaggi; credo che anziché seguire un itinerario ne seguì un altro.

FRAGALA’. Il fatto singolare, per cui vorremmo una sua valutazione, è che nel memoriale Moro si parla di questo avvenimento indicandolo nella tarda mattinata - è il 12 dicembre 1969 - poi un alto esponente del Partito comunista, Cecchi, quando parla dell'attentato di piazza Fontana, lo colloca alle ore 11, commettendo un lapsus, nel suo libro; l'attentato invece è stato alle 16,30...

ANCORA. L'attentato fu di pomeriggio, perché mi ricordo che Restivo uscì dall'Aula con le mani nei capelli, ero a Montecitorio.

FRAGALA’. Il fatto singolare è che, per come lei la racconta adesso, sembra che Barca le abbia detto una cosa generica su una situazione assolutamente non precisa che avrebbe determinato, se fosse stata così, naturalmente un conseguente atteggiamento da parte sua altrettanto generico; mentre lei prende una iniziativa forte, lei utilizza i sistemi telefonici criptati della Presidenza del Consiglio, telefona subito a Moro e gli annuncia un pericolo imminente, non un pericolo generico. Dice a Moro: "assolutamente cambia rotta".

ANCORA. Onorevole, io l'ascolto, però bisogna pure che mi faccia ripetere la verità. Non è che sono ricorso al sistema forte, perché il telefono con Moro lo usavo tre, quattro volte al giorno, anche quando era all'estero. Certo, quando era all'estero...

FRAGALA’. E perché ha usato una linea riservata in quell'occasione?

ANCORA. Perché dovevo dire...

FRAGALA’. Doveva dire una cosa importante, una cosa particolarmente…

ANCORA. Tant'è vero che l'ha capita molto bene.

PRESIDENTE. Penso che la domanda sia: il senso della telefonata era che ci fosse timore di una sovversione istituzionale...

ANCORA. Certo.

FRAGALA’. Oppure di un attentato?

ANCORA. "E’ prudente non seguire quella rotta"; perché Barca mi disse: "telefona, cerca di avvisare Moro che potrebbero esserci dei pericoli", ma mi sono guardato bene anche dal chiedere a Barca da dove l'avesse...

PRESIDENTE. Il cambiamento di rotta di un aereo presuppone che ci sia un attentato aeronautico.

ANCORA. No, intendiamoci, ho rettificato; non ho detto che ha cambiato la rotta, non ero lì. Avrà preso un'altra linea, un altro aereo.

PRESIDENTE. Oppure fa pensare ad un fatto istituzionale, cioè di arrivare con riservatezza a Roma perché, appena arrivato, si poteva rendere conto di qual era la situazione. Sembra come se la paura che avevano i comunisti - che a noi risulta da una serie di documenti - che ogni tanto in Italia ci potesse essere un colpo di Stato...

ANCORA. Questo glielo potrà dire l'onorevole Barca. Lui mi disse solo di avvisarlo, ma non è che io gli ho telefonato con affanno. Certo, gli ho detto di cautelarsi. Ripeto, "dirottare" è un espressione impropria: non che abbia dirottato quell'aereo; avrà preso un altro aereo, ma non lo so con certezza.

PRESIDENTE. Questa sembra la spiegazione più logica: non sarà arrivato con i mezzi e negli orari in cui si attendeva che dovesse tornare.

ANCORA. Forse temeva anche che ci potesse essere qualche atto isolato all'aeroporto, ma questo non sono adesso in grado di dirlo. Anche se sono stato impreciso nell'usare, con un lapsus, l'espressione "ha dirottato", i miei uditori sono molto più intelligenti di me, capiscono che ho usato un termine inesatto; si capiva che Moro non ha detto al pilota di tornare seguendo una certa rotta. Credo che abbia preso un aereo diverso, ma qualsiasi cosa dico adesso può essere inesatta; non arrivò con l'aereo che era preventivato, questo lo so. Non mi ricordo adesso cosa c'entri la Grecia in mezzo a tale questione.

PRESIDENTE. Perché era l'argomento di cui si era discusso a Parigi, dove era stata adottata una decisione internazionale contraria agli interessi della Grecia; anche il generale Maletti, che noi abbiamo sentito a Johannesburg, ci disse che la sua valutazione era che l'attentato di piazza Fontana potesse essere una ritorsione della Grecia.

ANCORA. Sono quelle raccomandazioni che un amico fa ad una persona alla quale tiene molto dicendogli di cautelarsi.

FRAGALA’. Presidente, desidero farle una seconda domanda su un argomento diverso. Lei ha detto di aver ricevuto una sola lettera di Aldo Moro. Lei sa se ci sono delle lettere segrete di Moro che non sono state pubblicate?

ANCORA. Lo dice, mi sembra, Flamigni in un libro. Per esempio, quella lettera che ha citato il presidente Pellegrino, dove si dice che anche di Tullio non sa niente, pare che non sia stata pubblicata.

PRESIDENTE. Difatti, io avevo la copia di un'altra lettera pubblicata che non era quella alla quale si riferiva lei. Questa è una lettera alla moglie in cui egli afferma che si può dire ad Ancora di parlare con Berlinguer essendo essi in ballo la prima volta come partito di Governo.

ANCORA. E la moglie non l'avrà ricevuta anche se aveva preso l'iniziativa di affidarsi ad altri plenipotenziari - con cui, intendiamoci, io non ho mai parlato -, altrimenti certamente mi avrebbe detto "Aldo le dice questo", come mi ha dato la lettera di Aldo alla fine.

FRAGALA’. Presidente, adesso le do una spiegazione diversa rispetto a quello che Moro scrive in quella lettera in cui dice che anche Tullio non fa niente. Lei si meraviglia di questa lettera e poco fa si è stupito del fatto che Moro dicesse una cosa di questo genere, perché probabilmente non sapeva che lei era stato tenuto fuori dalla moglie rispetto agli interventi ed ai contatti per liberarlo. Ma ci potrebbe essere una lettura diversa e la prego di dirmi se questa lettura può essere esatta. Moro, lo abbiamo verificato in Commissione con numerose audizioni, compresa quella dell'onorevole Galloni, aveva sicuramente un canale di ritorno. Cioè Moro sapeva per filo e per segno ciò che si diceva anche in conciliaboli segretissimi di gruppi dirigenti politici sia democristiani, che comunisti - ma soprattutto democristiani - tanto è vero che alcune iniziative, come quella di Misasi di convocare il Consiglio nazionale o come altre, Moro le suggerisce alla moglie perché aveva saputo dal suo canale di ritorno, cioè da qualcuno che gli faceva sapere dentro la prigione cosa si diceva e cosa si faceva. Ecco, Moro dà delle indicazioni perché sapeva ciò che avveniva tra i gruppi dirigenti democristiani. La sua ricostruzione potrebbe avere allora una lettura diversa. Cioè Moro si lamenta del fatto che anche Tullio non fa niente perché sapeva benissimo dell'atteggiamento della moglie, sapeva benissimo degli altri "plenipotenziari" diversi da Tullio Ancora, però si aspettava da quest'ultimo un intervento più incisivo sui gruppi dirigenti comunisti. Pertanto si lamenta quando viene a sapere che l'intervento di Tullio Ancora è stato molto limitato e quindi dice che "anche Tullio non fa niente".

ANCORA. Bisogna stare attenti a non far dire a Moro cose che lui non ha detto. Lui non ha detto "anche Tullio non fa niente", ma che i suoi amici sono rimasti attoniti lasciando che la situazione si cristallizzasse o si stabilizzasse - quando io sono incerto sulle parole lo dico - e poi ha aggiunto: "Anche di Tullio non so niente". Abbiate pazienza, lo potete controllare, è riportato a pagina 86 del libro di Flamigni.

FRAGALA’. Ma il senso è questo: anche Tullio non fa niente.

ANCORA. Lui ha detto: "Anche di Tullio non so niente". Io non posso adesso interpretare questa frase. Posso dire che è plausibile che lui sapesse che c'erano altri "plenipotenziari". Se ho capito bene ciò che mi dice - perché, per carità, sono molto attento nell'impegnarmi a capire -, Moro avrebbe dovuto aspettarsi che Tullio (di fronte ad un'interdizione della moglie, che dice ai comunisti che non è l'intermediario autorizzato), fosse intervenuto, a rischio di creare un'interferenza che non riguardava la promozione di una persona ma una vita umana. Cosa vuole dire? Che Tullio avrebbe potuto ignorare la moglie di Moro? Del resto, Berlinguer probabilmente non mi avrebbe neanche ricevuto; egli mi ha ricevuto quando ha visto la lettera di Moro. Io mai e poi mai avrei potuto ignorare completamente tutte le istruzioni della moglie muovendomi in proprio e neanche adesso lo farei. Avrei giocato con la vita di una persona.

FRAGALA’. Lei, Presidente, sapeva che Moro veniva informato dall'esterno?

ANCORA. Da tutta la vicenda io sono rimasto fuori. Io non so chi lo ha informato. Posso continuare all'infinito a dire che non so come Moro veniva informato. Non so proprio da chi veniva informato e se era informato in modo esatto. Certo, aveva degli accanimenti verso alcune persone. Lui con alcuni democristiani, per esempio, fu duro. Io comunque questo non lo so; non sono mai intervenuto né in una riunione del partito democristiano, tanto meno in una riunione di intermediari o di canali che portassero le notizie dal luogo in cui si trovava Moro. Questo è pacifico.

FRAGALA’. Un'altra domanda. Lei ci ha raccontato che il dottor Pascalino, l'allora procuratore generale, si interessò immediatamente della lettera e venne a casa sua con la "500" per leggerla prima di averla ufficialmente.

ANCORA. Non la prese. Disse che non la poteva prendere. Credo lo dica nel verbale che il dottor Ancora gli aveva mostrato la lettera.

FRAGALA’. Pascalino, interrogato dalla Commissione Moro, dichiarò allora che rispetto ad un sequestro come quello dell'onorevole Moro lo Stato avrebbe potuto scegliere due strade per reagire: quella dell'intelligence, cui si è riferito il Presidente, per cercare di liberare Moro e di scoprire la prigione oppure quella di "mostrare i muscoli" istituendo posti di blocco e facendo rastrellamenti al Lago della Duchessa. Pascalino alla Commissione Moro afferma: "Lo Stato, purtroppo, scelse la seconda strada, quella di mostrare i muscoli e non quella di cercare di liberare Moro". Lei, che è stato protagonista attento di quella vicenda come amico di Moro, testimone...

ANCORA. Direi neanche "testimone", piuttosto "osservatore dietro una finestra ermeticamente chiusa con le tendine chiuse anch'esse".

FRAGALA’. Lei fece la stessa valutazione del procuratore generale Pascalino, e cioè che in effetti lo Stato non si pose mai il problema di liberare Moro, né attraverso un'azione di intelligence, né attraverso un'azione di polizia, né attraverso la trattativa?

ANCORA. Ogni anno ho scritto degli articoli sul giornale "Il Tempo", perché me lo venne a chiedere Letta nell'anniversario della morte di Moro ed ogni anno, senza preoccuparmi di creare qualche malumore in personaggi che conoscevo, ho ripetuto che uno Stato è veramente forte quando non ha paura di trattare per salvare una vita umana. E’ inutile che adesso mi spinga sulla concezione religiosa, perché lo Stato etico ad un certo punto si ferma e va alla ricerca della vita che muore, della vita che se ne va. Questo l'ho ripetuto, ma consideri che a partire dal 1978 avrò scritto almeno 15 articoli al riguardo, sostenendo sempre che si poteva trattare e che non è forte lo Stato che si astiene dal farlo, ma quello che è in grado anche di fare una trattativa, che poi era il concetto di Svetonio che io non conoscevo e che ho appreso dopo: ma adesso è inutile. Per precisione devo poi aggiungere, perché mi era sfuggito, che sul libro di Carlo Moro (il fratello di Aldo) che si intitola "Storia di un delitto annunciato" l'autore sostiene che, per ragioni che ignorava, la sua cognata l'aveva tenuto all'oscuro di tutta la vicenda: c'è scritto nella prefazione, che comincia proprio così. Non chiedetemi le parole esatte, ma il contenuto è quello.

PRESIDENTE. Nel libro del fratello di Aldo Moro questo interrogativo che pone l'onorevole Fragalà è posto e ripetuto moltissime volte: ci si chiede il perché, fatta la scelta politica (giusta o sbagliata che fosse) di non trattare, poi non si sia seguita la strada istituzionalmente corretta di provare a liberarlo.

ANCORA. La prefazione del libro di Carlo Alfredo Moro che ho citato non dice esattamente quello che ho già detto, ma riporta l'espressione: "Io e tutti i fratelli siamo stati tenuti al di fuori". Ho letto quel libro, ma poi l'ho un po' abbandonato nella lettura, perché è un libro fatto bene da un magistrato, ma impostato su quello che si poteva fare come indagine, come ricerca dei rapitori. Non lo so: questo non lo so. Poi avrete anche sentito Carlo Moro, signor Presidente.

PRESIDENTE. Sì, questa Commissione lo ascoltò nella X legislatura.

FRAGALA’. Presidente Ancora, sul tema del delitto annunciato il sequestro Moro era nell'aria da tanto tempo!

ANCORA. Questo non lo so!

FRAGALA’. Abbiamo verificato in Commissione che i brigatisti avevano diversi bersagli e obiettivi nel mirino, e alla fine scelsero di rapire Moro perché era il bersaglio più significativo e nel contempo più facile da colpire. Le risulta che anche l'onorevole Berlinguer, come sappiamo, fosse nel mirino delle Brigate rosse e improvvisamente rafforzò in modo incredibile la sua scorta quando ebbe la notizia o la soffiata che poteva essere nel mirino di un sequestro da parte della Brigate rosse, mentre Moro questo rafforzamento della scorta (come anche lei ha affermato) non solo non lo ha fatto, ma la sua scorta era anche molto poco professionale?

ANCORA. Non mi sembrava temibile, più di tanto. Berlinguer venne a casa mia senza scorta (l'ho già detto). Per il "dopo" io non vivo mica alle Botteghe Oscure: io Berlinguer l'incontravo alla Camera e non lo vedevo certo con la scorta, lì. L'ultima visita a Berlinguer fu quando gli portai la lettera di Moro, presente Bufalini. Non l'ho mai incontrato Berlinguer, dopo. Ci incontrammo alla Camera e lì egli mi disse di aver riferito alla Commissione che ero completamente al di fuori di tutto quell'organigramma, di quello staff che trattava... ero soltanto un amico che godeva della loro stima: qualcosa del genere, non ricordo con esattezza. Lo incontrai mentre lui entrava ed io uscivo dal portone principale.

FRAGALA’. Presidente Ancora, lei sa che il giorno 9 maggio (quello in cui fu ucciso l'onorevole Moro) doveva essere convocato alle ore 11 il Consiglio nazionale della DC per proclamare l'apertura della trattativa per la liberazione di Moro? Lei sa questo particolare?

ANCORA. No; so solo che...

FRAGALA’. Sa, cioè, che Moro fu ucciso il giorno in cui si stava per aprire la trattativa...

ANCORA. E’ pacifico che Moro fu rapito il giorno della fiducia, ma circa quello dell'uccisione non so. Però ho detto prima (e quindi è segno che non so altro, altrimenti l'avrei detto) che quando ebbi la lettera di Moro ebbi quel coraggio che lei mi dice che avrei dovuto avere prima; ripeto che mai e poi mai avrei preso una decisione simile di agire nonostante non fossi accreditato: quando ebbi le credenziali di Moro telefonai a Zaccagnini, il quale mi disse - l'ho già detto, questo - che avrebbe "cercato di convocare", mi disse che "avrebbe cercato", che "avrebbe fatto il possibile", ma non mi disse "lo convoco", perché c'era anche Fanfani che si occupava (mi pare, da quanto leggevo sui giornali) di convocare il Consiglio nazionale, o no?

PRESIDENTE. Certo.

FRAGALA’. Un ultimo argomento. Presidente, mi segua un attimo.

ANCORA. , se sono in grado.

FRAGALA’. Il senatore Cossiga, al tempo del sequestro Moro ministro dell'interno, ha dichiarato a questa Commissione che quella mattina del 9 maggio, giorno dell'assassinio di Moro, uscì da casa con in tasca la lettera di dimissioni da Ministro dell'interno, perché sapeva che quel giorno la Democrazia Cristiana avrebbe aperto ufficialmente la trattativa con i brigatisti per far rilasciare Moro. Cossiga ha dichiarato a questa Commissione che non si poteva fare la trattativa e non si poteva far liberare Moro con essa perché dovevano difendere il quadro politico, che altrimenti sarebbe franato; io, in una domanda, aggiunsi se sarebbe franato anche il PCI, nel senso che la sua base sarebbe "smottata" verso l'area del brigatismo rosso. Ebbene, le chiedo: rispetto a questo problema del quadro politico di cui Moro parla nelle sue lettere e rispetto alle dichiarazioni fortemente critiche e avverse che Moro fa nei confronti dei comunisti nelle ultime sue lettere...

ANCORA. Non mi ricordo: non le ho lette tutte! Era avverso ai comunisti? Non credo, perché se la prende con i democristiani: "II mio sangue ricadrà su di te e tu, Piccoli, stai seduto..."

FRAGALA’. Se la prende con i comunisti in modo feroce: le posso leggere le lettere!

ANCORA. Lei lo sa, io no.

FRAGALA’. Le chiedo se c'erano dei retroscena nei rapporti tra il Partito comunista e Moro! I comunisti sapevano di Moro, del problema dei petroli, del problema del finanziamento della sua corrente, del problema legato a quelli che furono gli scandali precedenti al periodo di Tangentopoli per cui Moro, nei confronti dei comunisti, aveva un atteggiamento di paura o addirittura di interdizione?

ANCORA. Di questo non so niente. Ho già premesso di non aver mai partecipato alle attività del Partito comunista. Non so che cosa abbiano detto i comunisti; si sono sempre ben guardati dal dire a me se c'era qualcosa da rimproverare a Moro sul piano morale. Non credo che si possa rimproverare qualcosa a Moro sotto il profilo morale: per me sarebbe un tracollo perché mi sono sempre comportato rifacendomi al suo insegnamento morale. Escludo che Moro abbia potuto commettere immoralità. Non ho ricevuto confidenze dai comunisti, non ho partecipato alle loro riunioni né, tantomeno, a quelle del Gruppo democristiano o di qualsiasi altro Gruppo. Non ero parte di uno staff che si occupava di partiti. Mi occupavo di rapporti istituzionali e parlamentari.

FRAGALA’. In quale modo giudica allora la posizione del partito socialista, favorevole alle trattative per liberare Moro, rispetto alla posizione del partito comunista?

ANCORA. Ho ancora un ottimo rapporto con Francesco De Martino, che è stato un mio professore di diritto romano. Di lì a poco si sarebbe svolto il congresso del PSI, sebbene io non conosca le manifestazioni di partito. Il discorso di De Martino fu pesante: lo Stato deve tutelare se stesso ma tutela se stesso anche quando tutela una singola vita. Non credo di aver deformato la sua affermazione: il succo del discorso, che ho letto sul giornale, era questo.Con Craxi non ho mai parlato della vicenda Moro.

PRESIDENTE. Per riassumere il senso dell'audizione desidero porle una domanda. Il Capo dello Stato ha rivolto il seguente interrogativo alla nostra Commissione parlamentare e a tutto il paese: dietro il rapimento di Moro, cioè dietro le Brigate rosse, vi furono altre intelligenze? E’ una domanda che apre lo spazio al profilarsi di diversi scenari.

ANCORA. Non è soltanto il Capo dello Stato ad avanzare questa ipotesi.

PRESIDENTE. Alcuni collaboratori stretti di Moro, come Corrado Guerzoni, hanno parlato di "sequestro appaltato" o, in una prospettiva minore, è stato affermato che le BR rapirono Moro secondo la loro logica, ma altre intelligenze fecero in modo che il rapimento avesse un tragico epilogo.

ANCORA. Ripeto di non essere stato un collaboratore di Moro in queste vicende. Mi sembra strano che Moro, qualora avesse avuto paure, non me ne abbia parlato. Non posso polemizzare con il Capo dello Stato. Credo sia la famiglia di Moro ad insistere su questo punto.

PRESIDENTE. Lei tenderebbe dunque ad escludere questo scenario. Tengo a precisare che abbiamo raccolto la posizione di Guerzoni e ci sembrava giusto raccogliere anche la sua.

ANCORA. Moro aveva con me una maggiore intimità. Ripeto che, in occasione di una minaccia telefonica, aveva riferito il nome "Aldo" al mio bambino piuttosto che alla sua persona. Ripeto di essermi sempre astenuto dall'approfondimento di molti atti. Per me Moro era una persona molto cara e molto apprezzata. Ancora oggi molti miei atteggiamenti e molte mie frasi mi sembrano suggerite da lui, quasi in virtù di un'immedesimazione culturale. E’ comprensibile che io abbia un atteggiamento di rigetto rispetto alla lettura dei memoriali e di libri relativi al caso Moro, ad eccezione di letture episodiche che mi sono sollecitate. Sarei davvero presuntuoso se mi esprimessi sulla Russia. Guerzoni avrà avuto i suoi elementi per fare determinate affermazioni; io non ne dispongo. Giurerei che le cose non stanno così e che, diversamente, Moro me ne avrebbe parlato. Occorre considerare che Moro proseguì la sua azione: qualora si fosse sentito minacciato o in stato di pericolo si sarebbe ritirato. Ho precedentemente fatto riferimento alla sua titubanza: si trattava di alleati che ci attaccavano. Quando Moro fece, ad esempio, un discorso sul caso Lockheed, Natta si meravigliò del suo atteggiamento duro. Anche Bufalini mi disse che fu un discorso di ottimo profilo e da grande statista. Tuttavia mi telefonarono dopo, affermando che si trattava di un commento personale.

PRESIDENTE. Moro espresse valutazioni sulla strategia della tensione?

ANCORA. Me ne parlò in termini generali.

PRESIDENTE. Le cito una valutazione tratta dal memoriale: "Per quanto riguarda la strategia della tensione, che per anni ha insanguinato l'Italia, pur senza conseguire i suoi obiettivi politici, non possono non rilevarsi, accanto a responsabilità che si collocano fuori dall'Italia, indulgenze e connivenze di organi dello Stato e della DC, in alcuni suoi settori".

ANCORA. Moro aveva sempre un atteggiamento cauto. Una volta, in occasione dell'attentato del treno Italicus, mi diede l'incarico di telefonare a Rumor, che non rispose per paura: mi rispose Piga, il quale mi rassicurò e mi disse che poteva partire con i treni una sua figlia. Ho fatto parte di un organo dello Stato sino a poco tempo fa: posso scrivere un articolo di giornale o esprimere una personale opinione ma, di fronte ad una Commissione parlamentare di inchiesta che apprezzo, e di cui avverto l'autorità, non mi sento in grado di offrire una mia interpretazione. Posso dire soltanto che Moro considerava la tensione un fenomeno diffuso. Non credo che vi sia stato un collegamento dei comunisti con i brigatisti; anzi, come lettore, posso affermare che i brigatisti davano fastidio ai comunisti perché, in un determinato momento, qualcuno del Partito comunista era passato alle BR.

PRESIDENTE. Questa affermazione è parzialmente vera. La cosiddetta strategia della tensione ebbe tuttavia un colore diverso: la sua finalità, anche se l'obiettivo fortunatamente non fu conseguito, era quella di riportare l'Italia sui binari della normalità dopo l'autunno caldo e la stagione del '68. Si può presumere che paesi associati a vario titolo alla nostra politica, e quindi interessati ad un certo indirizzo, vi fossero in qualche modo impegnati attraverso i loro servizi di informazione. "Su significative presenze della Grecia e della Spagna fascista non possono esservi dubbi". Questo è ciò che scrisse Moro nel memoriale, però lei ci dice, e le dobbiamo credere, che egli non le aveva mai fatto confidenze del genere.

ANCORA. Aveva preoccupazione del diffuso...

PRESIDENTE. E non di responsabilità istituzionali italiane ed estere?

ANCORA. No. Visto che sono qui a dimostrare ancora la mia gioventù mentale, mi ricordo di una riunione presso il Ministero dell'interno alla quale Cossiga mi invitò nella mia qualità di commissario del Governo alla regione Lazio affinché coordinassi i cinque prefetti del Lazio. Questi non furono molto contenti del fatto che avessi preso sul serio la funzione del coordinamento. In quell'occasione, in cui era presente anche il colonnello dei carabinieri Astolfi, comandante della legione Roma, Cossiga mi disse di aver paura della delinquenza e della violenza, ma soprattutto di essere spaventato dai terroristi (allora non si usava l'espressione "Brigate rosse"), perché mossi da una spinta intellettuale, non approvabile e non accettabile, più pericolosa di quella di un personaggio malvagio.

PRESIDENTE. Si tratta di un giudizio che il presidente Cossiga ci ha ripetuto anche in questa sede.

DE LUCA Athos. Dottor Ancora, ho la sensazione che lei perda un'occasione, forse unica, di rilassarsi in questa audizione. La vedo molto preoccupato, misura le parole, fa molte precisazioni, perdendo quindi, lo ripeto, a distanza di molti anni l'opportunità di valorizzare la sua amicizia con Moro e di dare a questa Commissione più di quanto non abbia fatto fino ad adesso. Lei ci ha detto che fino a poco tempo fa era un alto funzionario, quindi, devo pensare che non intenda polemizzare...

ANCORA. Senatore De Luca, non posso certo polemizzare con il Capo dello Stato.

DE LUCA Athos. Lo spirito di questa audizione è quello di verificare se a distanza di molti anni il nostro paese, attraverso testimonianze preziose come la sua, possa ricomporre i tasselli di quella realtà. Di conseguenza, c'è una certa delusione da parte mia. Dovevo dirglielo per l'impressione che ho avuto di questa audizione.

ANCORA. Ne sono mortificato.

DE LUCA Athos. E’ già stato audito dalla Commissione Moro?

PRESIDENTE. No, è la prima volta che viene sentito dal Parlamento.

DE LUCA Athos. In un'altra occasione mi era sembrato di capire il contrario. A maggior ragione però questa audizione potrebbe essere preziosa. Abbiamo appreso comunque alcune cose, per esempio, che la telefonata con Moro risaliva alla mattinata, comunque a prima del tragico evento.

ANCORA. Questo non lo ricordo. Credo comunque che non poteva che essere successiva. No, no, è avvenuta dopo!

PRESIDENTE. Senatore De Luca, l'onorevole Barca lo chiamò a seguito dell'allarme causato dalla tragedia. Quello della mattinata è un falso ricordo.

ANCORA. Non sono in grado di ricostruire, ma di certo è stata successiva al fatto. Come potevo sapere della bomba prima che esplodesse?

DE LUCA Athos. Chiese all'onorevole Barca da quale fonte avesse ottenuto quelle notizie?

ANCORA. No, e già l'ho detto in precedenza.

DE LUCA Athos. Secondo me, sarebbe stato meglio se lo avesse fatto.

ANCORA. Non può adesso rimproverare una persona che ha sempre saputo come camminare, che ha un'età dimostrata dai capelli bianchi e una formazione culturale e professionale da cui non ha mai sgarrato. In più, non ho detto che mi sarei comportato diversamente.

DE LUCA Athos. Naturalmente, questo nell'interesse dell'amico e dei valori che egli rappresentava.

ANCORA. Se vuole muovermi una censura morale, la accolgo, ma non le do importanza. Di fronte ad un amico in pericolo, io consiglio cosa è meglio per lui. In quel caso, un altro itinerario. Può anche darsi che Barca non lo sapesse, oppure che non lo volesse dire.

DE LUCA Athos. Bene, abbiamo la conferma che non chiese a Barca della fonte. Ci ha poi accennato al fatto che Cossiga la chiamò per andare a riconoscere...

ANCORA. No, non è così.

DE LUCA Athos. Mi faccia concludere la domanda! Lei poco fa ci ha detto che Cossiga l'aveva chiamata perché avevano trovato un posto, forse addirittura un corpo, tant'è che lei ha risposto ...

PRESIDENTE. Senatore De Luca, il dottor Ancora ha detto, con precisione, che ricordava che Cossiga un giorno l'aveva chiamato dicendogli che forse avevano individuato la prigione di Moro, che non sapevano se fosse vivo o morto, e che l'avrebbero chiamato a casa qualora l'avessero trovato morto, per un eventuale riconoscimento.

DE LUCA Athos. Dottor Ancora, non la chiamarono?

ANCORA. No, perché in quell'occasione il corpo non fu trovato. Il Presidente, che sa svolgere molto bene il suo ruolo...

DE LUCA Athos. Io non sono il Presidente di questa Commissione, ma un semplice suo membro, e vorrei porle delle domande.

ANCORA. D'accordo, però non può dire che ...

DE LUCA Athos. Poi lei potrà precisare tutto ciò che riterrà opportuno. Sa qualcosa dell'inchiesta svolta dal ministro Gui per conto di Moro sulla strage di piazza Fontana?

ANCORA. No.

DE LUCA Athos. Ha avuto notizia dell'incontro tra Moro e Saragat avvenuto il 23 dicembre 1969? Moro le ha mai parlato di questo?

ANCORA. Cosa si sarebbe detto in questo incontro? Qualche volta si è incontrato con Saragat, ma non lo so. Cosa è successo nel 1969?

DE LUCA Athos. Moro le manifestò mai dubbi sul ruolo della Grecia e dei colonnelli nella strage di Milano?

ANCORA. Le ho detto di no, tanto è vero che ricordavo adesso che mi pare fosse la Grecia ed il Presidente mi ha spiegato perché si era deciso (a Parigi) sulla Grecia. L'incontro di Saragat del 1969 non so quale oggetto avrebbe potuto avere, vorrei che me lo spiegasse.

PRESIDENTE. Le spiego io il senso della domanda. Si tratta di un'ipotesi sulla quale non ci sono, allo stato, riscontri oggettivi, quella che ci possa essere stata un'area di golpe alla quale in qualche modo il Quirinale non era estraneo. L'ipotesi di questo incontro tra Moro e Saragat sarebbe quella di un chiarimento di Moro che sarebbe intervenuto dicendo di non proclamare lo Stato di emergenza, di non far precipitare gli avvenimenti. Di una tensione così forte a cui si riallaccerebbe la telefonata di Barca, il consiglio a tornare e così via...

ANCORA. No, Barca queste cose non le sapeva proprio. Poi c'era stata la vicenda di De Lorenzo ...

PRESIDENTE. E’ stata tempo prima.

DE LUCA Athos. Può dirci qualcosa sulle valutazioni di Moro sul cosiddetto golpe Borghese?

PRESIDENTE. Il golpe dell'Immacolata del dicembre 1970.

ANCORA. Io mi occupavo dell'azione di Governo e dei rapporti con le Camere ed anche dello sviluppo di questo nuovo Governo che avrebbe dovuto dare la stabilità, non mi occupavo di fatti di polizia o altro.

DE LUCA Athos. Il fatto è che io ed altri componenti abbiamo ritenuto che la sua audizione potesse essere interessante in quanto lei era un amico e quindi un possibile confidente di Moro: ha trascorso molte ore con lui in diverse circostanze e dunque poteva avere ricevuto delle confidenze, delle riflessioni che oggi avrebbero potuto rappresentare degli squarci, degli spunti utili per noi per capire le circostanze e mettere i tasselli che mancano. Dunque non è che lei dovesse, ma volevamo sapere se, in questo ruolo di confidente e di amico, fosse venuto a conoscenza di aspetti inediti, visto che non è mai stato ascoltato ufficialmente da una Commissione, che potessero concorrere ad una ricerca della verità. Non le si attribuisce nessun potere taumaturgico.

ANCORA. Se ho capito bene, se avessi ascoltato qualcosa da parte di Moro sul Quirinale penso che la ricorderei. Non aveva alcuna utilità a dirmi queste cose.

PRESIDENTE. Tutto ciò sembra essere estraneo al tipo di rapporto che lei aveva con Moro. Se ho ben capito, Moro la utilizzava come una forma di collegamento con gli altri gruppi politici...

ANCORA. ...e con un contenuto politico in vista di un assetto istituzionale, non per fare le alleanze.

DE LUCA Athos. Concludendo, mi ero fatto un'altra idea ed era il motivo per cui ero stato tra quelli che ritenevano interessante ascoltarla, cioè che lei avesse avuto confidenze nel corso dell'amicizia con Moro durante gli anni trascorsi con lui, invece mi accorgo che il rapporto è stato diverso e quindi mi riservo di leggere il suo editoriale sul "Tempo" il prossimo anno.

ANCORA. Non è un editoriale: sono almeno 15. Il prossimo non ci sarà, ormai non scrivo più articoli.

PRESIDENTE. Ringraziamo il dottor Ancora. Dichiaro chiusa l'audizione.

La seduta termina alle ore 22,20.

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